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Dicembre 8, 2015

 

I padrini del califfo

di Rodolfo Casadei

 

«Le ragioni del terrorismo non sono storico-religiose. Il problema è politico». L’accademico tunisino Charfi denuncia gli sponsor dell’islam che uccide e «l’Occidente che li sostiene»

 

L’unico paese che sembra aver tratto qualche vantaggio dalle Primavere arabe del 2010-11 è la Tunisia. A quasi cinque anni dalla fuga del dittatore Ben Ali in Arabia Saudita dopo 23 anni di potere incontrastato, avvenimento che avrebbe incoraggiato oppositori di molti paesi della regione a scendere in piazza, la Tunisia si trova governata da una classe dirigente eletta in regolari elezioni multipartitiche e da una nuova costituzione prodotta dopo due anni e mezzo di lavori dell’assemblea costituente. Il cammino non è stato e tuttora non è affatto cosparso di petali di rosa: omicidi politici di alto profilo e attentati terroristici rivendicati dall’Isis hanno ferito il paese a più riprese, l’ultima il 24 novembre scorso, quando il pullman della guardia presidenziale è stato attaccato nel centro di Tunisi causando 13 morti. Nidaa Tounes, il partito laico di sinistra vincitore delle ultime elezioni, sta vivendo una profonda crisi al suo interno, e il governo nazionale continua a essere composto più di tecnici che di politici. Abdelmajid Charfi, già preside della Facoltà di lettere e scienze umane di Tunisi e professore invitato da molte università europee, fra le quali il Pontificio istituto di studi arabi e di islamistica di Roma, è uno specialista sul tema dei rapporti fra modernità e islam. Recentemente ha parlato a Milano su invito della Fondazione Oasis, l’istituzione creata dal cardinale Angelo Scola per il dialogo fra mondo cristiano e mondo islamico. Intervistato da Tempi sul rapporto fra i suoi studi e le recenti vicende dell’attualità, ci tiene a dire che le cause politiche internazionali di quello che sta accadendo sono più importanti del dibattito storico-religioso che fa da sfondo alle medesime.

 

Abdelmajid Charfi, sono passati solo pochi giorni dal terzo grave attentato terroristico in Tunisia quest’anno. Dopo i turisti, stavolta i terroristi hanno colpito nientemeno che la Guardia presidenziale. Come si spiega che la Tunisia è nello stesso tempo il paese più laico del mondo musulmano, come si nota anche dalla lettura della sua costituzione, e il secondo paese (dopo la Giordania) per numero di volontari che vanno a combattere per l’Isis in rapporto al numero di abitanti? Come si spiega questa strana contraddizione?

È una contraddizione solo apparente. La verità è che il modello socio-politico tunisino rappresenta un’esperienza da distruggere per chi finanzia il terrorismo. In questo momento in Tunisia circola molto denaro sporco che finanzia azioni terroristiche. In particolare proviene da cosiddetti enti caritativi sauditi e qatarini. In Tunisia ci sono molti giovani disoccupati, e per malintenzionati che dispongono di somme considerevoli è facile reclutarli. Di quello che dico abbiamo le prove attraverso le testimonianze delle famiglie: sono loro che ci dicono che i loro figli partiti volontari non avevano ricevuto una formazione religiosa, non sapevano niente di religione, né erano radicalizzati. Sono partiti per campi di addestramento in Libia, e lì gli hanno fatto il lavaggio del cervello, poi li hanno mandati in Turchia, in Siria e in Iraq. Se il modello socio-politico tunisino non fosse un contro-modello rispetto a quelli dei paesi del Golfo, non ci troveremmo in questa situazione.

 

Lei sostiene che occorrerebbe decostruire l’interpretazione salafita del Corano e più in generale dell’islam, mostrando che non è la sola possibile e che essa rispondeva alle esigenze e alle attese di chi viveva 15 secoli fa, mentre oggi le cose sono diverse. Ma chi e come dovrebbe fare questo, senza sollevare troppe obiezioni?

Lei solleva una grande questione d’ordine religioso, filosofico ed epistemologico, ma che non ha rapporto col problema del terrorismo che stiamo vivendo. Le persone che stanno compiendo atti terroristici non sono dei veri salafiti. Il salafismo è l’ideologia che serve di copertura al terrorismo, ma non è a causa del salafismo che i giovani diventano terroristi: è a causa del lavaggio del cervello. Se l’aggiornamento del pensiero islamico oggi necessita di un esame dell’ideologia salafita, è soltanto perché questa è grandemente pubblicizzata da canali televisivi, pubblicazioni, enti caritativi e reti sociali. Senza i mezzi di cui dispone sarebbe solo un’ideologia marginale, è diventata pericolosa perché occupa il centro della scena. Ma non tutto il salafismo è violento: tradizionalmente ci sono salafiti in tutte le regioni del mondo musulmano, e sono pacifici. Il salafismo che genera problemi è quello saudita: l’Arabia Saudita è la culla del salafismo violento. Il problema di fronte al quale ci troviamo in questo momento non è un problema di modernità, è un problema politico.

 

I paesi musulmani più potenti e protagonisti sulla scena internazionale non sono quelli che hanno scelto la laicità, come la Tunisia o l’Algeria, ma quelli che hanno scelto la teocrazia, come l’Arabia Saudita e l’Iran. Allora perché i musulmani dovrebbero preferire la separazione fra religione e politica, visti i risultati?

Già, ma né i sauditi né gli iraniani hanno scelto quei regimi teocratici: sono regimi usciti da rivoluzioni e colpi di Stato che si sono imposti ai loro popoli. In Arabia Saudita in particolare nessuna voce di opposizione ha diritto di esprimersi, in Iran i giovani non sono contenti del regime dei mullah: subiscono un’imposizione. Quanto ai regimi anacronistici del Golfo, non bisogna dimenticare che sono sostenuti dall’Occidente e in particolare dagli Stati Uniti. Nel mondo arabo e musulmano ci sono vari tipi di regime, ma in tutti i giovani aspirano non alla laicità, ma allo Stato di diritto. Il problema non è la separazione fra Stato e religione, ma avere uno Stato che non interferisca nella vita personale, che permetta la libertà di opinione e di espressione. Questa è l’aspirazione comune a tutti i popoli della regione, indipendentemente dal fatto che vivano sotto regimi laici o teocratici.

 

L’idea di una rinascita del califfato torna sempre fra i movimenti islamisti. L’Isis non è l’unica organizzazione che vuol far rinascere questa istituzione. Che futuro ha, secondo lei, il progetto politico e religioso del califfato?

Non ha nessun futuro. Il califfato è solo la copertura di un’ideologia fascisteggiante, totalitaria, anti-modernista e misogina. Il califfato non è l’aspirazione della maggioranza dei musulmani nel mondo. Certo, tutti i musulmani pensano con nostalgia al califfato storico come al tempo in cui l’islam occupava il posto d’onore nella storia, ma non lo considerano affatto il regime politico ideale per il giorno d’oggi. Le organizzazioni che lo propongono rappresentano una parte infinitesimale del mondo islamico. La prova che il ritorno del califfato non è un’aspirazione sentita nel mondo musulmano è che il primo partito che lo ha presentato fra i punti del proprio programma, Hizb al Tharir, risale al 1953 ed esiste ancora, ma non ha avuto successo ed è rimasto marginale perché non disponeva di mezzi. I Fratelli Musulmani insistevano soprattutto sull’applicazione rigorosa della sharia, ma a volere il ritorno al califfato come primo punto di un programma politico fu Taqiuddin al Nabhani, il fondatore palestinese di Hizb al Tahrir, che pure era un giudice sciaraitico oltre che studioso islamico. Mentre l’Isis e altri gruppi, potendo disporre di mezzi finanziari, armi, know-how propagandistico e appoggi politici da parte di paesi come Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Stati Uniti, sono riusciti a rendere popolare il califfato. Ma è una pura strumentalizzazione politica: si sfrutta la nostalgia dei musulmani per il passato per interessi politici che col califfato non hanno niente a che fare.

 

Qualche anno fa lei ha scritto che la Tunisia è l’unico paese arabo dove l’islam è studiato applicando i metodi delle scienze umane, mentre in tutti gli altri paesi questo insegnamento è dogmatico e monopolizzato dai rappresentanti dell’istituzione tradizionale e ufficiale. Le cose stanno ancora così?

Purtroppo sì. Lo studio del pensiero islamico è ancora monopolio del clero in tutti i paesi musulmani tranne il nostro. È monopolio di persone che hanno una formazione tradizionale, ma non hanno avuto accesso alle scienze umane e sociali, e sono in ritardo rispetto al loro progresso. La situazione è ancora questa in tutti i paesi a maggioranza musulmana.

 

Molti osservatori affermano che l’islam ha un problema con la modernità, o addirittura che l’islam ha semplicemente fallito l’appuntamento con la modernità. Lei pensa che la modernizzazione dell’islam sia la soluzione di tutti i problemi? La modernità deve essere l’orizzonte ultimo per tutte le società e per tutte le religioni?

Il problema che incontra l’islam è lo stesso che hanno incontrato tutte le grandi religioni, e in particolare il cristianesimo. Le grandi religioni monoteiste sono nate in contesti molto diversi dall’illuminismo e dal razionalismo del XIX secolo, che sono all’origine della modernità. I concetti religiosi di tutte le grandi religioni sono influenzati dallo stato delle conoscenze nella loro epoca e dagli orizzonti mentali di coloro che vivevano in quei tempi pre-moderni. Dunque per l’islam, come per gli altri monoteismi, l’adattamento al sapere moderno è una necessità, da esso dipende la credibilità stessa del discorso religioso. Se il discorso religioso dovesse divaricarsi completamente dalle conoscenze moderne, assisteremmo a una sorta di schizofrenia nella vita delle persone. L’armonia fra le credenze religiose da una parte e le conoscenze attuali dall’altra va ricercata continuamente, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Premesso questo, io non penso che i sistemi religiosi tradizionali siano per natura e in modo generale avversari del progresso. Possono ostacolare il movimento della società contemporanea verso il progresso, ma non possono fermarlo. Se i sistemi religiosi tradizionali islamici accettano di evolvere, possono facilitare lo sviluppo delle società musulmane, a vantaggio di se stessi e delle società. La modernità non è un orizzonte insuperabile e non deve essere pensata in tali termini. È una modalità di civiltà nata in Occidente e diventata universale, ma soprattutto è una costruzione continua, non qualcosa di dato una volta per tutte secondo una certa forma. E soprattutto non esiste un solo modo di viverla. Sul piano tecnologico ne esiste una forma sola, perché non ci sono tecnologie moderne diverse nei vari luoghi, ma la stessa dappertutto. Ma per quanto riguarda i sistemi politici e i modi di vita, c’è pluralismo e pluralità. Quel che di comune hanno i diversi sistemi politici moderni è che incarnano una ricerca sempre rivolta all’avvenire e che mostrano tutti un certo attaccamento ad alcuni valori: la libertà, la democrazia, la giustizia sociale, l’uguaglianza fra i sessi. Si tratta di valori condivisi da tutti coloro che vivono in società moderne, anche quando non ne sono consapevoli e non sarebbero capaci di articolarli a parole. Ogni società deve cercare l’espressione più adeguata a se stessa per ciascuno di questi valori.

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