L'Huffington Post

06/05/2015

 

La guerra dello Yemen sconfina in Arabia Saudita. Si sta avverando l'ambizione di Osama bin Laden contro i sauditi

di Umberto De Giovannangeli

 

La guerra nel regno Saud. La guerra nel cuore della più influente, nevralgica, petromonarchia del Golfo. La guerra nella terra che dette i natali al “miliardario del terrore”: Osama Bin Laden.

La guerra che dilania da mesi lo Yemen si è estesa alla vicina Arabia Saudita, e sempre più assume i connotati di una resa dei conti tra Riad e Teheran, tra sunniti e sciiti. Non è un’azione di guerriglia, “mordi e fuggi”, e nemmeno un’operazione senza ritorno, affidata a qualche “shahid” (martire), si è trattato di una vera e propria operazione di guerra, pianificata nei minimi dettagli: i ribelli Houthi si sono infiltrati in Arabia Saudita e attaccato Najran, città di confine.

Un’azione da esercito, non da milizia jihadista: sostenuti da un fitto fuoco di artiglieria, i ribelli sciiti yemeniti hanno attraversato il confine saudita addentrandosi fino a Nairan. Testimoni locali raccontano che i colpi di mortai hanno provocato danni ad abitazioni, scuole, edifici pubblici, vetture. Il bilancio provvisorio delle vittime conterebbe almeno due morti e una decina di feriti. Non solo: le forze terrestri Houthi hanno fatto rientro in Yemen portando con sé cinque militari sauditi. La sfida alla dinastia Saud è lanciata.

Il regno è sotto attacco. Agli odiati sciiti sta riuscendo ciò a cui Osama bin Laden ambiva ma che con la sua al Qaeda non è riuscito a realizzare: destabilizzare il regno saudita. Si scrive Houthi, si legge Iran. Iran contro Arabia Saudita.. L'Iran, infatti, ha proprio negli Houthi il suo principale strumento di influenza nello Yemen. Sfruttando la comune appartenenza allo sciismo, l’obiettivo del regime iraniano sarebbe quello di favorire la creazione di un movimento per certi versi simile al libanese Hezbollah, assicurandosi un formidabile strumento nella guerra per procura che lo vede opposto in vari paesi della regione (Siria, Libano, Bahrain, Iraq e, in misura minore, Afghanistan).

L’obiettivo del regime iraniano sarebbe quello di favorire la creazione di un movimento per certi versi simile al libanese Hezbollah, assicurandosi un formidabile strumento nella guerra per procura che lo vede opposto in vari paesi della regione (Siria, Libano, Bahrain, Iraq e, in misura minore, Afghanistan).

Dal canto suo, come rileva Eleonora Ardemagni, analista di “Limes”, l’Arabia Saudita interferisce nelle vicende dello Yemen perché lo considera una minaccia potenziale alla sicurezza del regno. Il peso demografico di Sana’a e la sua progressiva incapacità di controllare il territorio hanno spinto Riyad a sviluppare una fitta rete di legami clientelari nel Paese confinante.

Una ragnatela facilitata dal fattore tribale: capi clan, militari, uomini politici (che spesso appartengono alle prime 2 categorie) vengono stipendiati con regolarità dai Sa'ud, disposti a comprare peso politico nelle decisioni della confinante repubblica. La situazione si fa sempre più esplosiva e la “polveriera yemenita” rischia di esplodere con effetti destabilizzanti per i Paesi confinanti. Quanto all’importanza geopolitica dello Yemen, a darne conto è la stessa analista di Limes: lo Yemen, proteso sul Golfo di Aden e sullo stretto del Bab el-Mandeb, è il naturale crocevia fra mondo arabo e mondo africano, il teatro d’intersezione tra i flussi del jihad della costa orientale africana (gli Shabab somali), quelli siro-iracheni oggi dominati dallo Stato islamico, nonché richiamo per figure del fondamentalismo centroasiatico (un comandante uzbeko e uno ceceno, Abu Muslim Al-Uzbeki e Abu Islam Al-Shishani, sarebbero stati uccisi nella regione di Abyan nel 2014).

Ulteriori preoccupazioni geopolitiche arrivano dallo stretto di Bab-el-Mandeb, in arabo lo stretto dei "lamenti" o delle "lacrime". Da qui passano le rotte che collegano il mar Mediterraneo all’Oceano Indiano, attraverso il canale di Suez e il mar Rosso. Secondo il recente rapporto dell’Eia (l’Agenzia statunitense per le informazioni sull’energia) “World oil transit chockepoints”, Bab-el-Mandeb è il quarto "collo di bottiglia" al mondo per volume di greggio e prodotti petroliferi trasportati. Nel 2013, l’Eia ha stimato che dallo stretto sono passati ogni giorno 3,8 milioni di barili (2,9 del 2009).

Il rapporto mostra come attraverso questi luoghi (chiamati "colli di bottiglia" per il loro spazio limitato che pone restrizioni alla grandezza delle imbarcazioni che devono attraversarli) passi il 63% della produzione di greggio mondiale, 56,5 milioni di barili al giorno su un totale di 90,1. Si tratta dunque di luoghi critici per gli approvvigionamenti energetici, esposti a incursioni di pirati, attacchi terroristici, incidenti marittimi, fuoriuscite di petrolio e instabilità politica, tanto che un blocco alla navigazione è in grado di incidere sui costi dell’energia mondiale.

Non si tratta “solo” di una guerra inter-musulmana. È qualcosa di ben più complesso. E nevralgico per il sistema-mondo. Perché la centralità del Golfo risiede dal suo tesoro energetico e finanziario, oltre che dal patrimonio religioso (Mecca, Gerusalemme, Najaf, solo per citare tre luoghi di irradiamento delle fedi monoteistiche. Il baricentro geonergetico del pianeta – annota Lucio Caracciolo - starà pure slittando verso le Americhe, l’Africa e l’Asia ma i Paesi del Golfo detengono ancora il 48% delle risorse globali provate di petrolio e il 43% di quelle di gas.

Quanto alla finanza, nelle casseforti dei petromonarchi galleggiano imponenti ricchezze di matrice energetica, da cui economie occidentali in drammatico affanno Soldi pesanti per al City e per Wall Street. Per stare ai fondi sovrani, quelli della Penisola arabica (gestiti in prima linea da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar) valgono il 355 degli omologhi asset mondiali. Se salta il Golfo, insomma, il nostro futuro sarà buio, misero e nero. Quella che si sta giocando ora è una partita cruciale per Riad. Non a caso nella guerra in Yemen, sono impegnati in prima linea il vice ministro dell’Interno, il principe ereditario Mohammed bin Nayef, e il ministro della Difesa, Mohammed bin Salman, due delle figure più influenti del Regno dopo Re Salman.

La chiave sciiti contro sunniti spiega solo in parte lo scontro nel e sul Golfo. Spiega ancor di più, e meglio, un’altra chiave di lettura: la crisi di legittimità dei poteri. Nessuno ne è esente: non lo è l’Iran, tanto meno l’Arabia Saudita. Sotto il profilo politico-ideologico, i fronti esprimono due inconciliabili tendenze di fondo: rivoluzione o conservazione. Con mille gradazioni, sfumature, declinazioni diverse. Ma alla fine la contesa è fra chi intende cambiare, anche con la violenza, assetti sociopolitici figli di un passato che pare non avere più futuro, e chi vi si abbarbica. L’esito è incerto, salvo che nel ridisegno delle carte geopolitiche.

Per questo, la guerra che rischia di deflagrare dallo Yemen alla confinante Arabia Saudita, suona anche una sfida al “re riformatore”. Cambiare per non morire. Dare spazio a una classe dirigente più giovane per non soccombere all’Iran. Ecco allora il settantanovenne Salman Bin Abdulaziz Al Saud, dar vita a una rivoluzione di palazzo, che porta l’ex ambasciatore a Washington.

Rottamazione che non risparmia anche i parenti più stretti di re Salman, come il principe-fratello Muqrin, dimessosi di “sua spontanea volontà” per fra posto al principe-nipote Nayef, 55 anni, ministro dell’Interno, l’uomo che conduce la battaglia contro il terrorismo. e gran mastino dell’antiterrorismo. Intanto, fa le prove da “re” il principe-figlio di Salman , il trentenne Mohammad Bin Salman.

La sua è una ascesa rapida quanto inarrestabile: in pochi mesi è diventato ministro della Difesa, ed è lui che conduce, sul campo di battaglia yemenita, le operazioni di guerra.”Il punto di vista di Riad si può capire – rileva Robert Fisk, tra i più grandi conoscitori dell’universo mediorientale - A nord, le Guardie della rivoluzione iraniane sciite forniscono assistenza al governo iracheno dominato dagli sciiti nella loro lotta contro i musulmani sunniti dell’Isis. A nord ovest, le Guardie della rivoluzione iraniana forniscono assistenza al governo alawita (leggi sciita) del presidente Bashar al-Assad contro l’Isis, al-Nusra [gruppo sunnita legato ad Al Qaeda. N.d.tr.] e contro ciò che resta del cosiddetto “Esercito libero siriano”. Gli Hezbollah sciiti provenienti dal Libano stanno combattendo accanto l’esercito di Assad, così come i musulmani sciiti afgani, che portano uniformi siriane. L’Arabia saudita afferma che i iraniani sono in Yemen con gli Houthi.

E’ improbabile, ma sicuramente le loro armi sono in Yemen”. La storia, annota sempre Fisk, “dirà se gli attacchi contro lo Yemen sono l’inizio di una grande guerra civile tra sunniti e sciiti in Medio Oriente. Questo potrebbe andar bene all’Occidente – e a Israele – nella convinzione che gli arabi siano in guerra tra loro. Ma potrebbe anche essere vero che si tratti dell’ultimo tentativo dei sauditi per dimostrare di essere un’importante potenza militare”.

Nella “polveriera saudita-yemenita” si rafforzano vecchie alleanze e se ne determinano di nuove. A fianco dell’Arabia Saudita si sono subito schierati Egitto, Giordania, Sudan, Pakistan, Bahrain, Kuwait, Qatar e Marocco che garantiranno il sostegno militare a Riad. Alcuni Stati hanno promesso l’invio di truppe di terra (Egitto, Giordania, Sudan e Pakistan), altri invece forniranno aerei da combattimento (Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Kuwait, Qatar, Giordania, Marocco e Sudan). Riad potrà contare anche sull’appoggio logistico e d’intelligence da parte degli Stati Uniti, che però non sono coinvolti direttamente nel conflitto.

In questo contesto, rileva Nicola Pedde, Direttore del Institute of Global Studies (IGS) e della rivista Geopolitics of the Middle East, la narrativa araba del conflitto è di fatto impostata sulla percezione di un ruolo ostile dell’Iran, longa manus degli Houthi, con il sostegno indiretto delle Nazioni Unite. Si aggiunga poi la problematica figura dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, cui viene di volta in volta attribuita una differente affiliazione e conseguentemente un differente obiettivo.

Gran parte della stampa locale si riferisce invece al presidente Abdo Rabo Mansour Hadi, fuggito prima ad Aden e poi in Arabia Saudita dopo essersi ritrovato isolato politicamente e militarmente, come lo strenuo e legittimo difensore degli interessi nazionali contro la generica minaccia del “terrorismo”. La chiave di lettura araba del conflitto, nell’ottica degli interessi sauditi soprattutto, è proprio questa. Tutto ciò che ruota intorno agli Houthi, agli sciiti in generale e alle forze che si oppongono al presidente Hadi è un conglomerato “terroristico”, il cui unico scopo è quello di destabilizzare lo Yemen e la Penisola Araba.

E nella partita entra anche Israele. Secondo un recente rapporto dei media israeliani, il programma nucleare iraniano ha portato l’Arabia Saudita e Israele ad avvicinarsi. Una fonte europea di alto livello ha confermato che Riad si è offerta di lasciare che i caccia israeliani usino il suo spazio aereo per attaccare l’Iran, se se necessario. In cambio Israele dovrebbe riprendere, con sostanziali progressi, i colloqui di pace con i palestinesi. “Le autorità saudite sono completamente coordinate con Israele su tutte le questioni relative all’Iran,” rimarca la fonte diplomatica a Bruxelles. L’utilizzo dello spazio aereo saudita significa che le Forze di Difesa israeliane potrebbero colpire Teheran da una distanza minore, senza dover volare in tutto il Golfo Persico.

D’altro canto, Riad ha già portato nella sua orbita l’Egitto: se il generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi ha potuto portare a termine il suo putsch contro i Fratelli Musulmani e il presidente islamista Mohammed Morsi, è anche grazie al sostegno, economico, miliardario ricevuto dalla petromonarchia saudita, disposta a calare sul tavolo decine di miliardi di aiuti militari nel momento in cui gli Stati Uniti avevano minacciato di sospendere le forniture militari (valore 5miliardi di dollari) al regime del Cairo se al-Sisi non avesse moderato la repressione di piazza contro la Fratellanza. Nell’ora del bisogno, i Saud vanno all’incasso e portano dalla loro parte la potenza militare del più popoloso Paese arabo. Ma ciò non basta.

La minaccia iraniana è troppo grande per non calare l’asso di picche. Musulmano, sunnita. Non c’è tempo per avviare un riarmo nucleare diretto, anche se questo resta nei piani di Riad come della Giordania e dello stesso Egitto, altri Paesi sunniti che si sentono sotto una doppia minaccia: quella sciita iraniana e la minaccia dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Ecco allora la mossa decisiva. Portare al proprio fianco la potenza nucleare di Islamabad. Il Pakistan partecipa alla riunione che sancisce il “patto sunnita”: le bombe atomiche sono già pronte, e a disposizione di una sorta di “Nato sunnita” pronta ad entrare in combattimento se l’Iran e le milizie alleate (hezbollah libanese, Hamas palestinese, Houthi yemeniti…) perseguiranno la strada della costruzione del nuovo “impero persiano”.

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