L’intervista originale è apparsa il 28 ottobre 2015 sul sito spagnolo di informazione indipendente Ctxt ed è stata poi ripubblicata e tradotta da Giovanna Barile per Tunisia in Red della cui redazione Santiago Alba Rico è uno dei fondatori. http://comune-info.net/ 16 novembre 2015
Noi, gli altri, la paura. La fobia dell’Islam di Amanda Andrades e David Perejil
Quando riduciamo un miliardo e 300 milioni di persone concrete, che praticano forme diverse di religione, a una sola unità e chiamiamo Islam questo insieme eterogeneo, commettiamo una pericolosa generalizzazione. Cadiamo cioè in una di quelle trappole dalle quali si deve guardare chiunque voglia interpretare il mondo. Eppure, questa è la pratica abituale dei nostri media. Qualcuno poi, magari ansioso di “ripulire” certi quartieri, arriva a lasciar credere che i musulmani siano tutti manipolati o assimilabili all’Isis. Così facendo, applica lo schema di esclusione che trasforma l’altro in unità negativa, la soglia della sua distruzione. Comincia in questo modo la costruzione di un “altro” sterminabile, non appena si presenti l’occasione storica, che sta producendo effetti devastanti non solo in termini politici o istituzionali ma anche antropologici: la silenziosa interiorizzazione dell’inferiorità di altra gente. E’ molto probabile che la risposta al jihadismo possa essere ben più pericolosa dell’islamismo che uccide in questi giorni. Santiago Alba Rico racconta in questa lunga e densa intervista perché ha sentito la necessità di scrivere un libro su un pericolo che è già da tempo realtà e perché identificare l’Islam con le sue interpretazioni più deliranti è come specchiarsi nell’Isis.
In tempi come questi, in cui l’arrivo dei rifugiati ripropone dibattiti banalizzati e stereotipati sull’immaginario arabo e/o musulmano, la voce del filosofo e saggista Santiago Alba Rico (Madrid 1960), che vive in Tunisia da 17 anni dopo averne vissuti sei in Egitto, è una di quelle che bisogna ascoltare. Nel suo libro “Islamofobia. Nosotros, los otros, el miedo” (Icaria editorial), analizza in modo rigoroso e critico, con dati e fatti, senza slogan né proclami aprioristici – così come parla – i meccanismi di costruzione dell’altro sterminabile. Il suo obiettivo: mettere in guardia contro i pericoli che siamo chiamati ad affrontare.
Perchè un libro sull’islamofobia? Veramente stavo lavorando ad una raccolta di poesie e ad un saggio su letteratura e identità. Poi ho capito che era invece importante occuparsi di questo tema. Non è la prima volta che lo affronto: avevo scritto già numerosi articoli, soprattutto dopo l’11 settembre e la campagna feroce contro l’Islam che si era scatenata per giustificare guerre e invasioni. Quando le edizioni Icaria mi proposero il libro, non avevo molta voglia di scriverlo, ma capii che era necessario: mi sembrava importante riflettere su un pericolo che è già molto reale e che sta introducendo grandi effetti distruttivi sia in termini politici e istituzionali sia, e soprattutto, antropologici. Questo è ciò che mi preoccupa maggiormente: la silenziosa interiorizzazione dell’inferiorità di altri popoli, di altra gente. A livello internazionale, dopo le rivoluzioni arabe, continua a crescere l’intervento di europei e nordamericani . E poi c’è il caos in tutta la regione, e la questione dell’immigrazione, a proposito della quale vediamo che la maggior parte delle minoranze vulnerabili in Europa si identifica con l’Islam. Per arrivare a questo bisognava ricordare altri periodi storici nei quali simili schemi di esclusione sono stati applicati ad altri popoli ed hanno prodotto effetti catastrofici. I nostri giornali parlano senza sosta dello Stato islamico e dei suoi pericoli. Io non nego che sia un pericolo; ma quello che cerco di dimostrare nel libro è che la risposta al jihadismo è molto più pericolosa, soprattutto quando coinvolge ampie comunità in Europa e negli USA. L’islamofobia è molto più pericolosa dell’islamismo radicale.
Quali sono questi pericoli? Quelli di costruire un falso nemico, un nemico che – falso come costruzione – riunisce tuttavia al suo interno molti esseri reali e concreti, vittime dirette dell’esclusione e delle sue pratiche, che sono al tempo stesso istituzionali e quotidiane. Sappiamo per esperienza che quando pratiche istituzionali e credenze delle popolazioni – il “senso comune”- coincidono, il risultato è sempre catastrofico. Ho utilizzato diverse volte, in modo provocatorio, ma preciso e molto ben giustificato, il paragone con gli ebrei. Pensiamo sempre che gli ebrei sono stati massacrati e sterminati durante la Seconda Guerra Mondiale perchè in Germania aveva preso il potere un governo cattivissimo e con un programma di sterminio. No: questi due elementi furono resi possibili proprio perchè, nel corso dei secoli e naturalmente durante i decenni precedenti, le comunità ebree in Europa erano state trattate esattamente come oggi vengono trattate le comunità musulmane. Intendo dire che quando pensiamo con orrore all’olocausto, dimentichiamo che questo avvenne perchè allora non ci faceva orrore il trattamento che veniva inflitto agli ebrei. E che, pertanto, quello che rese possibile l’olocausto fu l’accettazione dell’idea di inferiorità di una determinata comunità, trasformata poi in programma di governo da un partito che, in qualche modo, fece emergere e manipolò il razzismo esistente in un settore della popolazione. Apriamo dunque gli occhi su quali conseguenze storiche possono derivare dall’applicazione di schemi di esclusione nei rapporti di potere. Se utilizziamo questi schemi, finiremo inevitabilmente per costruire altre comunità scomode, prescindibili ed eliminabili. E se costruiamo gente scomoda, prescindibile e sterminabile, e abbiamo i mezzi per sterminarla, lo faremo non appena si presenti l’occasione storica. Noti già qualche esempio concreto di questa minaccia latente in Europa? Sì, esempi chiarissimi. Non parliamo di immigrazione; parliamo di comunità già stabili nel nostro Paese (l’intervista è uscita in Spagna, ndr). Nell’ultima campagna elettorale sia il PP che Piattaforma per la Catalogna hanno fatto una propaganda chiaramente islamofobica, utilizzando per di più termini collegati alla “pulizia” che evocano, eufemisticamente, processi di sterminio che dovrebbero farci molta paura. Quando si parla di pulire il quartiere Raval a Barcellona, quando si utilizzano certe immagini per identificare l’Islam con il terrorismo e si fa una campagna elettorale su questo perno ideologico, i pericoli sono già lì. Ancor di più se vediamo che, sul filo della crisi, c’è un settore della popolazione che, come è successo tante altre volte nel corso della storia, devia le responsabilità su quanto è più visibile, più empirico. Nei rapporti di potere squilibrati c’è sempre una radicalizzazione spontanea dell’immagine dell’altro; tutti i razzismi lavorano sull’empirico, sul visibile, sulla carne. I concetti non si vedono. E’ molto più difficile spiegare come funziona il capitalismo e impegnare la gente in battaglie contro strutture intangibili piuttosto che mobilitarla contro cose che possono misurare, che possono toccare, che succedono nel tuo quartiere, che puoi classificare con lo sguardo. Negli esseri umani c’è una specie di istinto classificatorio che non è necessariamente negativo, Quando da bambini si va a scuola, si trova sempre uno col naso grande, uno che corre più forte, uno coi capelli rossi, uno col testone… Classifichiamo quello che ci entra dentro dagli occhi, dal naso, dai sensi. Il razzismo ovviamente lavora su un materiale empirico. E il pericolo dell’empirismo è proprio questo: che ti fa accettare o non vedere i veri rapporti di potere che stanno dietro. Chi veramente tira le fila, chi è responsabile di quello che ci sta succedendo. E’ per questo che, nel corso della storia, si è fatto ricorso ai capri espiatori: è normale, in situazioni di crisi. Il problema è che siamo nel 2015 e abbiamo vissuto esperienze storiche drammatiche, abbiamo fatto progressi in termini di diritti, siamo più o meno consapevoli del fatto che un sistema di governo democratico è formalmente più razionale di uno autoritario e basato sulla manipolazione delle emozioni, e non dovremmo, mai – tanto meno in questa crisi, i cui responsabili conosciamo per nome e cognome – permetterci di cercare un capro espiatorio per risolverla, generando così una situazione di caos e violenza che potrebbe rivelarsi senza ritorno.
Il tuo libro sembra scritto in chiave più europea che spagnola, anche se lo stai presentando in Spagna. C’è anche qui una paura reale? In Spagna abbiamo ancora un vantaggio comparativo rispetto ad altri Paesi, ma in ogni caso siamo alla periferia e, in qualche modo, abbiamo sempre finito per soccombere alle correnti o ai movimenti che venivano da altre parti. Quali sono i due motori dell’Europa contemporanea? Francia e Germania. In questi due Paesi il fascismo e l’islamofobia, come forma specializzata di razzismo, sono generalizzati, molto potenti e molto aggressivi. E il nostro vicino, in più, ha una dimensione intellettuale che qui non c’è. Qui non abbiamo ancora degli intellettuali che abbiano dato una copertura di prestigio e di autorità all’islamofobia, in Francia invece sì. Lì c’è una schiera di intellettuali di grido che vanno in televisione tutti i giorni, che scrivono libri – qualcuno, come Houllebecq, è anche un grande scrittore – e che in un certo senso stanno alimentando un discorso islamofobico che si traduce, poi, in voti per il Fronte Nazionale: un partito del quale, fortunatamente, non c’è nessun equivalente in Spagna, almeno in termini di islamofobia: perchè in altri, invece, c’è. In Spagna non esiste un’ultradestra perchè il PP è stato sempre l’ultradestra. Se si aggrava la cosiddetta crisi migratoria, nonché gli interventi dall’estero e se, come tutto sembra indicare, la crisi non passa, è molto facile che si cerchino dei capri espiatori e i più vicini, i più idonei per questo tipo di rappresentazioni, perchè vengono preceduti da clichés storicamente ben collaudati, sono le comunità musulmane. D’altronde in Spagna siamo passati dal non avere nessun immigrato musulmano agli inizi degli anni ’80, ad averne oggi quattro milioni. E’ una presenza molto recente che può essere percepita come intrusa, come passeggera o come forestiera, ma che viene associata comunque alla violenza. In questo libro racconto l’esperienza di un gruppo di professori di scuola superiore ai quali è stato fatto un test: avevano dieci secondi per associare a una lista di termini la prima cosa che fosse loro venuta in mente. Ebbene, molti di loro, accanto a “Islam” hanno scritto terrorismo, violenza o fanatismo. Erano persone istruite e progressiste e se avessero avuto per pensare 10 o più minuti, invece di 20 secondi, avrebbero scritto qualcos’altro. Invece viviamo nella cultura dei 10 secondi: le notizie si diffondono in 10 secondi, si leggono in 10 secondi, le decisioni vengono prese in 10 secondi ed è molto difficile smontare dei discorsi – ed i relativi comportamenti- in tempi così veloci. In 10 secondi è più facile distruggere il mondo che preservarlo. Quando ci furono le rivoluzioni arabe, per tre o quattro mesi questi discorsi furono rovesciati. Perchè questo rovesciamento è durato così poco? Per diversi motivi, non tutti sospetti o condannabili. Voglio dire che, a volte, tendiamo a credere che ci sia sempre una mano che muove tutti i fili. A volte c’è qualcosa che si impone nell’agenda giornalistica e allora si scatena una specie di epidemia, una valanga di neve. Ci sono schemi interpretativi che si impongono quasi per inerzia, in modo epidemico. Rispetto al mondo arabo, questo è successo per qualche mese. Insieme alle dittature, allo stesso modo l’islamismo radicale rimase fuori dal gioco ed i media occidentali scoprirono, con un riflesso più o meno orientalista, un nuovo mondo arabo molto simile all’Europa. E allora perchè si torna oggi al mondo islamofobico? Il motivo è che le controrivoluzioni, convergendo su interessi incrociati, mettono nuovamente in primo piano, e in modo polemico, il riferimento islamico. Al Jazeera, ad esempio, l’emittente araba che all’inizio giocò un ruolo fondamentale della diffusione delle rivolte in tutta la regione, è diventata chiaramente uno strumento del Qatar e della Turchia, dell’espansionismo turco-qataro nella zona – in ogni caso non il peggiore, soprattutto se comparato con quello dei rivali Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Se parliamo di Europa, dopo la vittoria logica e democratica degli islamisti in Tunisia ed Egitto, il cliché islamofobico torna in scena con una forza inaudita. Viene coniata una frase, che anche la sinistra fa propria e che definisce in modo dispregiativo il passaggio “dalle primavere arabe all’inverno musulmano”, frase completamente falsa e dagli effetti estremamente negativi. Il ritorno al modello islamofobico ha a che fare con l’emersione dei veri rapporti di forza nel mondo arabo, favorevole agli islamisti cosiddetti moderati, nonché con il falso laicismo belligerante condiviso dalla destra imperialista e dalla sinistra antimperialista. Abbiamo visto che ad un certo settore della sinistra piace molto di più il siriano Bachir Assad che i tunisini Rachid Gannouchi o Hamadi Jebali. Chiunque abbia un minimo di buon senso e capisca cosa sta succedendo nel mondo arabo, e desideri anche un po’ di democrazia, dovrebbe osservare c he, ad esempio, Ennahda è un partito democratico e Assad un dittatore sanguinario e assassino. Io non so che progetto aveva in mente Ennahda; ma scommetterei che, per pragmatismo o per convinzione, non ha mai perseguito la fondazione di uno Stato islamico. Quel che è certo è che hanno governato in una situazione in cui a nessuno sarebbe mai venuta questa idea e, di fatto, hanno firmato, come governo, l’unica Costituzione laica esistente nel mondo arabo.
Tornando alla questione della laicità ed agli intellettuali francesi islamofobici, c’è un discorso che viene usato anche da Marine Le Pen, basato su valori che noi condividiamo, come la difesa dell’uguaglianza di genere. Come evitare di cadere in questa trappola? Questo è molto interessante. Da un lato c’è un populismo islamofobico che proviene da falsi allarmi sociali: “Vengono a rubarci il lavoro” oppure “stanno qui con i sussidi di disoccupazione” o “ricevono aiuti dallo Stato mentre i poveri cittadini nazionali sono abbandonati”… Populismo nazionalista molto elementare ma che, ad ogni modo, funziona. Poi però c’è l’altro aspetto, che interpella molti progressisti o ex progressisti finiti nelle fila di Le Pen o a fare discorsi che le portano voti. Si tratta di un ragionamento progressista che gira intorno all’emancipazione di genere o al laicismo. E’ completamente fraudolento. Nel mio libro cito Benjamin Constant, morto nel 1830, il padre del liberalismo francese, un tipo che rivendica tutte le libertà formali dopo la Rivoluzione francese, la cui lettura mostra fino a che punto siamo retrocessi. Constant spiega molto bene cos’è il laicismo. Non consiste nel fatto che governi l’ateismo, ma che vengano garantite due cose: che qualunque cittadino possa praticare la religione che desidera e che nessuna comunità, né religiosa né civile, sia al governo del Paese. E aggiunge: attenzione, la persecuzione è sempre religiosa, anche se viene attuata in nome della non-religione. Se il cattolicesimo perseguita gli atei, o i protestanti, si tratta di una persecuzione religiosa; e quando i laici perseguitano altre persone perchè praticano una determinata religione, anche quella persecuzione è religiosa. Non c’è laicismo dove c’è persecuzione. Nel caso della Francia questo è chiarissimo: cominciano ad esserci segnali di persecuzione religiosa nel come vengono utilizzati una serie di fattori empirici o di modi di vestire per identificare cittadini a pieno titolo – per la maggior parte francesi – con una determinata religione e, per questo, perseguitarli. Non è laico uno Stato che persegue qualcuno per le sue convinzioni religiose. Il laicismo alla francese è dunque una religione in tutto e per tutto equivalente al peggior Islam, perchè diventa un elemento di persecuzione del prossimo. Nel libro affermo, e non solo con intenzioni provocatorie, che il discorso islamofobico è la replica allo specchio del discorso di Al Baghdadi, il cosiddetto califfo dello Stato Islamico. Sono discorsi identici. Possiamo chiamare l’uno laicismo e l’altro religione, ma in realtà sono entrambi discorsi religiosi.
La femminista Brigitte Vasallo afferma che quando si identifica l’insieme dell’Islam con le sue interpretazioni più rigide, si sta facendo la stessa operazione che fa l’Isis. E‘ proprio così: esattamente la stessa. A chi stai dando ragione? A colui che sta combattendo e pertanto, quando lo fai, stai costruendo un nemico, invece di cercare un legame. Quando si nasce in un determinato contesto culturale, ci sono solo due possibilità. Se cerchi la democrazia, la dignità, la giustizia sociale, o se sei buono, se credi in valori universali come la giustizia o la libertà, hai due soluzioni: o cerchi tutto questo fuori dalla tua cultura, o lo cerchi dentro di essa. Nessuna fede condivisa da molte persone impedisce di trovare questi valori, e infatti milioni di musulmani in tutto il mondo credono che la propria religione non sia incompatibile con la democrazia, la libertà e la giustizia, e perseguono tutto questo senza rinunciare alla propria fede. Quando affermiamo che 1.300 milioni di musulmani sono tutti manipolati da Al Baghdadi e dall’Isis stiamo proprio applicando quello schema di esclusione che trasfoma l’altro in un’unità negativa e non integrabile. E questo è molto più che un errore: è la soglia della distruzione dell’altro.
Quali sono i tre meccanismi da te individuati, attraverso i quali si costruisce questo “altro” sterminabile? Il primo consiste nel ridurre una molteplicità ad un’unità. E’ un fatto molto evidente e, nel caso dell’Islam, anche semplice da applicare perchè nessuno ne sa nulla. Stiamo parlando di una religione ramificata, con molte scuole di interpretazione coranica, con riforme e controriforme successive, con correnti mistiche come il sufismo e con caratteristiche culturali tanto diverse quanto la distanza geografica che separa un Paese dell’altro. Immaginiamo le differenze che possono intercorrere tra l’Islam della Mauritania e quello dell’Indonesia. Quando riduciamo questi 1.300 milioni di persone concrete, che praticano forme diverse di religione a partire dalle storie locali, ad una sola unità e chiamiamo Islam questo insieme eterogeneo, abbiamo già commesso una pericolosa generalizzazione. E le generalizzazioni sono trappole dalle quali si deve guardare chiunque voglia interpretare il mondo. Di fatto, parliamo di cultura islamica, dell’Islam come una civiltà, ed è anche legittimo farlo se lo spieghiamo analiticamente. Ma dal punto di vista dell’approccio quotidiano, spontaneo, quello schema trasforma pericolosamente una molteplicità in un’unità. Non esistono più sciiti, sunniti, malachiti, hanafiti, huti, wahabiti, niente. Immagina la reazione di un cattolico dell’Opus Dei se lo confondessero con un protestante luterano o con un testimone di Geova. Ecco, questa è la pratica abituale dei nostri mass media. Cito sempre il caso paradigmatico della copertina di La Razón del 13 febbraio 2003, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. Invece di utilizzare una carta geografica con la proiezione di Mercatore, quella usata comunemente, La Razón scelse per una volta la proiezione di Peters, che rappresenta il pianeta in modo più proporzionato e nella quale l’Africa appare, fedelmente, come tre volte più grande dell’Europa. Cosicchè, per una volta, il Vecchio Continente, rappresentato com’è veramente, sembrava molto più piccolo e più fragile rispetto al resto del mondo. Su questa carta geografica di colore rosso (rosso!) comparivano tutti i Paesi nei quali è presente una popolazione musulmana, dall’Africa all’Asia. Il titolo recitava: “Timore per la reazione di 1.200 milioni di islamici”. In questo modo mescolava, senza alcuna distinzione, tutti musulmani del mondo attraverso il termine “islamici” (invece che “musulmani”) e li identificava con il terrorismo, giustificando così l’invasione statunitense appoggiata anche da Aznar.
E gli altri due? Anche questi sono molto semplici, perchè la semplicità è essa stessa condizione della conoscenza escludente. Il secondo meccanismo, una volta ridotta la molteplicità a unità, è quello di considerare questa unità come negativa. Rispetto a noi, unità positiva, democratici e civilizzati, l’Islam è l’unità negativa. La Razón, ancora una volta, ci fornisce il paradigma: 1.200 milioni di “islamici”, vale a dire di terroristi violenti e invasori. Gli invasori sono loro! E questo alla vigilia dell’invasione dell’Iraq. Quanto al terzo meccanismo, questo consiste nel considerare questa unità non solo negativa, ma anche inassimilabile. Riporto, nel mio libro, una serie di citazioni di Renan e Aznar che rivelano la monotonia di questo meccanismo, il quale conferma l’idea – interessata – che i musulmani, così come prima gli ebrei e sempre i neri, sono fuori dalla storia e non sono integrabili in essa. Sono ineducabili, irrecuperabili, non emancipabili, salvo che con quella che Hegel chiamava la “connessione essenziale”, ovvero la schiavitù e il colonialismo. Curiosamente, questa idea è servita anche alla sinistra per difendere alcune dittature (penso a Gheddafi) in nome del “relativismo culturale”. Questa sinistra relativista mette anche questi popoli “fuori dalla storia” e così facendo rivendica la tirannia e il carisma arbitrario come “forme autonome di governo” ben accette dalle popolazioni perchè coincidono con i loro “tratti culturali essenziali”. Non c’è modo peggiore di dare ragione a Hegel e all’islamofobia, perchè in questo modo si arriva a rivendicare la dittatura come modello di governo “prettamente arabo o musulmano”, il che è esattamente ciò che sostiene l’orientalismo islamofobico. Non è una tirannia! E’ la loro cultura! In questo, come in moltre altre cose, destra e sinistra spesso coincidono nei riguardi del mondo islamico. A volte, l’anti-islamofobia sembra cadere in un buonismo nel quale non sono ammesse critiche. L’anti-islamofobia cade a volte negli stessi tipi universali di esclusione che ho analizzato. C’è un buonismo che rappresenta l’inversione dello schema di dominio, secondo il quale tutto quello che viene da lì, tutto ciò che è islamico o non-occidentale, è buono. Si tratta in realtà di un atteggiamento colonialista e orientalista tanto quanto l’islamofobia. Perchè, come spesso ripeto, arabi e musulmani hanno diritto alla propria barbarie ed anche al proprio modello di difesa contro la barbarie. Il discorso anticolonialista occidentale incorre nello stesso disprezzo dell’altro: considera, ad esempio, che la risposta jihadista radicale non è “autoctona”, ma è una costruzione imperialista. Tutto ciò che non ci piace, tutto ciò che non coincide con i modelli della sinistra tradizionale (modelli molto occidentali), viene respinto come prodotto dell’imperialismo e così facendo non si riconosce ai popoli della regione una resistenza autonoma: o sono pagati dagli USA, oppure sono alienati, o si limitano a rispondere in modo automatico – con quello che Vincent Geisser chiama “miserabilismo”- alla pressione imperialista.
Quando si cercano esempi positivi all’interno dell’Islam, ci si riferisce sempre ai secoli X e XI. Non ci sono esempi recenti? E’ vero che storicamente c’è un periodo di splendore colto, che coincide con i secoli bui dell’Europa e che va dalla metà dell’VIII secolo fino all’XI, quando Al-Ash’ari e Al Ghazali chiudono la iytihad, o quella che audacemente traduco con “libertà interpretativa”. La ricchezza del libero pensiero di questa epoca è prova dell’inconsistenza dei modelli islamofobici. Oltre a questo, spesso si dimentica il vasto movimento culturale chiamato Al-Nahda (risveglio o rinascita) esistito a cavallo tra il XIX ed il XX secolo: una corrente che comprendeva autori e pensatori molto diversi tra loro, come Al-Tahawi, Rachid Rida, Al-Afghani, Mohamed Abdu e molti altri, e che cercò di conciliare l’Islam con i progressi politici e tecnologici dell’Occidente. Questo illustre movimento, curiosamente, porterà nel 1927 alla fondazione dei Fratelli Musulmani ad opera di Hassan El Bana, in una paradossale deviazione politica islamista, in piena dominazione coloniale, di un movimento ossessionato dal ritardo culturale islamico. Di fronte a questa deriva islamista, nel quadro della guerra fredda, sorgeranno le sinistre panarabiste con loro stesse derive autoritarie ed essenzialiste. E’ un processo storico particolarmente complesso nel quale, in ogni caso, ciò che impedisce il sorgere di un movimento islamico democratico è l’accordo Stati Uniti – Arabia Saudita del 1945 riguardo al petrolio. Lo cito sempre perchè ritengo che sia fondamentale. Nel 1945, il wahabismo era una corrente molto minoritaria, confinata ai margini della penisola arabica. Comprendeva solo qualche migliaia di individui ed era disprezzata dal resto delle comunità musulmane del mondo. Sono stati i soldi del petrolio saudita che hanno reso il wahabismo una scelta non dico maggioritaria, ma senz’altro sostenuta da molta, molta gente. Gli USA erano ovviamente interessatissimi ad utilizzare questa versione alienante e fanatica della religione contro i nazionalismi arabi che, in regime di guerra fredda, si opponevano al loro controllo sulla zona. E’ comunque vero che, dopo il fallimento di Al-Nahda e della risposta secolare panarabista, non c’è stato e non c’è tuttora un forte movimento culturale emancipatore. Quello che però non si può fare in alcun modo è ignorare due cose. La prima: se le rivoluzioni arabe del 2011 dimostrano qualcosa, è che le popolazioni arabe erano e sono di gran lunga più aperte a qualunque proposta politico-culturale che concilii Islam e democrazia piuttosto che ad una proposta nichilista e negativamente rivoluzionaria come lo Stato islamico. La seconda: l’Isis esiste non solo come conseguenza del fallimento delle rivoluzioni arabe, cosa vera, ma anche come conseguenza di un lavoro di propaganda nel quale è circolato molto denaro e che ha a che vedere con il patto contro natura del 1945 tra uno Stato teocratico, il più teocratico del pianeta, l’Arabia Saudita, ed uno Stato che pretende di essere il più liberale e democratico di tutti, gli Stati Uniti.
Definisci l’Isis come una proposta negativamente rivoluzionaria. Gramsci diceva che il fascismo è sempre il risultato di una rivoluzione fallita o sconfitta e credo che, in questo senso, non possiamo esimerci dal mettere in relazione il successo dello Stato islamico con il fallimento delle “primavere arabe”. Non amo parlare di fascismo quando si affronta il jihadismo radicale, perchè questo termine è stato utilizzato in modo pericoloso – come denunciano bene Gilbert Achcar o Alain Gresh – dalla propaganda islamofobica. Parliamo dunque di una rivoluzione negativa perchè rovescia il contenuto democratico di quelle del 2011 e coinvolge probabilmente gli stessi giovani, che vi trovano non un rifugio religioso, bensì una fonte di radicalismo rivendicativo e di appropriazione distruttiva. Come insiste a dire Alain Bertho, l’Isis non rappresenta una radicalizzazione dell’Islam, ma una islamizzazione della radicalità. Ciò che molto spesso attrae migliaia di giovani, molti dei quali occidentali convertiti, consumatori falliti o indigeni umiliati, è esattamente la violenza come rifiuto dell’ipocrisia e della falsa morale occidentale. Questa violenza, lo sappiamo, è sistematica e coscienziosamente utilizzata come mezzo estetico della propaganda e con un indubbio successo: basti pensare che, secondo un’inchiesta, più del 50 per cento dei giovani inglesi non musulmani si sente attratto dallo Stato islamico. E in questo senso, non c’è dubbio, bisogna considerare indirettamente responsabili del fenomeno tutte le forze che hanno impedito il trionfo delle rivolte del 2011 e la democratizzazione del mondo musulmano. Tornano a questo mondo le tre forze gemelle e inseparabili contro le quali si ribellarono i giovani nel 2011: dittature locali, interventi stranieri e jihadismo radicale. La Siria è il tragico terminale e paradigma puro di questo ritorno degli zombi.
L’islamofobia alimenta l’Isis e l’Isis alimenta l’islamofobia? E’ così, e credo che entrambe le forze si guardino nello specchio l’una dell’altra e siano tacitamente concordi nel sopprimere qualunque opzione intermedia. Tutte e due applicano gli stessi schemi di esclusione universale e costruiscono opposizioni binarie tra un’unità positiva vera (noi) e un’unità negativa inassimilabile (loro). Mentre l’islamofobia criminalizza perfino la conoscenza dell’arabo e, ovviamente, alcuni tipi di abbigliamento o segni fenotipici, identificando ontologicamente le comunità musulmane con l’Isis e così spingendole verso quest’ultimo, l’islamismo wahabita radicale, chiamato takfiri, separa ontologicamente e razzialmente dalla “comunità dei credenti” la maggior parte dell’umanità, compresi i musulmani, dando così ragione all’islamofobia ed ai suoi schemi aggressivi di esclusione.
L’arrivo dei rifugiati da paesi a maggioranza musulmana rafforza l’islamofobia? O succede l’inverso, che questa è già talmente radicata da non permettere che venga data una risposta umanitaria? Ritengo che ci siano entrambe le cose. C’è un reciproco alimentarsi tra un’islamofobia già esistente e una serie di spostamenti migratori che provengono da quella zona del mondo e che, in qualche modo, alimentano i timori fantasmagorici della popolazione. Credo che stiamo assistendo fondamentalmente ad una crisi di civiltà. In un mio articolo recente stabilivo un parallelo, che io stesso definivo forzato ma pregno di significato, tra la fine dell’Impero romano e la fine della civilità occidentale moderna. In realtà non è mai dato di sapere quando si sta vivendo la fine di una civiltà. Un tizio vissuto a Sagunto o a Capua nel 230 d.C. non avrebbe potuto dire a se stesso: Che iella! Mi tocca vivere la decadenza dell’Impero romano! Questa è durata 350 anni. E’ vero che fu segnata dalle invasioni barbariche, molte delle quali tuttavia si stabilirono pacificamente entro le frontiere e furono perfino usate per fermare le tribù più aggressive. E’ un parallelismo molto forzato perchè ovviamente quello che qui fa nascere lo spettro della barbarie è proprio la frontiera. I romani costruirono delle frontiere contro i barbari; qui invece no. Qui costruiamo frontiere per generare l’allucinazione della barbarie. I barbari sono tali solo perchè devono attraversare le frontiere, solo perchè vogliono attraversarle. E questo è anche molto significativo dal punto di vista simbolico. Inoltre a quell’epoca i barbari erano spinti, diciamo così, dalla natura, mentre oggi gli immigrati sono spinti dalle metropoli, dalle guerre in cui queste sono intervenute, da quella connessione coloniale essenziale che descrivo nel mio libro. La cosa importante dei barbari, tuttavia, non è il fatto che provocarono la fine dell’Impero romano, internamente già imputridito da secoli, ma che illuminarono quella putredine. E questo è il senso positivo del barbaro, difeso anche dal geniale storico tunisino Ibn Khaldun in quanto rivitalizzatore di una civiltà della quale egli stesso rivela la decadenza. E’ molto difficile scegliere un fotogramma della caduta dell’Impero romano, di quel momento a partire dal quale non c’è più ritorno. Forse potrebbe essere la battaglia di Adrianopoli. Ma se dovessi decidere quale immagine esprime il punto di non ritorno della decadenza dell’Occidente, direi che è quella di migliaia di persone che galleggiano tra le onde cercando di raggiungere la costa, o di quelle migliaia che cercano di salire su un treno, o delle decine di cadaveri ammassati nei camion. Credo che queste immagini ritraggano perfettamente la fine di una civiltà.
Qual è la soluzione? Non lo so. In epoca romana c’erano due forze, una interna ed una esterna, e furono quelle che alla fine costruirono un’alternativa, quasi sempre molto infelice. La forza esterna erano i barbari e quella interna i cristiani, possiamo dire il “Podemos” dell’epoca. Non sto scherzando. I primi cristiani si proponevano di apportare cambiamenti molto significativi al sistema: di fronte a un impero arbitrario, corrotto e già post-moderno, insistevano su una combinazione di conversione soggettiva, disposizione al sacrificio e comunitarismo democratico; mettevano in questione la legittimità dell’impero anche a partire da eclatanti rotture generazionali: l’impero non ci rappresenta. Bisogna cercare in qualche maniera un’alleanza tra i barbari esterni e quelli interni. E questa alleanza deve essere basata sul diritto, proprio ciò che in questi momenti l’Occidente non è capace di fare bene. Ma se, come dice l’economista marxista critico Isaac Joshua, la fine del capitalismo somiglierà più alla fine dell’Impero romano che alla Rivoluzione Francese, c’è da credere che, anche se otteniamo questa alleanza, il mondo post-occidentale sarà un mondo difficile e violento. Se invece non otteniamo questa alleanza, allora dobbiamo prepararci a una decadenza tribale lunghissima, violenta, ultrareligiosa. L’Europa deve accettare che i migranti non smetteranno di arrivare e i rifugiati non smetteranno di entrare. Pertanto, se non siamo disponibili a riconoscere i loro diritti sulla base della Carta fondativa delle Nazioni Unite, dovremo ammettere che non possiamo evitare che arrivino e che tutto quello che facciamo male contro gli esodi migratori mina ancor di più le fondamenta di una civiltà che è già condannata a morte.
|