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20 gennaio 2015

Je suis un être humain
di Rosaria Gasparro
Maestra di una scuola primaria pubblica

Quella che è sempre “je suis qualcosa”. Questo dice di me il mio compagno. Ha ragione. L’io sono sembra insufficiente per predicare l’essere. Per questo ognuno cerca la sostanza del prima e del dopo per farne identità. Per farla diventare volto, che si volge altrove, che va verso. Per diventare il nome che si è e la storia che si vuole. Un ancoraggio necessario quando si cresce per appartenere ad un luogo, ad un affetto, per essere riconosciuti, attesi, visti, visi.

La costruzione del chi sono, alla luce dei fatti di Parigi, di questa guerra dislocata con le categorie persecutorie del nemico e del fratello, è la sfida pedagogica che più ci interroga.

Dovremmo educarci ad essere una moltitudine, a sentirci da più parti. A comprendere le ragioni degli altri. Ad essere plurali. A dilatare il senso del «noi» come i cerchi nell’acqua. Ogni giro un’inclusione in più, progressiva e allargata: dalla famiglia al gruppo dei pari, dalla comunità all’umanità. Scaldarsi con storie, biografie, racconti per sentire vicine geografie lontane. Affermare la logica del cambiamento: A non è mai uguale ad A, perché cambia e può essere più simile a B.

Sentire le ingiustizie e il dolore degli altri. Smontare con attenzione l’orgoglio identitario che produce esclusione, sgonfiare i confini e i destini identitari.

Sono sempre stata qualcosa. Donna, femminista, di sinistra, figlia, madre, moglie, maestra… Ma mentre mi definivo, o venivo definita, sentivo che in qualche modo finivo. Che non ero la mia carta d’identità. C’era una parte che si fissava e un’altra che rimaneva fuori e premeva. C’era ciò che non ero. Ho capito che bisogna prendere parte senza appartenere, che c’è sempre un prossimo sé non ancora raggiunto mentre sposto più in là il mio divenire. Mentre rotolo col mondo e levigo le asperità.

Dovremmo sentirci feriti allo stesso modo per quello che accade ovunque, dalla Siria alla Nigeria, dalla Francia all’Iraq, dall’Ucraina al Tibet, per un fatto semplice e luminoso, in quanto semplici esseri umani.

Allora ci dovrebbe essere l’anno zero delle identità, per ricominciare daccapo, per farsi bastare l’io sono.

Una volta ho assistito alla realizzazione di un mandala da parte di alcuni monaci buddisti con sabbie colorate. Un’opera lenta, silenziosa, piena di grazia, di gesti delicati e armonia. È iniziata all’alba e al tramonto ci siamo recati in riva al mare. Con un soffio il mandala è stato riconsegnato all’aria e alle onde. Dovrebbe essere questa la costruzione della nostra identità. Un’opera lunga, lenta, aperta, un capolavoro da disperdere.

Per questo alla fine mio marito ha torto.

 

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