http://www.lintellettualedissidente.it 20 novembre 2015
Il Wahhabismo di Gabriele Repaci
Le battaglie si vincono solo sapendo contro chi si combatte. E per sconfiggere i terroristi del sedicente Stato Islamico dobbiamo capire che costoro non sono solo terroristi islamici. Certo, essi usano il terrorismo in nome dell’Islam. Ma la loro è solo una peculiare visione di tale dottrina che ha origine nel cosiddetto Wahhabismo un movimento di riforma religiosa nato per riaffermare, di fronte alla “deviazione dottrinaria”, al “lassismo” e all’”idolatria”, quello che secondo i suoi sostenitori sarebbero i principi primi contenuti nel Corano. Essi infatti definiscono il proprio movimento come il semplice richiamo alla «dottrina dell’unicità di Dio» (al-da’wah il al tawhid). Esso sarebbe divenuto in seguito l’ideologia di stato dell’Arabia Saudita. Il movimento wahhabita prende nome dal suo fondatore Muhammad ibn?Abd al-Wahhab un impetuoso predicatore nato nel 1702 o nel 1703 nella città di al-Uyaynah nel Najd, una vasta regione della penisola arabica. La sua famiglia, sin da suo nonno che era un famoso giudice in questioni religiose, era composta da studiosi appartenenti alla tradizione conservatrice hanbalita, una delle principali scuole di pensiero giuridico sunnita. A dieci anni aveva memorizzato tutto il Corano, e già da adolescente aveva compiuto lo hajj, il pellegrinaggio canonico a La Mecca che ogni fedele musulmano che ne abbia le possibilità fisiche ed economiche deve fare almeno una volta nella vita. Poco dopo egli si recò al centro religioso di Medina, studiando insieme ad altri esperti religiosi, oltre che a suo padre. A quel tempo aveva già cominciato a predicare nella sua città natale, e risultò evidente che egli era un personaggio controverso sin dall’inizio. I suoi insegnamenti erano basati sul Corano stesso e sugli hadith ovvero l’insieme dei detti, fatti e atteggiamenti del Profeta Muhammad, trasmessi per testimonianza dei suoi compagni e contemporanei. Egli respinse l’influenza dei dotti musulmani esperti in scienze religiose, i cosiddetti ulama, i quali vedendo nei suoi insegnamenti una minaccia cercarono di ridurre al minimo la sua influenza. Fu costretto a lasciare al-Uyaynahe ciò segnerà la prima di molte occasioni in cui sarà costretto alla fuga per essere entrato in contrasto con figure potenti. Fu a questo punto che si recò a La Mecca e a Medina. Fra le figure che ebbero influenza sul suo pensiero vi fu Muhammad Hayat-al Sindi, uno studioso musulmano proveniente dal subcontinente indiano che aveva assistito al deterioramento dell’Impero Moghul, il quale convinse ibn?Abd al-Wahhab che il ritorno alla purezza del messaggio coranico avrebbe potuto rigenerare le perdute glorie politiche. Ibn?Abd al-Wahhab studiò anche a Basra (Bassora) in Iraq. In questo periodo egli era considerato un erudito giovane studioso, e il suo maestro Muhammad al-Mujmui, concesse ai propri figli di studiare con lui. A Bassora probabilmente incontrò studiosi del ramo rivale dell’Islam quello shi’ita, che egli aveva denunciato in un trattato. Ma la sua disputa non era in primo luogo con l’Islam shi’ita e le confraternite sufi che egli più volte aveva criticato. Piuttosto essa era motivata soprattutto dalla sua strenua difesa del principio del tawhid ovvero dell’Unicità di Dio. Egli ripudiò la fede in qualsivoglia idolo, e si rifiutò sempre di associare qualsiasi oggetto terreno con il divino. Espulso da Basra per le sue idee radicali fece ritorno nella sua città natale e poi a Al-Ahsa ed infine a Huraymila dove suo padre aveva preso residenza. Ad HuraymilaIbn?Abd al-Wahhab scrisse il più noto dei suoi 15 trattati, Kitab al Tawhid, il Libro dell’Unicità Divina il quale recentemente è stato distribuito dai miliziani dello Stato Islamico ad al-Bab nel Governatorato di Aleppo. Fu in questo periodo che egli iniziò ad attirare un gran numero di sostenitori, e due tribù locali unirono le proprie forze per accettarlo come leader religioso. Egli si fece anche un pari numero di detrattori. Alcuni di essi organizzarono un tentativo di assassinarlo che tuttavia fallì. Ancora una volta, fece ritorno nella sua città natale al-Uyaynah. Ibn?Abd al-Wahhab trovò protezione militare da parte del sovrano locale Uthmanibn Hamid ibn Muammar. L’alleanza avrebbe prefigurato in seguito la collaborazione di Ibn?Abd al-Wahhab con Muhammad ibn Saud, il fondatore dell’Arabia Saudita, che avrebbe portato a Ibn?Abd al-Wahhab nuovo potere e influenza. È stato durante questo periodo che egli intraprese azioni controverse progettate per offrire dimostrazioni pratiche delle sue convinzioni. La prima ha riguardato un gruppo di alberi che gli abitanti di al-Uyaynah consideravano sacri e investiti di poteri magici. La popolazione del luogo era solita appendere ai rami degli alberi degli oggetti, nella speranza che essi avrebbero portato loro benedizioni e fortuna. Secondo Ibn?Abd al-Wahhab ciò era un’insopportabile violazione del principio del tawhid secondo il quale le benedizioni potevano venire solo da Dio. Egli e i suoi seguaci abbatterono l’intero bosco degli alberi sacri, con Ibn?Abd al-Wahhab stesso che prese una scure per tagliare l’albero più venerato da tutti. In seguito il predicatore e i suoi seguaci non se la presero più con le superstizioni popolari ma con le icone dello stesso Islam, come il monumento costruito sopra la tomba di Zayd ibn al-Khattab, compagno del Profeta e fratello di Omar al-Khattab il secondo dei califfi ben guidati. Ibn?Abd al-Wahhab era preoccupato per l’attaccamento del popolo a quel monumento e chiese a ibn Muammar una guarnigione di seicento uomini per distruggerlo. Sempre durante la sua permanenza ad al-Uyaynah incontrò una donna che gli confessò di aver commesso adulterio. Egli senza esitazione ordinò che fosse lapidata a morte. Come risultato di tali eventi e a causa della crescita della sua influenza, gli studiosi islamici di al-Uyaynah imbastirono una campagna contro di lui. Le loro accuse, fra le quali quella di adottare la violenza contro tutti quelli che non avessero accettato la sua interpretazione dell’Islam, giunsero alle orecchie del leader della potente tribù locale dei Bani Khalid, che chiese al protettore di Ibn?Abd al-Wahhab, ibn Muammar di ucciderlo o esiliarlo dalla regione. Ibn?Abd al-Wahhab disse a ibn Muammar che ciò rappresentava una prova della fede, ma alla fine ibn Muammar si arrese e mandò Ibn?Abd al-Wahhab nel deserto con un paio di cavalieri con il compito di ucciderlo, ma essi alla fine non lo fecero. Quando Muhammad ibn?Abd al-Wahhab giunse ad al-Dyriah, vicino Riyadh, la Penisola arabica era in gran parte sotto il controllo degli ottomani. Il sultano di Istanbul, che si proclamava «custode dei luoghi santi», controllava infatti a ovest l’Hejaz con le due città di Mecca e Medina (su cui ufficialmente regnava però lo sceriffo Hashemita) e a est la regione Hofuf, con le sue grandi oasi. Il resto dell’Arabia orientale era controllato dagli shaykhdei Bani Khalid e del Kuwait, mentre nel sud della penisola (?As?r, Yemen, Mascat) e al di là delle distese desertiche del Rubal-Khali, dominavano imam e sultani prevalentemente di fede shi’ita. L’Arabia Centrale (Nejd) era invece caratterizzata dalla presenza di emirati in rapporto di alleanza o conflitto con le tribù beduine, o con le loro fazioni. Dopo che la sua predicazione rigorista aveva fatto proseliti riuscì a ottenere di essere presentato a Muhammad ibnSaud, il fondatore della Casa Saud che ha unificato la nazione dell’Arabia Saudita e la continua a governare attualmente. L’alleanza tra l’emiro e il predicatore (che morì nel 1792) fu suggellata da un patto non molto diverso da quello che il Profeta Muhammad aveva contratto undici secoli prima con gli abitanti di Medina dopo il suo trasferimento (hijra) dalla Mecca in questa città (622). Muhammad ibn?Abd al-Wahhab disse a Muhammad ibnSaud che se avesse tenuto fede alla «dottrina dell’unicità di Dio» (al-da’wah ila al tauhid) avrebbe avuto il potere su uomini e territori. Così fece l’emiro, promettendo al predicatore che egli avrebbe intrapreso un jihad per l’affermazione del vero Islam. Questo patto doveva rimanere valido per oltre due secoli, e i destini delle due discendenze, quella degli Ahl al-Saud e quella degli Ahl al-Shaykh (dall’appellativo al-Shaykh con cui è conosciuto in Arabia Muhammad ibn?Abd al-Wahhab), furono, da quel momento indissolubilmente legati. A partire da allora l’emirato saudita andò espandendosi velocemente sia grazie alla forza militare che al sempre crescente numero di proseliti che affluivano nella capitale al richiamo della predicazione di Muhammad ibn?Abd al-Wahhab, e alle sostanze derivanti dal bottino di guerra strappato agli «infedeli», beduini nomadi o sedentari poco propensi a unirsi all’emiro nel suo jihad. Gli al-Saud, riprendendo la dottrina di Muhammad ibn?Abd al-Wahhab, potevano fare quello che avevano sempre fatto, ovvero razziare i villaggi vicini e impossessarsi dei loro beni. Solo che ora avevano una legittimazione religiosa per farlo. La strategia dell’emiro – come quella del IS oggi – consisteva nel sottomettere i popoli conquistati, mirando a installare loro terrore. Costoro non avevano molta scelta: la conversione al wahhabismo o la morte. Muhammad ibnSaud morì nel 1765 e sotto suo figlio Abd al-Aziz il potere e la ricchezza del clan degli al-Saud crebbe notevolmente. Nel 1790, la tribù aveva il controllo della maggior parte della penisola arabica e compì razzie ripetutamente a Medina, in Siria e in Iraq.Nel 1801 i guerrieri del deserto attaccarono la città santa di Karbala in Iraq massacrando migliaia di shi’iti, donne e bambini inclusi. Molte reliquie shi’ite, tra cui quella dell’Imam Hussein, nipote assassinato del Profeta Muhammad furono distrutte. L’ufficiale britannico Francis Warden, osservando la situazione dell’epoca scrisse: «Hanno devastato l’intera città di Karbala e profanato la tomba di Hussein, massacrando oltre cinquemila abitanti in una sola giornata, con particolare crudeltà». Nel 1803 i sauditi-wahhabiti giunsero a minacciare le città sante della Mecca e Medina, allora sotto il dominio ottomano, e solo l’intervento del pascià d’Egitto il turco-albanese Muhammad Ali, poté stornarli dall’occupare i santuari dell’Islam. Questa sconfitta fece momentaneamente declinare la stella del Wahhabismo. Nel giro di un secolo e mezzo, pur tra alterne vicende, ed essendo stato sul punto di essere completamente cancellato dagli ottomani nella prima metà dell’Ottocento, l’emirato saudita (che dal 1824 aveva per capitale Ryadh), crebbe progressivamente. Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, indebolitosi in seguito a lotte interne, l’emirato cadde sotto il controllo degli al-Rashid di Ha’il, anch’essi convertitisi al Wahhabismo. Quando Abd al-AzizIbnSaud, discendente in linea diretta del primo emiro di al-Dyriah, riconquistò Ryadh ai Rashid nel 1902, finiva un’era, ma il sodalizio tra gli al-Saud e gli al-Shaykh, via via consolidatosi nel tempo attraverso una fitta serie di matrimoni, era ora in grado di dispiegare, anche grazie al mutato contesto internazionale, gli effetti dirompenti, e al tempo stesso problematici, della fusione di politica e religione. Dopo la conquista di Ryadh, Abd al-Aziz IbnSaud intraprese un lungo e paziente lavoro di consolidamento interno, attivando tutti i mezzi a sua disposizione per condurre le tribù beduine e sedentarie sotto la sua piena sovranità. Tali mezzi furono la politica matrimoniale condotta dallo stesso Abd al-Aziz nei confronti dei gruppi sottomessi o alleati, la politica della redistribuzione delle risorse presso le popolazioni nomadi e sedentarie dell’emirato e, infine, l’applicazione della dottrina wahhabita nella conduzione degli affari interni. Riguardo alla politica matrimoniale, Abd al-Aziz sfruttò il principio islamico per cui a un uomo è consentito di essere sposato con quattro donne alla volta. Egli infatti si sposò e divorziò in rapida successione un praticamente incalcolabile numero di volte, ratificando in tal modo rapporti di alleanza con gruppi e tribù differenti. I figli avuti da questi matrimoni costituivano il cemento delle alleanze, ma i gruppi che entravano nella rete delle strategie matrimoniali di Abd al-Aziz restavano dipendenti dalla concessione di risorse e benefici suscettibili di essere revocati in qualunque momento. La restaurazione dell’emirato wahhabita del Nejd comportò infatti l’adozione dei modelli redistributivi tipici di formazioni politiche di questo genere. Il sodalizio stabilitosi nel 1744 tra l’emiro saudita e il fondatore del Wahhabismo fu un elemento che aveva sempre consentito agli al-Saud di mobilitare sedentari e beduini nel segno del jihad. Dopo la riconquista di Ryadh (1902), la lotta contro i Rashid di Hail entrò nella fase decisiva e Abd al-AzizIbnSaud, con la collaborazione degli al-Shaykh, ossia i discendenti di Muhammad ibn?Abd al-Wahhab, ritenne fosse giunto il momento di far ricorso nuovamente a questo strumento. Infatti l’adesione al Wahhabismo non era, di per sé, sinonimo di sottomissione all’emirato saudita. Molte tribù nomadi e sedentarie, benché convertitesi in passato al movimento riformatore, erano ben lungi dal sentirsi in dovere di far parte dell’emirato che di tale riforma si era fatto il più convinto assertore. Nel 1913 Abd al-Aziz si lanciò alla riconquista dei territori (compreso quello della Mecca) che avevano fatto parte agli inizi del XIX secolo dell’emirato saudita quando era all’apice della sua potenza. Egli riuscì ad espellere gli ottomani dalle oasi di al-Hasa, e in ciò non fu di poco peso l’entrata in campo di una nuova forza militare, l’Ikhwan. Costituito nel 1913 con l’appoggio pieno dei religiosi, l’Ikhwan(«fratellanza») aveva lo scopo di mobilitare quanti erano disposti a sostenere la causa degli al-Saud nel segno del jihad. Essi erano la reincarnazione di quel movimento feroce e semi-indipendente, dei “moralisti” wahhabiti, armati, che quasi erano riusciti a conquistare l’Arabia nei primi anni del XIX secolo. Grazie al contributo di tali spietati guerrieri Abd al-Aziz riuscì a conquistare La Mecca, Medina e Jedda tra il 1914 e il 1926. Tuttavia l’Ikhwannon era un movimento facile da controllare. Alcuni dei capi tribali che avevano aderito ad esso mostrarono la tendenza a comportarsi autonomamente, svincolati dall’obbedienza ad Abd al-Aziz. Costui fu infatti spesso costretto a ricorrere alla forza per stroncare le velleità autonomistiche di questi leader, ma soprattutto dovette far ricorso all’aiuto degli ulama di provata fede (e spesso discendenza) wahhabita, i quali con i loro «pareri» (fatwa) furono chiamati più volte a condannare i «secessionisti» e a rafforzare al tempo stesso l’autorità di Abd al-Aziz. Per il sovrano le semplici verità degli scorsi decenni erano state intaccate. Nella penisola era stato scoperto il petrolio. Gran Bretagna e Stati Uniti corteggiavano Abd al-Aziz, ma si dimostravano ancora inclini ad appoggiare lo Sceriffo Hussain come unico legittimo re di Arabia. I sauditi avevano bisogno di sviluppare una posizione diplomatica più sofisticata. Il principale ostacolo a tale progetto era lo zelante puritanesimo degli Ikhwan– i quali si erano spinti sino ad attaccare gli «infedeli» anche in Mesopotamia e in Siria – cosa che irritò non poco Londra e che convinse le gerarchie saudo-wahhabite a porre fine allo zelo dei capi Ikhwan, che con il loro atteggiamento troppo radicale rischiavano di compromettere i successi ottenuti fino ad allora. Fu così che tra il 1929 e il 1930 il Re li fece abbattere a colpi di mitragliatrice. Il Wahhabismo subì una trasformazione forzata: da movimento di rivoluzione jihadista e di purificazione teologica a movimento di conservazione sociale, politica e ideologica nei confronti della famiglia reale saudita. Con l’avvento della manna del petrolio – come lo studioso Gilles Kepel riporta – gli obiettivi sauditi si incentrarono nel «diffondere e divulgare il Wahhabismo all’interno del mondo musulmano», riducendo quindi la «moltitudine di voci all’interno della religione» ad unico credo. Miliardi di dollari furono investiti – e lo sono tuttora – in questa manifestazione del soft power. L’approccio Ikhwan dei sauditi nei confronti dell’Islam non si è spento tuttavia con la grande mattanza degli anni ’30. È, sì, indietreggiato, ma pur sempre mantenendo il controllo su alcune parti del sistema – da qui deriva il dualismo che ancora oggi si osserva nell’atteggiamento saudita verso l’IS. Il Daesh infatti è profondamente wahhabita, anzi rappresenta un ritorno alle origini dell’iniziale progetto saudita-wahhabita, una sorta di nuovi zelanti ikhwan che non esitano a spargere il sangue di chiunque si trovi sulla loro strada. Il che lo rende molto pericoloso. |