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26 ottobre 2015

 

Arabia Saudita, crimini e follie stanno segnando la fine di un impero

di Salvo Ardizzone

 

Nell’estate del 2014, l’Arabia Saudita ha finalmente percepito il pericolo di perdere il ruolo di potenza regionale e il suo potere; il procedere dei negoziati sul nucleare iraniano, il sorgere di un asse fra Mosca e Teheran, l’espandersi dell’influenza russa in Medio Oriente e, soprattutto, il progressivo disimpegno di Washington dall’area in vista della vicina autosufficienza energetica grazie ai produttori di shale oil, rappresentavano un pericolo mortale a cui Riyadh ha deciso di rispondere con la sua arma strategica, il petrolio.

Allora il prezzo del barile era intorno ai 110 dollari, grazie agli accordi che ne controllavano la produzione all’interno dell’Opec e che condizionavano i prezzi a livello globale. I Saud decisero di spingere al massimo la propria produzione, rompendo l’equilibrio che sosteneva i prezzi e determinandone una drastica caduta.

Così pensavano di colpire Teheran, ancora sotto lo scacco delle sanzioni; tagliare le gambe alla Russia ed al suo dinamismo internazionale; spingere fuori dal mercato lo shale oil nord americano (che ha costi di estrazione assai più alti), indirizzando così un ruvido monito alle pretese d’autosufficienza di Washington.

Il punto di forza dei sauditi era costituito da quei 747 Mld di riserve, il massimo mai avuto, di cui disponevano allora. Le ritenevano più che sufficienti a compensare le perdite, fino a quando non avessero sbaragliato gli avversari.

Sicuri del loro strapotere, contemporaneamente alla guerra dei prezzi hanno avviato una campagna per “comprare” l’appoggio politico di diversi Stati con una pioggia di commesse miliardarie (vedi la Francia ed a seguire l’Inghilterra e gli immancabili Usa); aiuti e sussidi (vedi il fiume di denaro elargito all’Egitto di Al-Sisi, servito per garantirne l’approvvigionamento energetico, il raddoppio del Canale di Suez, il riarmo del suo esercito e così via); accordi commerciali con Paesi dalle economie disastrate (con il Sudan, il Senegal e via discorrendo), utili ascari fino a quando vengono pagati a peso d’oro.

Nel frattempo, hanno continuato a spendere cifre folli per sostenere le proprie guerre per procura (vedi in Siria), per fornire armi, pagare mercenari e signori della guerra, corrompere Governi e istituzioni nel tentativo di piegarli ai propri fini.

Da ultimo hanno attaccato lo Yemen, reo di essersi ribellato al loro dominio; un’aggressione che, secondo Reuters, costa circa 700 ml al mese fra operazioni a terra e attacchi aerei, senza contare il più, costituito dai mezzi distrutti dagli yemeniti (assai più di quanto si possa pensare) e soprattutto dalle elargizioni ai cosiddetti “alleati” della coalizione, per convincerli a invischiare i propri uomini in quel pantano.

Il tutto senza tener conto che le finanze del Regno saudita assicurano al regime un traballante consenso attraverso un fiume di sovvenzioni e un sistema clientelare estesissimo, e che la casa reale ha continuato con le proprie spese folli come se nulla fosse.

Insomma: un salasso immenso per le casse di Riyadh, e qui vengono i dolori: secondo il Fondo Monetario Internazionale, il livello dei prezzi, ormai stabilmente sotto i 50 dollari/barile, solo nel 2015 ha causato una perdita di 360 Mld agli esportatori del Golfo (primariamente Arabia Saudita e gli altri del Consiglio di Cooperazione); a seguito di ciò, e delle spese fuori controllo, il bilancio saudita chiuderà il 2015 con un deficit di oltre il 20% del Pil, pari a circa 140 Mld. E in quelle condizioni non poteva essere diverso, visto che Riyadh dipende per oltre l’80% del Pil dal petrolio e dal suo indotto, ha una popolazione che vive praticamente sulle rendite garantite dallo Stato e non vi è alcun’altra attività economica significativa, né vi sono attualmente le condizioni per svilupparla.

Per questo le autorità monetarie saudite sono state costrette a far rientrare dall’estero 70 Mld di investimenti negli ultimi sei mesi e le loro riserve, al momento già ridotte a 654,5 Mld dai 747 che erano poco più d’un anno fa, diminuiscono di 12 Mld al mese, con un trend in accelerazione.

A conferma di ciò, l’Fmi, nella relazione della settimana scorsa, ha dichiarato che l’Arabia Saudita potrebbe esaurire ogni risorsa in meno di cinque anni, e con lei altri Paesi dell’area come il Bahrain (in pratica un suo protettorato).

Un disastro a fronte del quale nessuno dei risultati previsti è stato neanche sfiorato, segnando una pesantissima sconfitta politica, assai più grave della crisi finanziaria: l’Iran è in netta ripresa, sia politica che economica; la Russia è più che mai al centro delle vicende mediorientali e della scena diplomatica; l’Amministrazione Usa continua nel suo disimpegno dall’area; l’accordo sul nucleare iraniano è cosa fatta e le sanzioni che legavano Teheran stanno per cadere, col mondo intero che scalpita per allacciare rapporti.

Una simile serie di clamorosi fallimenti, è figlia della miopia e del totale distacco dalla realtà dei governanti sauditi e soprattutto del clan Sudairi, che ha recentemente preso le redini del potere. Pensare di ottenere i propri scopi solo con l’arma del petrolio, da cui essi stessi dipendevano, e per di più continuando impunemente a dissipare somme immense, è stata una scelta autolesionistica che travalica nella follia.

L’Iran non è un petrostato: solo il 15% del suo Pil proviene dagli idrocarburi, ha un’economia diversificata con una manodopera qualificata (nel Paese ci sono oltre 4 milioni di studenti universitari, per il 50% donne) che ha un’età media di 29 anni, un’industria tecnologicamente avanzata in molti settori e una notevole capacità produttiva (per citare un esempio, produce oltre 1 milione di autovetture all’anno). Inoltre dispone di rilevanti risorse naturali e con 43 milioni di utenti internet è in piena evoluzione tecnologica.

Insomma, è un Paese con enormi capacità di crescita differenziata, e non è un caso che ci sia la fila di operatori disposti ad investire nei comparti più disparati. Per Teheran gli idrocarburi sono un asset strategico, che permette di dare impulso alle altre attività, ma di certo non l’unico.

Diverso il discorso per la Russia: è vero che dipende dagli idrocarburi per il 50% del Pil e nel 2015 sconta un vistoso rallentamento dell’economia che non sarà riassorbito nel 2016, ma ha anch’essa considerevoli riserve e soprattutto dispone di uno strumento militare che sa tradurre in peso politico e diplomatico internazionale.

Lo sta dimostrando in Medio Oriente, dove ha riempito il vuoto lasciato da un’Amministrazione Usa prigioniera delle proprie contraddizioni, e nei rapporti che ha saputo allacciare con la Cina e con gli altri Paesi dell’Estremo Oriente. Mercati promettenti con i quali, in prospettiva, metterà in concorrenza la vecchia Europa delle sanzioni per le forniture energetiche e di materie prime (ennesimo autogol di un Continente succube degli Usa, ma è un’altra storia).

Certo la Russia soffrirà ancora per qualche anno, ma Putin gode di una granitica popolarità (il 90%) e agendo con spregiudicata rapidità ha saputo rispondere agli attacchi di Washington e di Riyadh, riportando il suo Paese al centro della scena internazionale e dandogli nuove prospettive di sviluppo.

Da ultimo, malgrado gli sforzi coordinati con Tel Aviv, i Saud hanno fallito l’obiettivo esiziale d’inchiodare gli Usa al Medio Oriente; il groviglio di crisi che hanno suscitato nella loro volontà di predominio, hanno sortito l’effetto d’incentivarne la volontà di disimpegno.

L’accordo sul nucleare iraniano ne è la dimostrazione: con quell’intesa Obama voleva creare una posizione di equilibrio fra i maggiori attori dell’area, ma la gestione suicida di Riyadh da un canto, e dall’altro la forza di una Nazione come l’Iran, finalmente liberata dai lacci delle sanzioni, sta ribaltando la situazione assai più rapidamente e drasticamente di quanto fosse possibile immaginare.

Su questo quadro s’è inserita un’intesa fra Mosca e Teheran, e dietro c’è Pechino che non attende altro che avere per i suoi traffici interlocutori che prescindano dagli Usa. In un simile scenario, e con Washington sempre più decisa a non impegnarsi a fondo in quel quadrante, il ruolo di Riyadh può essere solo marginale.

È un potere in passato immenso che si sgretola sotto un cumulo di crimini ed errori colossali, che un gruppo di potere inetto quanto scellerato aumenta ogni giorno, affrettando il proprio tracollo.

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