L'Huffington Post

01/04/2015

 

Turchia nel caos a due mesi dalle elezioni. Il pugno di ferro di Erdogan scricchiola sotto mille tensioni

di Giulia Belardelli

 

Mancano poco più di due mesi alle elezioni in cui la Turchia dovrà decidere se proseguire con il modello Erdogan, oppure voltare pagina dopo 12 anni di progressiva centralizzazione del potere nelle mani di un solo uomo. La struttura di potere concepita dal presidente sembra avvicinarsi a un bivio: o una cementificazione ancora più forte, oppure il crollo, su cui soffiano con varia intensità le tante anime dell’opposizione.

Di certo la Turchia è alle prese con un momento di una delicatezza estrema. Gli ultimi giorni sono stati un incubo.

Le ultimissime notizie parlano di un attacco al quartier generale della polizia a Istanbul: secondo Hurriyet online, due assalitori sono stati uccisi e due agenti feriti nell'assalto.

Si tratta solo dell'ultima crisi di una lunga serie. Il sequestro del magistrato Mehmet Selim Kiraz da parte di due esponenti del gruppo di ispirazione marxista-leninista Dhkp-C; l’irruzione di un uomo armato in una delle sedi del partito Akp, che fa capo proprio al presidente Erdogan; il più grande blackout degli ultimi 15 anni, che ha condizionato oltre 76 milioni di persone in 80 delle 81 province turche.

E ancora: in un paio di giorni, due aerei della Turkish Airlines costretti a cambiare rotta per allerta terrorismo; le polemiche per l’insabbiamento dell’inchiesta “Balyoz”; il crescente malumore delle opposizione per la stretta autoritaria, di cui la “legge bavaglio” approvata dal Parlamento turco lo scorso 27 marzo non è che l’ultima tappa. E poi, in ordine sparso: la rabbia dei giovani che hanno visto soffocare nel sangue la protesta di Gezi Park; la questione curda, su cui Erdogan ha iniziato a litigare persino con il primo ministro Ahmet Davutoglua cui lui stesso ha lasciato l’incarico; il biasimo internazionale per un paese accusato di praticare la censura e limitare fortemente le libertà personali.

L’obiettivo elettorale di Erdogan è presto detto: fare in modo che il “suo” Akp (di cui oggi il presidente è Davutoglu) ottenga alle parlamentari di giugno una maggioranza sufficientemente ampia da modificare la Costituzione, introducendo così un sistema presidenziale che rafforzi ancora di più i poteri del presidente-sultano. A giudicare dagli ultimi sviluppi, però, Erdogan potrebbe non avere vita facile.

Innanzitutto ci sono le insolite tensioni tra lo stesso Erdogan e il primo ministro Davutoglu. "C'è una lotta di potere tra i due - ha detto al Financial Times Ahmet Hakan, noto analista turco - perché Erdogan dice 'Voglio il controllo', mentre Davutoglu dice ‘Il primo ministro sono io e voglio usare i miei poteri’”. Lo scontro si è palesato su diversi temi, a partire dal negoziato con i ribelli curdi del Pkk per continuare con alcune questioni economiche. L'atmosfera è ben diversa da quella che si respirava quando Erdogan ha affidato a Davutoglu il governo e l'Akp, convinto di poter contare su di lui per ottenere, alle parlamentari di giugno, una maggioranza abbastanza ampia da stravolgere una volta per tutte la Costituzione.

Davutoglu è consapevole del fatto che questa riforma significherebbe l'abolizione o almeno un forte ridimensionamento della carica che ricopre. "Quando Davutoglu è diventato primo ministro - ha detto al FT un esponente di spicco dell'Akp - sapeva bene che il suo compito era traghettare il paese verso una nuova costituzione e un nuovo sistema. Ecco perché Erdogan gli ha assegnato quell'incarico". Ma ora, secondo l'esponente dell'Akp, "i legami di fiducia" tra i due si sono rotti e di conseguenza Erdogan - che pure, da capo dello Stato, dovrebbe rimanere politicamente neutrale - lascerà poco spazio a Davutoglu nella preparazione delle liste per le elezioni giugno, che dovrà avvenire entro il 7 aprile.

L'ultimo motivo di scontro tra i due è la questione dei negoziati di pace con il Pkk. Sul tema, Erdogan critica quelle che considera concessioni eccessive del governo ai curdi. Gli ha risposto il vice premier Bulent Arinc, che ha definito le prese di posizione del presidente come "emotive" e "personali" e ha rivendicato l'autonomia del governo. La risposta ad Arinc è arrivata da un fedelissimo di Erdogan, il sindaco di Ankara Melih Gokcek, che ha chiesto al vice premier di dimettersi. In tutta risposta, Arinc ha accusato il sindaco di gravi atti di corruzione, annunciando rivelazioni in proposito dopo le elezioni. L'effetto della diatriba è stato l'apertura di un'inchiesta giudiziaria tanto su Gokcek (per possibile corruzione) quanto su Arinc (per mancata denuncia).

L'opposizione - una vasta fetta della popolazione che va dai repubblicani ai socialisti passando per il partito Curdo che per la prima volta si presenterà alle elezioni come tale – spera che queste tensioni contribuiscano a indebolire il partito di Erdogan. Di fronte agli ultimi e attacchi, il presidente ha già dimostrato di voler reagire con il pugno di ferro.

La Turchia darà la caccia alle "forze oscure" che sono dietro al tragico sequestro del procuratore Kiraz: è la promessa del governo che con il ministro della Giustizia turco, Kenan Ipek, ha definito l'irruzione di martedì nella procura di Istanbul "una minaccia per la nazione". Davanti alla bara del procuratore avvolta nella bandiera turca esposta nell'atrio del tribunale, Ipek ha assicurato che "lo Stato è abbastanza potente da rintracciare chi si cela dietro questi farabutti". Da parte sua, il presidente Recep Tayyp Erdogan, ha accorciato la visita in Romania per rientrare in anticipo ad Ankara. "È essenziale che crede nella democrazia si erga contro certi attacchi", ha affermato.

La decisione del presidente di imporre la censura sul blitz delle forze dell’ordine non è piaciuta alla stampa indipendente. "Lo Stato non riesce a proteggere il suo pm", titola il quotidiano di sinistra Sozcu. Per Cumhuriyet, la tragica vicenda mette in luce che "la gente non si fida più della giustizia" e che "la repressione delle proteste e l'insabbiamento della giustizia spingono alcuni a decidere che la violenza è l'unica soluzione". Solo martedì scorso il premier Ahmet Davutoglu aveva messo in guardia dal rischio di un aumento della violenza, esortando tutti i partiti a "formare un fronte unito contro il terrorismo". Peccato che l’idea di una collegialità non piaccia affatto al presidente-sultano. Che ora deve fare i conti con una situazione sempre più complicata, come dimostrano i focolai di scontri che si sono riaccesi questa mattina in alcuni quartieri di Istanbul.

 

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