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14/09/2014

 

Obama, strategia ad alto rischio in Medio Oriente

di Silvia Favasuli con Andrea Prada Bianchi

 

Tutti i pericoli delle scelte di un'amministrazione che non può placare il Medio Oriente. Non ora.

 

A Barack Obama non poteva capitare di peggio. Lo scenario Medio Orientale in cui si trova a lavorare non è mai stato tanto intricato e pericoloso. Lo è così tanto che qualsiasi mossa l’amministrazione Usa farà per tentare di arginare la minaccia dell’Isis, avrà conseguenze spiacevoli. «Big Bang Strategy» la chiama già qualche giornale Usa.

Dalla decisione di coinvolgere gli Stati arabi a quella di addestrare l’Esercito libero siriano (la parte moderata dell’opposizione ad Assad), nessuna delle decisioni prese in questi giorni dal Presidente Obama appare davvero efficace, e tutte sono invece gravide di insidie.

Lo raccontiamo in questo articolo, dove alcuni analisti spiegano i pericoli delle scelte fatte dagli Usa e sollevano un’unica incalzante perplessità: “Ma Obama ha in testa un progetto politico di Medio Oriente?” La sensazione è che non voglia proprio affrontare fino in fondo la questione. Almeno, non a pochi mesi dalle elezioni di Mid-Term. Perché lì, sul fondo, spiegano gli analisti, c’è l’Iran e la necessità di riabilitare un Paese sciita finora nemico acerrimo degli Usa.

Mossa n. 1: La coalizione di Paesi Arabi contro l’Isis

Gli Stati Uniti hanno ottenuto giovedì 11 settembre il sostegno di dieci Paesi arabi alla campagna militare contro Isis, l’ultimo caso di fondamentalismo religioso, volto a promuove l’instaurazione di un Califfato tra Siria e Iraq (e anche in una Libia post Gheddafi ormai fuori controllo e pericolosamente assente dal dibattito ma vicinissima alle coste italiane, ndr) in cui imporre la Sharia, la legge islamica. Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi sono tra i Paesi alleati, tutti caratterizzati da una forte presenza interna di elementi fondamentalisti sunniti, soggetti o gruppi che praticano una interpretazione dogmatica e integrale dell’Islam. Come L’Isis.

In Kuwait, ad esempio, ha base la Society of the Revival of Islamic Heritage, una associazione religiosa etichettata dalla Russia come organizzazione terroristica, e che gli Usa proibiscono di contattare per affari commerciali.

E ancora. Negli Stati Uniti in questi giorni si chiede la pubblicazione di 28 pagine stralciate dal report del Joint Congressional Inquiry sull’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Lì dentro ci sarebbe, secondo alcuni ufficiali che le hanno lette, la prova di un coinvolgimento dei Sauditi nell’attacco.

«Stati come Arabia Saudita, Qatar, Emirati hanno finanziato e sostenuto in passato il fondamentalismo per mandare all’estero personaggi non desiderati in patria», spiega Gianluca Pastori, della facolta di Scienze politica dell’università Cattolica, «una galassia di movimenti eversivi rispetto all’ordine costituito. Osama Bin Laden fu uno di loro, mandato a combattere la Guerra Santa in Afghanistan».

Ora quei Paesi si trovano nella posizione ambigua di chi da un lato deve concedere l’appoggio agli Stati Uniti per non mettersi in una posizione difficile sul piano internazionale. Ma dall’altro rischia di scontentare una parte della sua “opinione pubblica”, le aree fondamentaliste. «Per questo l’adesione formale e inevitabile alla coalizione contro l’Isis non porterà a una vera partecipazione militare», continua Pastori. Gli Usa «nemmeno se lo aspettano», del resto, e per loro sarà sufficiente «un aiuto economico o un ritorno di visibilità».

Ma non è tutto. A questi Paesi conviene muoversi con cautela. Dalla partecipazione ai raid contro Isis potrebbero ricavarne un rafforzamento anche violento dei movimenti fondamentalisti interni, spiega Pastori. Con conseguenze pericolose per tutti, Medio Oriente e Occidente.

Mossa n. 2: Addestrare i combattenti dell’opposizione moderata siriana

Accettando di collaborare con gli Usa, l’Arabia Saudita ha messo a disposizione i suoi campi militari per l’addestramento dei combattenti dell’opposizione moderata siriana, quell’Esercito libero siriano che si costituì allo scoppio della guerra civile contro Assad e formato per lo più da disertori dell’esercito regolare. Si tratta di soldati che sul campo combattono sia contro gli jihadisti dello Stato Islamico che contro le truppe di Assad (cosa che ha provocato le reazioni di Mosca, Teheran e Damasco, che tacciano gli Usa di «aggressione»). Ma. La scelta di addestrare e quindi rafforzare i moderati siriani non convince. «Se andiamo a guardare il fronte siriano, in questo momento vediamo che è composto quasi interamente da gruppi islamisti», racconta Roberto Bongiorni, inviato in Siria del Sole 24 Ore. «Ci sono Jabat al Nusra, Isis e il Fronte Islamico, posizionati per lo più in città o posti di confine strategici». Mentre i moderati sono davvero deboli. «Il Libero esercito siriano controlla alcuni quartieri di Aleppo (a est), dell'Anti Libano (zona Yabrud - Qalamun) alcune zone della provincia di Idlib sul confine con la Turchia, all'altezza di Hatay/Alessandretta, zone a nord di Homs e pochissime aree di Deir ez Zor», spiega Bongiorni.

«Addestrando i moderati siriani gli Usa possono fare poco e con un successo limitato». E indispettire invece Assad e i suoi alleati. Le ragioni della debolezza dell’Esercito libero siriano sono presto dette. «Non hanno mai avuto una struttura verticale precisa e sono stati per lo più un aggregato di forze, piccole katiba, battaglioni inclini a cambiare spesso alleanza», continua Bongiorni. Tanto che gli stessi Usa hanno smesso a un certo punto di fornire loro armi pesanti, visto l’alto rischio che finissero nelle mani sbagliate. Ma senza armi, hanno potuto fare ben poco contro l’esercito di Assad e si sono indeboliti.

Mossa n. 3: La (non) strategia politica degli Usa in Iraq

In Iraq gli Stati Uniti hanno premuto affinché il premier sciita al Maliki, appena rieletto lo scorso maggio, lasciasse il posto a un nuovo volto. E così è stato. L’11 agosto Al Abadi è stato nominato premier dal Presidente Masum. La mossa sarebbe servita, nelle intenzioni degli Usa, a raccogliere il favore della popolazione sunnita irachena, estromessa negli ultimi anni da ogni ruolo di potere per volere di al Maliki.

C’è una cosa infatti su cui gli analisti concordano. Se l’Isis riesce a mantenere il controllo di ampi territori tra Iraq e Siria è perché gode di un legame stretto con le tribù sunnite locali. Esse, cioè, agevolano o comunque non ostacolano la presa di potere da parte degli jihadisti. «È una sorta di vendetta contro i soprusi del governo al Maliki», spiega Roberto Bongiorni, giornalista inviato del Sole 24 Ore in Siria. Per poter sconfiggere Isis, dunque, è fondamentale scindere questo legame. Ma la mossa politica degli Usa in Iraq non è sufficiente.

La questione non è nuova all’Iraq. Successe già tra 2003 e 2006, ai tempi della guerra di Bush, quando le tribù sunnite si allearono con Al Qaeda in Iraq (il gruppo terroristico che con la caduta di Saddam prese il controllo di molte aree irachene, a partire dal governatorato di Al Anbar). Finché a un certo punto la popolazione, stanca delle violenze e dei soprusi degli jihadisti, tolse loro il sostegno.

Senza appoggio delle tribù locali - accesso a loro case e infrastrutture, senza la possibilità di nascondere armi nelle abitazioni civili - al Qaeda perse potere. Fu allora, nell’estate del 2007, che il Generale Petraeus attuò la sua strategia. «Inviò 30.000 uomini in Iraq e chiese loro di lasciare le basi militari per insediarsi nei villaggi e supportare la polizia locale nel garantire la sicurezza dei civili. Gli Usa costruirono fogne, strade, e riportarono l’acqua potabile nei villaggi», spiega Andrea Beccaro, analista e autore di La Guerra in Iraq. Gli Usa si sostituirono ad al Qaeda e conquistarono la fiducia della popolazione. Parallelamente però proposero alle tribù sunnite una strategia politica: un governo inclusivo che desse potere politico a tutte le minoranze del Paese, sciiti, curdi e sunniti. Quello che poi sarebbe divenuto il governo di al Maliki, appunto.

«Anche questa volta, spiega Beccaro, la popolazione si stancherà della violenza dei miliziani jihadisti. Ma ora non basterà a “recuperare” i sunniti» in un progetto unitario di Iraq.

Se infatti nel 2007 gli Stati Uniti contavano su un progetto politico nuovo da proporre ai sunniti, in nome del quale costruire con loro una nuova alleanza, ora quella carta gli Usa non ce l’hanno più. La popolazione sunnita è disillusa. Il governo guidato dallo sciita al Maliki, che avrebbe dovuto garantire la partecipazione politica di tutte le minoranze, si è rivelato un fallimento. «E i sunniti si sono ritrovati nuovamente oppressi nel loro stesso Paese, esclusi dalla partecipazione politica».

Infatti, il passaggio di consegne avvenuto nelle ultime settimane da al Maliki a Al Abadi - un altro sciita - non è sufficiente a garantire ai sunniti il ritorno alla politica. «È un governo identico a quello precedente», commenta Beccaro, senza contare che i ministeri chiave, Difesa e Interni, sono ancora scoperti. Il rischio che si apre è quello della frammentazione del territorio iracheno.

Mossa n. 4: Armare i curdi

La forza più affidabile per gli Stati Uniti in questo momento sono le milizie curde Peshmerga, al lavoro fin dalla prima ora accanto agli Usa nella lotta contro Isis. Grazie all’azione mirata di raid Usa e combattimenti a terra dei Peshmerga, ad esempio, è stata riconquistata a metà agosto la diga di Mosul, asset strategico che avrebbe dato un potere di minaccia enorme all’Isis. «Ma i curdi alla fine di tutto chiederanno il conto», mette in guardia Roberto Bongiorni. E ciò che vogliono è l’indipendenza dello Stato curdo. Cosa che gli Stati Uniti vedono di cattivo occhio perché darebbe molto fastidio a due importanti attori regionali, Iran e Turchia, alleata, quest’ultima degli States.

Ma ancora una volta, gli Usa «non sembrano volersi chiedere: “Cosa accadrà dopo?”», incalza Bongiorni.

Mossa n. 5, quella mancante

«I raid di Obama su Siria e Iraq sono assolutamente necessari per togliere alle milizie luoghi sicuri in cui riparare, riarmarsi, riorganizzarsi. Ma non sono sufficienti», commenta Gianluca Pastori. Il punto, sottolinea il professore, è che gli Stati Uniti non vogliono prendere una decisione politica. «Scegliendo di attaccare Isis, Obama ha fatto una scelta solo militare. Non si è impegnato in un progetto di ricostruzione e rimodellamento politico del Medio Oriente. Gli Usa invece in questo momento dovrebbero chiedersi: Nel Medio Oriente del dopo Isis, quale sarà il ruolo degli Stati Uniti? Resteranno garanti dell’ordine regionale? E di quale ordine? Continueranno a marginalizzare i Paesi dell’“Asse del male”, Siria e Iran, oppure proporranno un processo politico volto a sdoganare Teheran? E se lo faranno, il risultato sarà positivo?». Sono domande, queste, cui Obama e la sua amministrazione sembrano non avere voglia di dare una risposta. 

La mossa mancante degli Stati Uniti, insomma, è un progetto politico credibile che coinvolga i soggetti interessati, un progetto che vada oltre i confini dell’Iraq e sia una strategia generale in tutto il Medio Oriente. Ma è una mossa troppo pericolosa. Perché potrebbe portare al rafforzamento di Teheran nella regione, con il rischio, spiega ancora Pastori, «di un attacco fortissimo a Obama da parte dell’opposizione interna americana. Proprio a ridosso delle elezioni di Mid Term.

 

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