http://www.tempi.it/ No, caro Umberto Eco, il problema non è cancellare tutte le fedi, ma se la nostra fede è più forte della loro La reazione dell’europeo occidentale medio di fronte al massacro della redazione di Charlie Hebdo è quella che il pensiero dominante detta da cinquant’anni a questa parte. Ieri sera a Matrix su Canale 5 Oliviero Toscani l’ha espressa nella forma pop che John Lennon aveva cantato nel 1971 sulle note suadenti di Imagine: «La storia del mondo è piena di massacri e di omicidi ispirati dalla fede religiosa. I musulmani non hanno l’esclusiva. I Crociati uccidevano per la fede, in Norvegia un esaltato di nome Breivik ha ucciso 77 persone per restaurare la cristianità in Europa. I nazisti portavano scritto sulla divisa “Gott mit uns”. Se non ci fossero più le religioni, ci sarebbero molti massacri di meno». Immaginate un mondo senza religioni, oh come sarebbe pacifico. La versione intellettualmente colta della stessa convinzione l’ha espressa stamattina sul Corriere della Sera Umberto Eco, intervistato dal giornale milanese: «Gli uomini si sono sempre massacrati per un libro: la Bibbia contro il Corano, il Vangelo contro la Bibbia eccetera. Le grandi guerre sono state scatenate dalle religioni monoteiste per un libro. Sono le religioni del libro a provocare le guerre per imporre l’idea contenuta nei loro testi». La persona che negli ultimi cinquant’anni più intelligentemente ha obiettato a questa interpretazione relativista e tardo-illuminista della religione è un prete italiano: don Luigi Giussani. Proprio in questi giorni gli aderenti al movimento ecclesiale da lui fondato, Comunione e Liberazione, hanno iniziato un nuovo ciclo di catechesi (detto Scuola di Comunità) prendendo a riferimento un libro, Perché la Chiesa, che nel capitolo introduttivo mette il dito sull’errore concettuale, metafisico e antropologico dei promotori dell’abolizione delle religioni per il bene della pace. L’errore sta nel mancato riconoscimento del fatto che ciascuno di noi, anche l’ateo o colui che si disinteressa della religione per sciatteria o per decisione consapevole, in realtà un dio ce l’ha e fa tutti i giorni un’esperienza religiosa. L’uomo non può vivere, e di fatto non vive, senza un significato ultimo al quale dedica, o almeno tende a dedicare, la sua vita. Scrive Giussani: «Durante una conversazione in cui ebbi occasione di essere coinvolto, un importante professore universitario si lasciò sfuggire questa frase: “Se non avessi la chimica mi ammazzerei!”. Un gioco del genere, nella nostra dinamica interiore, anche quando non dichiarata, esiste sempre. Qualcosa c’è sempre che rende la vita degna ai nostri occhi di essere vissuta e senza la quale, anche se non si arrivasse ad augurarsi la morte, tutto sarebbe incolore e deludente. A quella “cosa”, qualunque essa sia, senza alcun bisogno che sia teorizzata o espressa in sistema mentale può essere infatti implicata in una banalissima pratica di vita l’uomo offre tutta la sua devozione. Nessuno può evitare una finale implicazione: qualunque essa sia, nel momento in cui la coscienza umana vi corrisponde vivendo, è una religiosità che si esprime, è un livello di religiosità che si realizza». Giussani chiamava questa dinamica interiore che definisce l’uomo “senso religioso”, e denunciava il rifiuto di riconoscerla da parte della maggioranza dei suoi contemporanei occidentali: «Esiste in noi una ripugnanza divenuta istintiva a che il senso religioso domini, determini ogni azione coscientemente. È precisamente questo il sintomo dell’atrofia e della parzialità dello sviluppo del senso religioso in noi: quella difficoltà estesa e greve, quella estraneità che avvertiamo quando ci sentiamo dire che il “dio” è il determinante di tutto, è il fattore al quale non si può sfuggire, è il criterio in base al quale si sceglie, si studia, si completa il prodotto del proprio lavoro, si aderisce a un partito, si indaga scientificamente, si cerca una moglie o un marito, si governa una nazione». Il punto decisivo, il salto di qualità che tutti siamo chiamati a fare davanti a una tragedia come la strage religiosamente motivata della redazione di Charlie Hebdo consiste proprio in questo: non si tratta di puntare il dito contro il dio degli assassini, o di esecrare il loro distorto senso religioso o di evocare lo sradicamento delle religioni dalla vita dell’uomo. La prima risposta alla provocazione rappresentata dalla violenza omicida in nome di dio compiuta da persone che sono pronte sia a uccidere che a morire come martiri in nome di quel dio, è prendere coscienza di quale sia il nostro dio, quello che determina la nostra vita, e di interrogarci intorno ad esso. Questo, scriveva Giussani, in Occidente nessuno vuole più farlo per una sola ragione: la maggioranza della gente scoprirebbe che quel dio per cui vive è inadeguato, non risponde veramente al desiderio del cuore dell’uomo, e allora dovrebbe rimettersi in discussione. Il dio dell’uomo e della donna occidentali sono il prestigio sociale, il consumo di beni, l’ebrezza del potere sulle cose e sulle persone, il piacere in tutte le sue forme e varianti, l’esaltazione narcisistica dell’immagine di sé; sono anche l’innamoramento per una persona alla quale tutto si sacrifica, il fare tutto per i propri figli, il vivere solo per la chimica o per scalare l’Himalaya. Se ognuno si interrogasse sulla religiosità implicita in questi modi di vivere, si renderebbe conto che non rispondono pienamente alla grandezza e alla profondità del desiderio del cuore umano, che deludono proprio quando appaiono più profondi (la dedizione totale alla donna/uomo che si ama, il sacrificio di sé per i figli) e si metterebbe in ricerca. Nella circostanza storica che ci troviamo a vivere, caratterizzata dalla presenza e dall’azione di singoli e di organizzazioni ramificate e adesso quasi statali (vedi il Califfato di Mosul e Raqqa) i cui appartenenti uccidono e si fanno uccidere in nome di dio, compiono sacrifici umani e sacrificano se stessi in nome del loro dio, dobbiamo chiederci se il nostro dio ci rende abbastanza forti da non sottometterci al loro dio. Dobbiamo chiederci se la nostra fede è più forte della loro, se la nostra capacità di sacrificio in nome del nostro dio è più grande della loro. Se la risposta a queste domande è negativa, l’esito storico della vicenda sarà uno solo: la sottomissione. La sottomissione alla volontà e al potere degli estremisti islamici. E non sarà una sottomissione meramente materiale, politica. Sarà anche una sottomissione spirituale, culturale. Questo purtroppo un numero crescente di intellettuali e leader cattolici non riescono a capirlo; uno spiritualismo sempre più insinuante non permette loro di capire che l’esercizio della forza politica da parte di un potere totalitario produce mutamenti antropologici in coloro su cui viene esercitata. I totalitarismi, che sono costruzioni politiche, producono conformismo e subalternità culturale nelle masse e nelle leadership delle articolazioni sociali delle masse. Non lo capiscono tanti cattolici, ma lo capiscono atei intelligenti e sofisticati come Michel Houellebecq e Michel Onfray. Il primo col suo romanzo appena uscito in Francia e il secondo in varie interviste, l’ultima delle quali è apparsa sul Corriere della Sera, convergono in un medesimo giudizio: gli europei si sottometteranno all’islam politico perché la civiltà europea è sfinita dal suo nichilismo (cioè dagli dèi inadeguati che si è data in sostituzione del Dio cristiano a partire dall’illuminismo). Dice Onfray: «Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!». Tonnellate di bombe sganciate in questi anni sulle teste dei jihadisti di vari paesi (e sui civili che avevano la sfortuna di essere loro parenti o di vivere nei pressi) e ininterrotti bombardamenti culturali a tappeto a base di pornografia, consumismo, edonismo e materialismo non hanno sortito alcun effetto, anzi hanno reso più risoluto, efficiente e numeroso il nemico: gli islamici che vanno a uccidere e a farsi uccidere per il loro dio sono sempre di più e sempre più attivi. La potenza economica, militare e tecnologica dell’Occidente, apparentemente superiore, in realtà vacilla per una semplice ragione: il nostro dio è debole, noi non siamo certi di credere veramente nel dio che professiamo, noi non siamo disposti all’estremo sacrificio, noi esitiamo a preferire la morte alla sottomissione. Il comportamento della redattrice che, minacciata di morte, ha comunicato ai terroristi i codici che hanno loro permesso di aprire la porta blindata della redazione e di fare irruzione, è la tristissima sintesi delle ragioni della prevedibile disfatta dell’Occidente. Per non perdere la vita e per non lasciare orfani i suoi figli si è sottomessa al ricatto estremo, cosa che ha facilitato l’uccisione dei suoi colleghi. A parti invertite, è praticamente certo che le cose sarebbero andate diversamente: la moglie di un terrorista e madre dei suoi figli avrebbe preferito farsi ammazzare piuttosto che mettere in condizione i corpi speciali francesi di neutralizzare il marito jihadista. Per trovare cristiani indisponibili alla sottomissione bisogna guardare a Oriente, dentro alle tende e ai prefabbricati dei profughi cristiani iracheni che hanno perduto tutto per non rinunciare alla fede. In un reportage su Tempi di qualche anno fa l’arcivescovo di Mosul rispondeva alla domanda su cosa significava essere il pastore di un gregge afflitto da estorsioni, rapimenti, uccisioni dovute alla sola colpa di credere in Cristo. «Significa insegnare che non bisogna avere paura di morire», rispondeva Amel Nona, successore di quel Paulos Rahho che era morto dopo essere stato rapito. «Ma per non avere paura di morire bisogna sapere come si deve vivere. Con la parola e con la vita noi pastori insegniamo come si deve vivere». Immaginare qualcosa del genere in Occidente, sia fra i cristiani praticanti che fra quei cristiani culturali che sono i nostri atei, è molto difficile. La sottomissione sembra davvero il pronostico favorito. Lo conferma quello che ha scritto sul Financial Times un commentatore di punta come Tony Barber: «La Francia è la terra di Voltaire, ma troppo spesso la follia editoriale ha prevalso a Charlie Hebdo. Questo non significa minimamente giustificare gli assassini, che devono essere presi e puniti, o suggerire che la libertà di espressione non dovrebbe estendersi alle rappresentazioni satiriche della religione. Significa semplicemente che un po’ di buonsenso sarebbe utile a pubblicazioni come Charlie Hebdo e il danese Jyllands-Posten, che pretendono di sostenere la libertà quando provocano i musulmani, mentre sono soltanto stupide». Naturalmente difendere il diritto di Charlie Hebdo alla blasfemia perché le cose vanno chiamate col loro nome, ed è di questo che stiamo parlando in quanto non farlo rappresenterebbe in questo momento un atto di sottomissione ai jihadisti, non significa approvare la linea editoriale di quel giornale e la filosofia che lo ispira. I redattori del settimanale sono, come tutti noi occidentali, corresponsabili dell’accaduto non perché hanno offeso dio o ferito i sentimenti dei musulmani. Dio non ha bisogno degli uomini per difendersi dalle offese, se così fosse non sarebbe Dio, e chi si sente offeso ha a disposizione molti modi di reagire all’offesa diversi dallo sterminio degli offensori. La blasfemia e la dissacrazione alimentano la violenza nella società non perché eccitano reazioni violente da parte dei credenti, ma perché se non c’è più niente di sacro, se tutto può essere dissacrato, anche la vita umana perde sacralità. Dissacrare Dio significa automaticamente dissacrare tutto ciò che da Dio proviene. Significa dissacrare le creature, dunque anche l’uomo. Se niente più è sacro, non lo è nemmeno la vita umana. Sia il jihadista che il rapinatore, sia l’antagonista del sistema che il tossicodipendente in cerca di soldi si sentiranno legittimati a violare quella vita umana che non è più sacra, in conseguenza della dissacrazione del Creatore. Con ciò non si intende dire che i redattori di Charlie Hebdo avessero tutti perso il senso del sacro. Poco tempo prima del massacro il direttore Stephane Charbonnier aveva affermato in un’intervista filmata: «Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio». Uno che dice così il senso del sacro ce l’ha. È consapevole che c’è qualcosa di grande per cui vale la pena vivere e vale la pena morire. Qualcosa che è più importante della vita del singolo perché è ciò che dà senso alla vita del singolo. John Lennon cantava che sarebbe bello vivere in un mondo dove non c’è più nulla per cui uccidere o essere uccisi. Ma la verità è che se non c’è più nulla per cui vale la pena morire, non c’è nemmeno più nulla per cui vale la pena vivere. Finché c’è qualcuno in Occidente che testimonia che ciò per cui si vive è anche ciò per cui si è pronti a morire, la guerra non è persa e la sottomissione non è inevitabile.
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