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Indignati dalla morte di un adolescente libanese i giovani protestano con la campagna #notamartyr E' la fine di dicembre 2013, il sedicenne Mohammad Chaar è in posa per un autoscatto. Pochi istanti dopo si stà dissanguando sul marciapiede, dopo l’esplosione di un’autobomba. Penso che Mohammad Chaar sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Perché quello che stava facendo era un autoscatto, cosa che tutti noi facciamo ogni giorno, ed era, presumibilmente, in una zona sicura. Non cerchiamo solo di porre fine a un massacro senza senso, vogliamo anche giustizia per Chaar. I libanesi hanno iniziato a protestare contro la morte dell’adolescente attraverso una campagna online chiamata Non è un martire. #notamartyr Chaar è morto per le ferite, e non passò molto tempo prima che fosse bollato come martire. Ma molti giovani libanesi, stanchi della costante violenza che imperversa nel loro paese, s’indignarono per quell'etichetta. A decine hanno inviato foto online dopo l'attentato di dicembre che ha ucciso Mohammad al Chaar, e la campagna #notamartyr ha dato voce ad una generazione che cerca di migliorare la propria vita in Libano. Non voglio sentire, né vedere ancora un’altra esplosione. Voglio portare gli assassini davanti alla giustizia. Voglio un governo che non rubi i soldi, i sogni, le speranze, al suo popolo. Voglio l'accesso indolore a 24 ore di energia elettrica e acqua. Non voglio sentire la frase 'questo è il Libano' usata come una scusa. Voglio tenere la mano del mio ragazzo senza paura della polizia. Il mio autoscatto era contro l'omofobia della polizia e non sentirsi sicuri di manifestare pubblicamente il proprio affetto o di dichiarare pubblicamente la propria identità sessuale. Non che, quando qualcuno posta un autoscatto, possa veramente risolvere i problemi, ma è interessante vedere come, le questioni politiche più grandi del paese, in realtà, si sedimentino [sic] nelle quotidiane esperienze di vita delle persone. Voglio dedicare meno tempo a difendere il mio paese e più tempo a dimostrare alla gente che il Libano è degno dell’amore che nutro per lui. Sento un generale senso di impotenza e di disperazione in Libano in questi giorni. Credo che, un sacco di persone si sentano come anatre sedute in attesa che i nostri politici giochino una sorta di gioco malato. Il martirio richiede in realtà una sorta di auto-sacrificio. Bisogna essere disposti a morire per qualcosa. E molti di questi passanti che vengono uccisi durante questi attacchi ,in realtà non hanno mai espresso alcun tipo di interesse a morire per una certa causa. Sentivo il bisogno di un qualche tipo di motivazione. Mi sentivo come la maggior parte delle persone che hanno rinunciato e anch’io sono abbastanza vicina a rinunciare, e se non succede qualcosa, è difficile innamorarsi ancora di questo paese e nutrire speranze e sogni su di esso. Io dico che non voglio finire in Dubai. Voglio dire, purtroppo, il Libano sta perdendo tutta i suoi giovani perché non ci sono opportunità qui, non è sicuro. Se si desidera avviare una famiglia non si può davvero farlo qui. Le opportunità di lavoro sono molto, molto limitate. La mia famiglia è più forte del governo - devo ridere o devo piangere? - si legge su di uno dei cartelli postati. Il concetto di martirio è profondamente radicato nella psicologia di guerra del Libano. Ma i giovani libanesi ne rifiutano il termine. Nel 2014, voglio esprimere la mia opinione, non voglio essere messa a tacere. Non possiamo più desensibilizzare noi stessi per l'orrore costante della vita in Libano. Ci rifiutiamo di diventare martiri. Ci rifiutiamo di rimanere vittime. Noi ci rifiutiamo di morire di una morte collaterale. Quando si dice martire, non c'è discussione su quel titolo. Ma siamo arrivati ad un punto in cui il titolo di martire diventa un modo di assolvere il governo del dovere di indagare effettivamente e punire i responsabili delle stragi ... Quello che si vede oggi è la gente che dice, no, non vogliamo essere un martire. Siamo vittime se moriamo quando stiamo andando al lavoro o a scuola mentre facciamo le cose della vita quotidiana. Gli attivisti di #notamartyr non sono gli unici che usano la creatività per combattere l'autocompiacimento. Dopo l'attentato che ha ucciso Chaar, l’artista libanese Rima Najdi ha messo su una performance provocatoria vestendosi come un kamikaze e passeggiando per il lungomare di Beirut. Stavo guidando a Beirut e ad ogni semaforo rosso, in realtà, cercavo una bomba. E stavo aspettando che la bomba esplodesse. Il fatto che ho guardato fuori dal finestrino della mia auto la gente e ho pensato che anche loro si sentivano allo steso modo, e si guardavano intorno alla ricerca di una bomba, come una sorta di sentimento chiave. Ho sentito il bisogno di reagirea in qualche modo, così è nata l'idea. La sensazione che stai per morire in qualunque momento presto diventa solo un processo in cui si passa attraverso, se siete a piedi per la strada, ha detto Najdi. Così questo è abbastanza preoccupante, il punto non può essere e non sarà mai su come celebrare una morte, piuttosto, su come costruire una vita.
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