Originale:  TomDispatch.com
http://znetitaly.altervista.org
6 agosto 2014

Quanti minuti mancano alla mezzanotte?
di Noam Chosmky
traduzione di Giuseppe Volpe

Se qualche specie extraterrestre stesse compilando una storia dell’homo sapiens potrebbe ben dividere il calendario in due ere: PAN (Prima delle Armi Nucleari) e EAN (era delle armi nucleari). Quest’ultima era, ovviamente, si è aperta il 6 agosto 1945, il primo giorno del conteggio alla rovescia di quella che può essere la fine ingloriosa di questa specie, che ha ottenuto l’intelligenza per scoprire mezzi efficaci per autodistruggersi – questo suggerisce l’evidenza – e non la capacità morale e intellettuale di controllare i propri istinti peggiori.

Il giorno uno dell’EAN è stato contrassegnato dal “successo” di Little Boy, una bomba atomica semplice. Il giorno quattro Nagasaki ha sperimentato il trionfo tecnologico di Fat Man, un progetto più sofisticato. Cinque giorni dopo è arrivato quello che la storia dell’aviazione chiama il “gran finale”, un attacco di mille aerei – un risultato logistico non di second’ordine – contro città giapponesi che ha uccise molte migliaia di persone, con volantini che cadevano tra le bombe con la scritta “Il Giappone si è arreso”. Truman annunciò la resa prima del ritorno alla base dell’ultimo B-52.

Quelli furono i lieti giorni d’apertura dell’EAN. Mentre oggi entriamo nel suo settantesimo anno, dovremmo contemplare con stupore ciò cui siamo sopravvissuti. Quanti anni ancora ci rimangano, possiamo solo tirare a indovinarlo.

Alcune riflessioni su queste sinistre prospettive sono state offerte dal generale Lee Butler, già capo del Comando Strategico USA (STRATCOM), che controlla la strategia e gli armamenti nucleari. Vent’anni fa egli scrisse che sino ad allora eravamo sopravvissuti all’EAN “grazie a una combinazione di competenza, fortuna e intervento divino, e sospetto quest’ultimo in proporzione maggiore”.

Riflettendo sulla sua lunga carriera nello sviluppare strategie degli armamenti nucleari e nell’organizzare i militari ad attuarle efficientemente, egli si è dolorosamente descritto come uno che era stato “tra i più ferventi sostenitori della fede nelle armi nucleari”. Ma, ha continuato, era arrivato a rendersi conto che a quel punto era suo “onere dichiarare con tutta la convinzione che sono in grado di chiamare a raccolta che, a mio giudizio, ci hanno servito estremamente male”. E ha chiesto: “In forza di quale autorità generazioni successive di leader degli stati con armamenti nucleari usurpano il potere di imporre le probabilità della prosecuzione della vita sul nostro pianeta? E, cosa più urgente, perché tale audacia mozzafiato persiste in un momento in cui dovremmo tremare di fronte alla nostra follia e unirci nel nostro impegno ad abolirne le manifestazioni più mortali?”

Ha definito il piano strategico statunitense del 1960 che sollecitata un attacco automatico a tutto campo contro il mondo comunista “il singolo documento più assurdo e irresponsabile che io abbia mai esaminato in vita mia”. La sua controparte sovietica era probabilmente ancora più folle. Ma è importante tener presente che ci sono valori concorrenti, non ultimo tra essi la facile accettazione di minacce straordinarie alla sopravvivenza.

La sopravvivenza nei primi anni della guerra fredda

Secondo la dottrina accolta nel mondo accademico e nel dibattito intellettuale generale, il principale obiettivo della politica statale è la “sicurezza nazionale”. Ci sono ampie prove, tuttavia, che la dottrina della sicurezza nazionale non comprende la sicurezza della popolazione. La documentazione rivela che, ad esempio, la minaccia di una distruzione istantanea mediante armi nucleari non è tra le principali preoccupazioni dei pianificatori. Ciò è stato dimostrato molto presto e resta vero ancor oggi.

Nei primi giorni dell’EAN, gli Stati Uniti erano potenti in misura schiacciante e godevano di una considerevole sicurezza: controllavano l’emisfero, gli oceani Atlantico e Pacifico e anche le sponde opposte di tali oceani. Molto prima della seconda guerra mondiale erano già diventati di gran lunga il paese più ricco del mondo, con vantaggi incomparabili. La loro economia aveva vissuto un boom durante la guerra, mentre altre società industriali furono devastate o gravemente indebolite. Aprendo la nuova era gli Stati Uniti possedevano circa metà della ricchezza totale del mondo e una percentuale anche maggiore del suo potenziale manifatturiero.

C’era, tuttavia, una minaccia potenziale: i missili balistici intercontinentali con testate nucleari. Quella minaccia era discussa negli studi accademici standard sulle politiche nucleari, condotti con successo da fonti di alto livello: Danger and Survival: Choices About the Bomb in the First Fifty Years [Pericolo e sopravvivenza: scelte sulla bomba nei primi cinquant’anni], di McGeorge Bundy, consigliere per la sicurezza nazionale durante le presidenze Kennedy e Johnson.

Bundy scrisse che “il tempestivo sviluppo di missili balistici durante l’amministrazione  Eisenhower è un dei risultati migliori di quegli otto anni. Tuttavia è bene iniziare riconoscendo che sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica potrebbero trovarsi oggi in un pericolo molto minore se [quei] missili non fossero mai stati sviluppati”. Aggiunse poi un commento istruttivo: “Non sono al corrente di alcuna proposta contemporanea, in seno al governo o fuori di esso, che i missili balistici fossero in qualche modo messi consensualmente al bando”. In breve, non c’era apparentemente idea di tentare di prevenire la sola minaccia grave agli USA, la minaccia di totale distruzione in una guerra nucleare con l’Unione Sovietica.

Tale minaccia poteva essere tolta di mezzo? Naturalmente non possiamo esserne certi ma era tutt’altro che inconcepibile. I russi, molto indietro nello sviluppo industriale e nella sofisticazione tecnologica, si trovavano in un contesto molto più minaccioso. Dunque erano considerevolmente più vulnerabili a tali sistemi di armamenti rispetto agli USA. Avrebbero potuto esserci opportunità di esplorare tali possibilità, ma nell’isterismo straordinario del tempo esse potevano difficilmente essere percepite. E tale isterismo era davvero straordinario. Un esame della retorica dei documenti ufficiali centrali dell’epoca, come il documento del Consiglio della Sicurezza Nazionale NSC-68 [tradotto qui: http://znetitaly.altervista.org/art/13705 - n.d.t.] resta molto sconvolgente, anche a prescindere dall’ingiunzione del Segretario di Stato Dean Acheson che occorre essere “più chiari della verità”.

Un’indicazione di possibili opportunità di stemperare la minaccia fu una notevole proposta del leader sovietico Joseph Stalin nel 1952 che offriva di consentire la riunificazione della Germania con libere elezioni a condizione che non aderisse a un’alleanza militare ostile. Non si può dire che fosse una condizione estrema alla luce della storia del mezzo secolo precedente durante il quale la Germania da sola aveva praticamente distrutto due volte la Russia, esigente un terribile pedaggio.

La proposta di Stalin fu presa sul serio dal rispettato opinionista politico James Warburg, ma per il resto fu prevalentemente ignorata o ridicolizzata all’epoca. Studi recenti hanno cominciato ad assumere un orientamento diverso. Lo studioso aspramente contrario al comunismo sovietico Adam Ulam ha considerato la situazione della proposta di Stalin un “mistero irrisolto”. Washington “non dedicò grande fatica nel rigettare nettamente l’iniziativa di Mosca”, ha scritto, motivando ciò con il fatto che la stessa era “non convincente in misura imbarazzante”. L’insufficienza politica, accademica e, in generale, intellettuale lasciò aperta “la domanda fondamentale”, ha aggiunto Ulam: “Stalin era sinceramente pronto a sacrificare sull’altare della democrazia la Repubblica Democratica Tedesca (DDR) di nuova creazione” con conseguenze per la pace mondiale e la sicurezza statunitense che sarebbero state enormi?

Esaminando ricerche recenti negli archivi sovietici, uno dei più rispettati studiosi della guerra fredda, Melvyn Leffler, ha osservato che numerosi studiosi sono rimasti sorpresi nello scoprire che “[Lavrenti] Beria – il sinistro, brutale capo della polizia segreta [russa] – propose che il Cremlino offrisse all’occidente un accordo sull’unificazione e la neutralizzazione della Germania”, accettando “di sacrificare il regime comunista della Germania Orientale per ridurre le tensioni Est-Ovest” e migliorare la situazione politica ed economica interna in Russia, opportunità che fu sprecata a favore di assicurare la partecipazione tedesca alla NATO.

In quella situazione non è impossibile che si sarebbero potuti raggiungere accordi che avrebbero potuto proteggere la sicurezza della popolazione statunitense dalla minaccia più grave all’orizzonte. Ma tale possibilità apparentemente non fu presa in considerazione, un’impressionante indicazione di quanto marginale sia il ruolo dell’autentica sicurezza nella politica statale.

La crisi dei missili cubani e oltre

Tale conclusione è stata sottolineata ripetutamente negli anni seguenti. Quando Nikita Kruscev assunse il potere in Russia nel 1953 dopo la morte di Stalin, riconobbe che l’URSS non poteva competere militarmente con gli Stati Uniti, il paese più potente e più ricco della storia, dotato di vantaggi incomparabili. Se mai avesse sperato di sottrarsi alla sua arretratezza economica e all’effetto devastante dell’ultima guerra mondiale, [l’URSS] avrebbe dovuto invertire la corsa agli armamenti.

Conseguentemente Kruscev propose forti riduzioni mutue delle armi offensive. La nuova amministrazione Kennedy prese in considerazione l’offerta e la respinse, passando invece a una rapida espansione militare, anche se era già molto in vantaggio. Lo scomparso Kenneth Waltz, appoggiato da altri analisti strategici con stretti collegamenti con i servizi segreti statunitensi, scrisse allora che l’amministrazione Kennedy “ha intrapreso il più vasto potenziamento militare convenzionale e strategico che il mondo abbia mai visto in tempo di pace … pur se Kruscev sta contemporaneamente cercando di portare avanti una grande riduzione delle forze convenzionali e di seguire una strategia di deterrenza minima, e l’abbiamo fatto anche se il rapporto, quanto alle armi strategiche, era fortemente a favore degli Stati Uniti”. Di nuovo, danneggiando la sicurezza nazionale nel rafforzare il potere statale.

I servizi segreti statunitensi verificarono i grandi tagli che effettivamente erano stati fatti alle forze militari sovietiche attive, sia in termini di aviazione sia di personale. Nel 1963 Kruscev sollecitò nuovamente altre riduzioni. Come gesto ritirò le truppe dalla Germania dell’Est e chiese a Washington di fare altrettanto. Anche quella richiesta fu respinta. Willam Kaufmann, un ex assistente di vertice del Pentagono e analista di spicco di temi della sicurezza, ha descritto la mancata risposta statunitense alle iniziative di Kruscev, in termini professionali, “l’unico rammarico che provo”.

La reazione sovietica al potenziamento statunitense di quegli anni fu la collocazione di missili nucleari a Cuba nell’ottobre del 1962 per tentare un riequilibrio almeno limitato. La mossa fu anche motivata in parte dalla campagna terroristica di Kennedy contro la Cuba di Fidel Castro, che aveva in programma di arrivare all’invasione in quello stesso mese, come Russia e Cuba potevano aver saputo. La seguente “crisi dei missili” fu “il momento più pericoloso della storia”, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere e confidente di Kennedy.

Mentre la crisi giungeva al suo apice alla fine di ottobre, Kennedy ricevette una lettera segreta da Kruscev che gli offrire di porvi fine ritirando contemporaneamente i missili russi da Cuba e i missili Jupiter statunitensi dalla Turchia. Questi ultimi erano missili obsoleti, di cui era già stato ordinato il ritiro dall’amministrazione Kennedy perché sarebbero stati sostituiti da sottomarini Polaris, molto più letale, di stazione nel Mediterraneo.

La stima soggettiva di Kennedy in quel momento fu che se avesse rifiutato l’offerta del premier sovietico c’era una probabilità tra il 33 e il 50% di una guerra nucleare, una guerra che, come aveva ammonito il presidente Eisenhower, avrebbe distrutto l’emisfero nord. Ciò nonostante Kennedy rifiutò la proposta di Kruscev di un ritiro pubblico dei missili a Cuba e in Turchia; soltanto il ritiro dei missili da Cuba poteva essere pubblico, in modo da proteggere il diritto di statunitense di collocare missili ai confini russi o dovunque volesse.

E’ difficile immaginare una decisione più orrenda nella storia, e per questo è ancor oggi grandemente elogiato per il suo freddo coraggio e la sua statura come statista.

Dieci anni dopo, negli ultimi giorni della guerra arabo-israeliana del 1973, Henry Kissinger, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Nixon, lanciò un allarme nucleare. Lo scopo era avvertire i russi di non interferire nelle sue delicate manovre diplomatiche intese a garantire la vittoria di Israele, ma di genere limitato in modo che gli Stati Uniti avrebbero avuto ancora il controllo unilaterale della regione. E le manovre erano davvero delicate. Gli Stati Uniti e la Russia avevano imposto congiuntamente un cessate il fuoco, ma Kissinger informò segretamente gli israeliani che potevano ignorarlo. Di qui la necessità dell’allarme nucleare per impaurire i russi. Quanto alla sicurezza degli statunitensi si era alle solite.

Dieci anni dopo l’amministrazione Reagan lanciò operazioni per mettere alla prova le difese aeree russe simulando attacchi aerei e navali e un elevato allarme nucleare che ci si attendeva i russi avrebbero individuato. Tali iniziative furono intraprese in un momento di grande tensione. Washington stava dispiegando i missili strategici Pershing II in Europa, a distanza di cinque minuti di volo da Mosca. Il presidente Reagan aveva anche annunciato il programma Iniziativa di Difesa Strategica (“Guerre stellari”) che i russi interpretarono come, in effetti, un’arma di primo attacco, un’interpretazione standard della difesa missilistica in ogni schieramento. E altre tensioni andavano aumentando.

Naturalmente queste azioni causarono un grande allarme in Russia che, diversamente dagli Stati Uniti, era molto vulnerabile ed era stata ripetutamente invasa e virtualmente distrutta. Ciò determinò una grave paura della guerra nel 1983. Archivi di nuova apertura rivelano che il pericolo fu anche più grave di quanto gli storici avessero in precedenza ritenuto. Uno studio della CIA “La paura della guerra fu reale” ha concluso che i servizi segreti statunitensi possono aver sottovalutato le preoccupazioni russe e la minaccia di un attacco nucleare preventivo russo. Le esercitazioni “divennero quasi un preludio a un attacco nucleare preventivo”, secondo un articolo sul Journal of Strategic Studies.

Fu anche più pericoloso di così, come abbiamo appreso lo scorso settembre, quando la BBC ha riferito che proprio nel bel mezzo di questi sviluppi minacciosi per il mondo, i sistemi di allarme preventivo della Russia avevano individuato un attacco missilistico in arrivo dagli Stati Uniti, mandando in massimo allerta il sistema nucleare del paese. Il protocollo dell’esercito sovietico prevedeva una rappresaglia con un proprio attacco nucleare. Fortunatamente l’ufficiale in servizio, Stanislav Petrov, decise di disobbedire agli ordini e di non riferire l’allarme ai suoi superiori. Ricevette una reprimenda ufficiale. E grazie alla sua negligenza del dovere siamo ancora vivi per parlarne.

La sicurezza della popolazione non è stata per i pianificatori dell’amministrazione Reagan una priorità elevata maggiore di quella dei loro predecessori. E ciò è continuato fino al presente, anche tralasciando i numerosi incidenti nucleari semi-catastrofici verificatisi negli anni, molti dei quali esaminati nel raggelante studio di Eric Schlosser Command and Control: Nuclear Weapons, the Damascus Accident and the Illusion of Safety [Comando e controllo: armi nucleari, l’incidente di Damascus e l’illusione della sicurezza]. In altre parole è difficile contestare le conclusioni del generale Butler.

Sopravvivenza nell’era successiva alla guerra fredda

Nemmeno le azioni e le dottrine post guerra fredda sono granché rassicuranti. Ogni presidente che si rispetti deve avere una dottrina. La Dottrina Clinton era riassunta nello slogan “multilaterali quando possiamo, unilaterali quando dobbiamo”. In una testimonianza al Congresso l’espressione “quando dobbiamo” è stata spiegata più compiutamente: gli USA hanno diritto di ricorrere “all’uso unilaterale della forza militare” per garantire “un accesso incontrastato a mercati, forniture energetiche e risorse strategiche chiave”. Contemporaneamente lo STRATCOM dell’era Clinton aveva prodotto uno studio importante intitolato “Fondamenti della deterrenza post guerra fredda”, diffuso ben dopo che l’Unione Sovietica era crollata e Clinton stava estendendo il programma del presidente George H.W.Bush di espandere la NATO a est in violazione di promessi al primo ministro sovietico Mikhail Gorbacev, con echi nel presente.

Lo studio dello STRATCOM si occupava del “ruolo degli armamenti nucleari nell’era post guerra fredda”. Una conclusione centrale: che gli USA devono conservare il diritto di lanciare un attacco per primi, anche contro stati non nucleari. Inoltre le armi nucleari devono essere sempre pronte perché “gettano un’ombra su ogni crisi o conflitto”. Sono state, cioè, usate costantemente proprio come si usa un’arma quando la si punta senza sparare mentre si rapina un negozio (un punto che Daniel Ellsberg ha ripetutamente sottolineato). STRATCOM ha proseguito consigliando che “i pianificatori non dovrebbero essere troppo razionali nello stabilire … a che cosa l’avversario dà più valore”. Dovrebbe essere preso di mira semplicemente tutto. “Danneggia presentarci come troppo interamente razionali e dotati di sangue freddo … Che gli Stati Uniti possano diventare irrazionali e vendicativi se sono attaccati i loro interessi vitali dovrebbe essere parte della personalità nazionale che proiettiamo”. E’ “vantaggioso [per il nostro atteggiamento strategico] se alcuni elementi possono apparire potenzialmente ‘fuori controllo’”, costituendo una minaccia costante di attacco nucleare, una grave violazione della Carta dell’ONU, nel caso interessi a qualcuno.

Non molto qui a proposito dei nobili obiettivi costantemente proclamati o, quanto a questo, degli obblighi in base al Trattato sulla Non-Proliferazione di compiere sforzi “in buona fede” per eliminare questo flagello del pianeta. Quello che echeggia, piuttosto, è un adattamento del famoso verso di Hilaire Belloc riguardo all’Arma Massima (per citare il grande storico africano Chiweizu]:

“Succeda quel che vuol, cosa ci fanno?

L’atomica noi si ha. Loro non l’hanno”.

Dopo Clinton è arrivato, naturalmente, George W. Bush il cui vasto avallo della guerra preventiva ha ricompreso agevolmente l’attacco giapponese del dicembre 1941 a basi militari in due possedimenti statunitensi all’estero, in un momento in cui i militaristi giapponesi erano ben consapevoli che le Fortezze Volanti B-17 erano sfornate dalle catene di montaggio e dispiegate in quelle basi con l’intenzione di “ridurre in cenere il cuore industriale dell’Impero con attacchi incendiari ai formicai di bambù di Honshu e Kyushu”. E’ così che piani anteguerra erano descritti dal loro architetto, il generale dell’aviazione Claire Chennault, con l’approvazione entusiastica del presidente Franklin Roosevelt, del Segretario di Stato Cordell Hull e del Capo di Stato Maggiore dell’esercito generale George Marshall.

Poi arriva Barack Obama, con parole gradevoli a proposito di lavorare per abolire le armi nucleari, combinate con piani per spendere un trilione di dollari per l’arsenale nucleare statunitense nei prossimi trent’anni, una percentuale del bilancio militare “paragonabile alla spesa per l’acquisizione di nuovi sistemi strategici negli anni ’80 sotto il presidente Ronald Reagan”, secondo uno studio di Centro Studi James Martin sulla Non-Proliferazione presso l’Istituto Studi Internazionali di Monterey.

Obama, anche, non ha esitato a giocare col fuoco per guadagno politico. Si prenda ad esempio la cattura e l’assassinio di Osama bin Laden ad opera dei Navy SEAL. Obama ha menzionato l’evento con orgoglio in un importante discorso sulla sicurezza nazionale nel maggio del 2013. Ha ricevuto vasta eco mediatica ma è stato ignorato un paragrafo cruciale.

Obama ha celebrato l’operazione ma ha aggiunto che non poteva essere la norma. Il motivo, ha detto, era che i rischi “sono stati immensi”. I SEAL avrebbero potuto essere “coinvolti in un esteso conflitto a fuoco”. Anche se, per fortuna, ciò non era accaduto “il costo delle nostre relazioni con il Pakistan e il contraccolpo presso il pubblico pachistano per l’interferenza nella sua terra è stato … pesante.”

Aggiungiamo alcuni dettagli. Ai SEAL era stato ordinato di liberarsi combattendo se catturati. Non sarebbero stati lasciati al loro destino se “coinvolti in un esteso conflitto a fuoco”. Per liberarli sarebbe stata usata l’intera forza dell’esercito USA. Il Pakistan ha un esercito potente e ben addestrato, molto protettivo della sovranità dello stato. Ha anche armi nucleari e gli specialisti pachistani sono preoccupati della possibile penetrazione del loro sistema di sicurezza nucleare da parte di elementi jihadisti. Non è un segreto che la popolazione è stata incattivita e radicalizzata dalla campagna terroristica dei droni e da altre politiche di Washington.

Mentre i SEAL erano ancora nel complesso di bin Laden, il Capo di Stato Maggiore pachistano Ashfaq Parvez Kayani era informato dell’attacco e ordinava all’esercito di “attaccare qualsiasi velivolo non identificato”, che egli presumeva proveniente dall’India. Contemporaneamente a Kabul il comandante della guerra USA generale David Petraeus ordinava all’”aviazione di reagire” se i pachistani “avessero fatto decollare i loro caccia da combattimento”. Come ha detto Obama, per fortuna non è accaduto il peggio, anche se avrebbe potuto essere molto brutto. Ma i rischi sono stati affrontati senza preoccupazione degna di nota. O commento successivo.

Come osservò il generale Butler, è quasi un miracolo che ci siamo sin qui sottratti alla distruzione e tanto più sfidiamo il destino tanto meno è probabile che potremo sperare che l’intervento divino perpetui il miracolo.

Riferimenti biografici e sulla fonte originale omessi

 


Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/how-many-minutes-to-midnight/

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