Originale: Richardfalk.com
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18 gennaio 2014

Frank Barat Intervista Richard Falk sulla Palestina
Traduzione di Maria Chiara Starace

Nota introduttiva: quelle che segue è un’intervista condotta da Frank Barat, ben noto come direttore e coordinatore delle sessioni del Tribunale Russell dedicate alla Palestina. L’intervista si è svolta a Londra il 13 dicembre 2013 e tratta di una serie di argomenti pertinenti alla lotta palestinese per i diritti e la giustizia.


Volevo farle delle domande sull’articolo che ha scritto di recente sul suo blog: “L’ispirazione di Nelson Mandela”. Lei ricordava di averlo incontrato 15 anni fa in Sudafrica. Che impressione le ha lasciato e che cosa significa, secondo lei, la sua morte per il Sudafrica e per il resto del mondo?”

Richard Falk: Sono stato fortunato ad avere l’occasione di incontrare Nelson Mandela. Gli avevano chiesto di dare il benvenuto a una commissione che si occupava del futuro degli oceani e della quale ero membro. Il Vice Presidente di questa commissione era Kader Asmal, che aveva fatto parte del primo governo di Mandela e che era anche uno degli estensori della Costituzione del Sudafrica e un mio buon amico. mi ha chiesto se potevo preparare delle osservazioni per Mandela che doveva dare il benvenuto a questa commissione, e l’ho fatto. Mandela ha usato il mio testo quasi come lo avevo scritto. Dopo la presentazione che si è svolta nel parlamento del Sudafrica, Mandela è venuto a parlare con me e poi con ognuno dei membri della commissione. Sono stato molto colpito dalla sua abilità e dalla sua prontezza di dire qualche cosa a ogni persona di queste 40 nazioni che era attinente in modo specifico alle loro situazioni nazionali. Come ho cercato di esprimere nel mio messaggio pubblicato sul blog, Mandela aveva questa qualità di radiosità morale, un senso di autenticità e un  fondamento spirituale che gli davano una presenza particolare che era forte e indimenticabile. La sua morte è stata un’occasione per  fare una certa valutazione su  che cosa ha significato  la sua vita e di come  essa ha avuto influenza su così tanti problemi, compresi i palestinesi, aspetto a cui sono particolarmente interessato. E’ importante  recuperare  il vero Mandela da quello che i media liberali hanno tentato di proiettare, che era un Mandela di riconciliazione e di non violenza. Entrambe queste caratteristiche erano indicative dei suoi tentativi di trovare un modo per porre fine all’apartheid in Sudafrica senza una lotta cruenta, ma si dovrebbe anche comprendere che non ha mai rinunciato all’idea di violenza se sembrava uno strumento necessario per ottenere la librazione da una struttura di oppressione. La sua principale priorità era ciò che opera in risposta a una particolare condizione di oppressione. Il suo rilascio dalla prigione era di per sé un’efficace dimostrazione che la campagna globale contro l’apartheid aveva costretto l’elite Afikaner sudafricana e calcolare di nuovo i suoi interessi e le sue priorità. E’ stato in quel contesto che Mandela ha fatto questo sforzi per trovare una soluzione al conflitto che avrebbe poso fine all’apartheid politica. E’ stato, in qualche misura, un contratto come quello di Faust perché la situazione della massa di africani non era migliorata in campo economico o sociale, da quando c’era stata la trasformazione del sistema costituzionale, cosa che non sorprende molto, e c’è un certo risentimento per il modo in cui si era posto fine al conflitto, in alcuni settori della popolazione sudafricana. L’eredità è complicata dal fatto che i successi di Mandela alla carica di leader non si sono realmente  assunti il compito di creare una società giusta. Non c’è dubbio che è una società post apartheid  in senso politico, ma rappresenta ancora un società in cui la minoranza bianca e una minuscola elite nera che sta emergendo, dominano l’economia, e la massa delle persone sta ancora soffrendo di molte delle privazioni che erano collegate alla stessa apartheid.

FB: Lei ha parlato del ruolo della violenza nelle lotte di emancipazione per ottenere la libertà. Che cosa dice la Legge internazionale al riguardo?

RF: Come in molte altre aree della Legge internazionale, può essere interpretata da punti di vista diversi. Tuttavia,  è emerso specialmente negli anni ’70 e ’80 un consenso generale della legge internazionale che la lotta armata nel corso della liberazione nazionale da un regime coloniale era un legittimo uso della forza. Non significava che tutti i tipi di violenza erano legittimo e legali. Doveva essere una violenza diretta verso l’obiettivo adeguato. La legge internazionale non ha mai offerto un modo di  rendere meno offensive forme terroristiche di azioni dirette verso civili innocenti o verso obiettivi protetti come ospedali o chiese. Naturalmente in molte delle lotte di liberazione  gli strumenti violenti comprendevano atti casuali intesi a  fermare l’occupazione e il dominio coloniale. “La battaglia di Algeri”, il famoso film, mostra atti di resistenza che comprendevano il lancio di bombe in un affollato caffè di Algeri. In questo processo storico, coloro che stavano dalla parte della lotta anti-coloniale hanno accettato questa violenza indiscriminata come giustificata in alcune circostanze di dominio oppressivo. Il terrorismo difensivo era stato giustificato anche contro l’occupazione nazista di varie nazioni europee durante la II Guerra mondiale. Perfino coloro che sostengono la legalità della violenza nelle guerre di liberazione, non erano arrivati al punto di legittimare la violenza di per sé. Soltanto la violenza contro gli obiettivi appropriati può   richiedere il mantello della legge internazionale.

FB: Nel 2001 lei ha dovuto rispondere a questa domanda nel contesto della lotta palestinese durante il suo mandato come Alto Commissario per i Diritti Umani presso le Nazioni Unite. Quale è stata la sua risposta o le sue scoperte in quel periodo?

RF: Di nuovo, bisogna riconoscere che la Legge Internazionale (I.L) non è chiara su questo argomento. Non c’ è alcun trattato.  o regola usuale dell’I.L o deliberazione  giudiziaria che potrebbe risolvere la questione in modo definitivo. Quello che ho suggerito era in certo modo simile a quello che ho detto sull’opinione di Mandela sulla violenza e alla relazione della violenza con le guerre di liberazione nazionale. Un popolo oppresso e assediato possiede ciò che equivale a un diritto di auto-difesa; non sono soltanto i governi che possono invocare tale diritto. Quando c’è una serie di circostanze oppressive c’è un diritto implicito all’autodifesa o all’opposizione da parte di una società. Questo diritto è limitato all’uso della violenza contro coloro che sono collegati alla struttura oppressiva. Questo  diritto non è stato codificato o appoggiato autorevolmente dato che gli stati controllano il processo di legiferare. Ciò nonostante, mi sembra che un tale diritto esprima la legge esistente della società internazionale in relazione ai diritti collettivi delle persone.

FB: Perché pensa che questa domanda sulla violenza venga fatta sempre agli oppressi, che siano afro-americani, indiani-americani, palestinesi, mentre in realtà la maggior parte della violenza viene perpetrata dagli oppressori, in questo caso gli Stati Uniti o Israele?

RF: Credo che risalga all’idea di stato moderno. Lo Stato moderno, in base a molte definizioni internazionali, gode del monopolio sull’uso legittimo della violenza. Perciò, coloro che non agiscono per conto dello stato, e che ricorrono alla violenza, devono superare una supposizione di immoralità e di illegalità connesse al loro comportamento. Lo stato ha l’obbligo di mantenere l’ordine sociale, istituendo  un ambiente politico in cui la violenza viene usata soltanto per mantenere l’ordine stabilito. Credo che la distinzione sia molto importante per spiegare le presentazioni di questi conflitti fatte dai media popolari. La terminologia di terrorismo è usata di solito soltanto in riferimento alla violenza dell’anti-stato. La violenza di stato è di solito ammorbidita in vari modi. Chi di noi non è contento di questo tipo di uso discriminatorio della lingua, parla di terrorismo di stato. E’ però un discorso relativamente insolito sulla natura della violenza  ammissibile e di quella inammissibile. E’ importante perciò non cadere in quel tipo di trappola statalista considerando la violenza di stato come  ragionevolmente  legittima e la violenza contro lo stato ragionevolmente illegittima.

FB: Quale ruolo può avere realmente la Legge Internazionale (IL) per portare pace  e giustizia nel mondo? Alcuni palestinesi tendo a ridere quando lei dice che l’IL è dalla loro parte perché per loro l’IL è responsabile di quello gli è accaduto?

RF: Ebbene, una risposta adeguata è più complicata di quella che si può dare qui. Nella mia mente non c’è dubbio che riguardo a molti problemi irrisolti: o gli insediamenti o lo status di Gerusalemme, i confini, il diritto alle risorse e alla terra o il diritto dei rifugiati, l’I.L li ha compresi e applicati in maniera inequivocabile alla parte palestinese. Questa interpretazione dell’importanza dell’I.L è stata ripetutamente  sostenuta e tutelata dai principali organi della Nazioni Unite, specialmente dall’Assemblea Generale. E’ stata anche rafforzata in larga misura dalla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) nella sua opinione consultiva riguardo al Muro di separazione risalente al 2004, anno in cui è stata pubblicata. Allo stesso tempo è comprensibile che i palestinesi siano disillusi. L’I.L e le autorità dell’ONU sono dalla loro parte, ma la loro situazione sta diventando sempre più grave. Gli israeliani godono dell’impunità per i loro crimini. Sembrerebbe quindi che il fatto che l’I.L e le autorità dell’ONU stiano dalla loro parte, abbia fornito una specie di copertura che ha messo in grado l’illegalità del comportamento di operare di fatto contro di loro. Quella disparità spiega la percezione. Quello che penso è dimenticato ed è stato l’onere delle mie recenti valutazioni, cioè che nella fase attuale della lotta palestinese e del movimento nazionale, c’è stato uno spostamento di tattica  dalla dipendenza primaria dalla lotta armata nella direzione di una campagna mondiale per l’occupazione israeliana e l’approccio generale al conflitto. In altre parole, in anni recenti si è verificata un’efficace mobilitazione sociale della  società civile globale, comprese le sessioni del Tribunale Russell. Fa tutto parte di un processo che chiamo “intraprendere una guerra per la legittimità. Questo atteggiamento rende l’I.L molto importante perché dove è persuasiva e  dove influenza il comportamento nel tempo, è a livello della gente e delle società. La percezione aiuta a far mobilitare le persone intorno all’idea che i palestinesi sono stati molto vittimizzati da politiche ingiuste e da strutture ingiuste. Se si guarda alla tendenza storica dalla fine della II Guerra mondiale, la parte che in un conflitto vince la guerra di legittimità, in generale ha prevalso a livello politico, anche se non senza un alto costo di vite umane e di portata di distruzione. Ma una guerra dopo l’altra e nelle lotte tra regimi e società, non è la parte più forte militarmente che ha prevalso, ma piuttosto la parte che ha a disposizione strumenti superiori di per un soft power *per la risoluzione del conflitto. Tutte le guerre anti-coloniali, la  liberazione delle società dell’Europa dell’Est dai regimi che erano sotto il controllo sovietico egemonico,  la campagna sudafricana contro l’apartheid sono indicativi di questa tendenza, come la liberazione indiana dal potere britannico, sono stati tutti conflitti vinti dalla parte che decisamente era più debole dal punto di vista di un un hard power realistico. Questo è successo anche e drammaticamente nella guerra del Vietnam in cui gli Stati Uniti hanno vinto tutte le battaglie, ma hanno perduto la guerra. Bisogna chiedersi che cosa succede che fa succedere questo. Una delle cose che accadono è che la parte più debole militarmente può prevalere se può arrivare all’altezza del discorso legale e morale, se cambia l’equilibrio delle forze in modo molto efficace alla fine del conflitto e che  produce risultati che sono inaspettati e difficili da spiegare. Gli afgani hanno un detto: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo.” Quella distinzione tra la tecnologia e le persone che hanno un tempo illimitato a loro disposizione, è indicativa. Che la gente abbia  l’abilità di liberare il proprio paese, rappresenta una caratteristica decisiva della decolonizzazione e dell’atmosfera politica del post-coloniale. Una realtà del genere non era vera durante il periodo coloniale dove un piccolo     di superiorità militare poteva essere trasformata in controllo politico. La mobilitazione generale delle società e il senso del potere del popolo ha realmente alterato questo senso dell’equilibrio delle forze. Inoltre sostengo  che parte di ciò che mobilita il potere del popolo, è avere l’I.L, l’autorità dell’ONU la persuasione morale internazionale come sorgenti di un potere SOFT  che renda pari.

FB: Israele occupa parte della Palestina da più di 65 anni. Possiamo ancora chiamare questa, oggi, legalmente, un’occupazione e se non possiamo, che nome dovremmo darle?

RF: E’ un problema importante. Nel mio ruolo di Relatore Speciale dell’ONU ho sostenuto che qualsiasi occupazione duri più di 5 anni, entra in una fase diversa di rapporto tra la potenza occupante e il popolo occupato e che abbiamo bisogno di un tipo diverso di struttura legale per occuparci di questa realtà. Le Convenzioni di Ginevra erano state implicitamente designate a per occupazioni temporanee, circostanze che duravano 5 anni o anche meno. Nello specifico dell’occupazione israeliana è diventato sempre più fuorviante usare parlarne in termini di occupazione. Sicuramente si descrive meglio la situazione se parliamo di annessione strisciante o di politica di occupazione permanente. Questa alterazione nel modo di parlarne segnala la riluttanza di Israele a ritirarsi dal territorio o a mostrare rispetto per il carattere della società che esisteva quando era occupata all’inizio. Tutto il fenomeno dell’insediamento è sensibilmente divergente da qualsiasi idea che questa sia una situazione temporanea o che Israele contempli mai di ritirarsi completamente  e di rispettare la risoluzione 22 che è stata approvata nel 1967 e che chiedeva il ritiro completo e ricordava a Israele e al mondo che uno dei principi sui quali poggia la Carta delle Nazioni Unite la non-acquisizione di diritti territoriali per mezzo di una conquista o con l’uso della forza. Quindi, non essere riusciti ad di attuare la risoluzione 242 è un segno che l’ONU non riesce a essere in grado di imporre i tipi di obblighi che aveva espresso come elemento centrale di un mondo giusto e pacifico.

FB: John Dugard, il suo predecessore, faceva parte di un gruppo che ha scritto un rapporto nel 2009, in cui definiva apartheid ciò che stava accadendo in Cisgiordania. Che cosa ne pensa di questo concetto che viene usato sempre di più in varie campagne in tutto il mondo?

RF: Penso che ‘apartheid’ definisca meglio di qualsiasi altro modo parlare della situazione attuale. Ogni contesto di assoggettamento di un popolo ha la sua propria originalità. C’è una specie di tentazione da parte di chi critica quelli che invocano l’idea di apartheid per dire che non assomiglia a quella che esisteva in Sudafrica (S.A.), non è basata sulla razza, ci sono delle differenze. Ma se si guarda più da vicino si vede che in certi rispetti è peggiore dell’apartheid del Sudafrica. Per esempio, il Sudafrica non ha mai costruito strade soltanto per i coloni. Non hanno neanche mai creato una struttura così pervasiva di discriminazione come quella che esiste in Cisgiordania. La doppia struttura legale esprime molto una forma di dominazione a base etica che priva i palestinesi dei diritti, mentre assegna ai coloni illegali israeliani un assortimento completo di diritti civici come soni iscritti nella legge israeliana e applicabili ai nazionali ebrei. I palestinesi non hanno neanche il diritto di avere diritti, da un parte, e gli israeliani che sono presenti nei Territori Occupati in un modo che la Corte Internazionale di Giustizia quasi per opinione unanime, ha detto che era illegale hanno questa protezione legale completa in base alla norma giuridica che prevale in Israele per gli ebrei israeliani.

FB: il 27 ottobre a Città del Capo, in Sudafrica si è dato il via a una campagna denominata “Liberate Marwan Barghouti e tutti i prigionieri politici”. In che modo sono importanti i prigionieri politici e la loro liberazione nel contesto Israele/Palestina?

RF: L’importanza di Barghouti non deve essere esagerata. Come ho detto nel post pubblicato sul mio blog, che se la leadership israeliana a un certo punto decide che vogliono un futuro giusto e pacifico per entrambi i popoli, dovrebbero segnalare questo cambiamento di atteggiamento liberando Barghouti dalla prigione. In quel senso l’importanza del rilascio di Mandela non consisteva tanto nel fatto che gli fosse stata concessa improvvisamente e inaspettatamente la sua libertà politica, ma piuttosto chela libertà gli era stata data perché gli Afrikaners avevano cambiato idea in modo radicale riguardo al modo in cui volevano perseguire la propria sicurezza. Tutta la spinta di quella che chiamo guerra di legittimità è di far cambiare idea a Israele riguardo a quello che porterebbe loro la sicurezza e che realizzerebbe le loro aspirazioni.  Per questo una campagna per liberare Barghouti aiuterà almeno a far concentrare la mente di Israele su quello che c’è in gioco a tenendolo in prigione. Se debba essere considerato o no un prigioniero politico è di per sé una domanda alla quale non posso dare una risposta non avendo le conoscenze sufficienti. Certamente Barghouti agito come un prigioniero politico. Le accuse portate contro di lui sono accuse collegata a crimini violenti, d’altra parte il suo vero ruolo sembra essere stato quello di principale architetto della seconda intifada, non di una persona che abbia compiuto particolari atti di violenza che sono stati la base della sua imputazione e condanna. E quindi se debba giustamente essere trattato come un prigioniero politico è una cosa che è necessario esplorare in maggior dettaglio, e se questa è la base della campagna per il suo rilascio, allora  la discussione andrebbe fatta nel modo più forte possibile.

FB: Nel 2008 lei è stato nominato Relatore Speciale dell’ONU per Israele e Palestina. Se dovesse    riassumerlo, che cosa direbbe del suo  ruolo in questo periodo?

RF: Quello che ho sempre detto quando mi hanno fatto questa domanda di recente, è che sono stato molto contento di avere avuto l’ opportunità di aver svolto questo ruolo negli scorsi 6 anni malgrado tutti i problemi che implicava, ma sono contento anche  per motivi personali ed egoistici che il mio mandato stia terminando, e che sarò in grado di riprendere una vita più normale. Naturalmente, resterò impegnato nel movimento palestinese secondo la misura della mie capacità e alla luce delle occasioni per contribuire all’obiettivo di una pace giusta. Penso di aver imparato molto sia sulle complessità della lotta palestinese che sulle difficoltà di operare all’interno di un terreno politicamente contestato. Ho imparato anche i punti di forza e le debolezze dell’ONU in quanto apparato burocratico politico. C’è una grande disuguaglianza nella capacità e nella motivazione del personale. Uno dei miei problemi è stato di essere gravato dall’appoggio inadeguato dello staff che ha reso problematica la mia attività. Ci sono dei vantaggi nel fatto che questa carica non sia retribuita e intrapresa con spirito  volontaristico. Il grande beneficio di una tale condizione è di essere politicamente indipendenti. Ho scoperto che perfino il Segretario generale dell’ONU, naturalmente  è libero, di criticare, anche irresponsabilmente e in maniera offensiva, ma comunque manca dell’autorità per sua propria iniziativa di licenziarmi o punirmi in qualsiasi modo. Soltanto il Consiglio per i Diritti umani potrebbe farlo. Il peso del lavoro e farlo in maniera efficace e responsabile richiede l’appoggio competente e leale del personale. Quando questo non è sincero, è difficilissimo e frustrante cercare di fare il proprio lavoro. Negli ultimi anni questo problema è felicemente scomparso, e sono stato fortunato ad avere l’appoggio di personale eccellente e credo che questo ha fatto sì che l’incarico avesse un impatto maggiore e che questo si riflettesse nella qualità dei rapporti e nell’utilità delle loro raccomandazioni. Il lavoro richiede non soltanto rapporti a metà anno ma comporta anche occuparsi di prove specifiche e frequenti che possono presentarsi. Attualmente è esemplificativa l’emergenza a Gaza che è stata prodotta dal cambiamento di atmosfera  politica in Egitto, che ha messo una pressione insopportabile sulle persone che vivono a Gaza. Tutto è stato difficile  per anni per la gente intrappolata a Gaza, ma ora si può solamente descrivere Gaza come un luogo di residenza adatto soltanto alla situazione. La comunità internazionale fallisce terribilmente stando in silenzio davanti a questa situazione. Soltanto il governo turco ha dato un contributo finanziario di 80 milioni di dollari per attenuare alcuni dei problemi, ma è un apporto molto minore se paragonato alla portata del problema. Si può ricordare l’invocazione molto ipocrita della norma della cosiddetta responsabilità di proteggere in relazione alla Libia nel 2011, che all’epoca era stata manipolata a livello geopolitico per creare la base per un intervento militare che non era soltanto umanitario, ma che chiaramente era inteso a cambiare la struttura politica della Libia in un modo che ha fuorviato i governi che affermavano nel Consiglio di Sicurezza che erano contrari a quella politica. A Gaza c’è una situazione in cui il caso umanitario per il soccorso in certo tipo di emergenza internazionale sembra immenso, e tuttavia c’è un silenzio completo sull’importanza della diplomazia del Diritto a proteggere (R2P – Right to Protect). Questo indica due cose. Una è il primato della geopolitica nel modo in cui gli Stati Uniti creano le risposte alle vaie richieste di  assistenza basate sulla necessità umanitaria. Ci sono dei metodi pervasivi in cui si applicano  due pesi e due misure, nella pratica dell’ONU, e una grande dose di ipocrisia morale da parte delle democrazie liberali che parlano in un modo quando la loro politica estera li spinge verso una posizione interventista, e parlano in un  modo molto diverso quando non vogliono fare nulla. Questo è vero anche quando le circostanze che stanno alla base sono più o meno simili. L’altra cosa è che la misura della necessità umanitaria non è molto rilevante per spiegare il modello di azione e inazione geopolitica.

FB: Che cosa significa per Richard Falk una vita normale? Che cosa farà prossimamente?

Vedremo! Penso che cercherò di prendermi un po’ più di tempo per scrivere e spero di essere in grado di riflettere su queste esperienze. Spero che il mio successore alla carica di Relatore Speciale avrà meno difficoltà e tribolazioni di quelle che ho avuto, ma anche che faccia un lavoro migliore del mio perché penso che questa è una carica veramente importante. Purtroppo è l’unica voce realmente indipendente che i palestinesi hanno nell’ambito del sistema dell’ONU. Questa carica di Relatore Speciale, in parte perché non è retribuita e non è soggetta alla disciplina imposta ai dipendenti dell’ONU, ha guadagnato in influenza e in statura durante l’ultimo decennio.  Offre all’individuo una l’opportunità di aiutare i palestinesi nella loro lotta soltanto con l’essere leali. Ci permette anche di promuovere un giusto esito di questo conflitto che è durato fin troppo a lungo e che ha tormentato il popolo palestinese che vive in stato di occupazione, o come rifugiati, o come esuli, dispersi in tutto il mondo per un tempo troppo lungo.  Questa traversia dei palestinesi rappresenta un grande fallimento della comunità internazionale e si dovrebbe ricordare che, al contrario di tutte le altre guerre di liberazione contro vari tipi di dominio coloniale, l’ONU ha maggiori responsabilità non assolte per questa, rispetto all’altra. Il problema era stato messo in grembo all’ONU dalla lega delle Nazioni e poi dai britannici sotto forma di abbandono del loro ruolo come potenza mandataria.  E’ stato l’ONU che nel 1947 ha decretato un partition plan (piano di partizione) che è stato adottato da una commissione che non si è mai consultata circa i desideri dei palestinesi o dei residenti nella Palestina storica. In anni recenti il piano di azione e i leader politici statunitensi continuano a sostenere la prerogativa di dire al mondo che cosa è stato bene per i palestinesi e in tutti questi contesti la vera esperienza è stata una situazione peggiore  per la pace e la giustizia. Su questo sfondo, la comunità internazionale ha una grossa responsabilità di aver  superato serie di fallimenti, sebbene in modo tardivo. Quando la gente si lamenta, e lo fa spesso, che l’ONU e il Consiglio per i Diritti Umani, passano troppo tempo sui problemi palestinesi rispetto ad altri problemi di tutto il mondo, la mia replica è che  invece non vi dedica tempo sufficiente, che ha fallito nel  portare a termine le cose  in un modo che è efficace per portare pace e giustizia ai palestinesi, e fin quando lo farà, non ha etica o base per non tentare  tutto il possibile  per fare così.

http://www.treccani.it/vocabolario/harpower_(Neologismi) http://www.treccani.it/vocabolario/tag/soft-power/


Frank Barat per LMaDO: (La Mur a des Oreilles – Il muro ha le orecchie – Conversazioni per la Pastina, è una trasmissione radiofonica mensile durante la quale un ospite parla della questione palestinese, n-d.t.). 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/interview-on-palestine

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