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30/01/2014

In Iraq è guerra civile: settemila morti in un anno, 900 vittime da inizio 2014
di Eugenio Dacrema

Esplosioni, scontri settari, città occupate: la guerra tra al-Maliki e al-Qaeda che nessuno racconta

Settemila morti ammazzati in un anno. Succedesse in qualunque altra parte del mondo si parlerebbe di guerra. Ma per l’Iraq è diverso.

Per l’Iraq esplosioni settimanali, scontri settari e città occupate da gruppi terroristi rientrano in un’altra sfera semantica: normalità. Perfino chi ci abita fa fatica a parlare di guerra. Ma che qualcosa si stia muovendo e che la situazione stia peggiorando perfino per gli standard iracheni è ormai chiaro.

Una cifra del genere, 7 mila morti, non si vedeva dal 2008. Quello fu l’ultimo anno della campagna che le forze americane e quelle irachene guidarono contro le milizie qaediste che dominavano larghe fette di territorio nelle province sunnite nord occidentali e che portò, seppur a caro prezzo, alla pressoché totale eliminazione dell’Isi (Islamic State in Iraq), la succursale di al-Qaeda nel Paese. In quei giorni lo sciita Nuri al-Maliki era già Primo ministro da due anni, carica che non ha abbandonato fino ad oggi vincendo nuovamente le elezioni nel 2010. Guidava una coalizione di governo composta da forze miste, con il suo partito “Dawa”, il più grande tra la maggioranza sciita, che divideva il potere con dei partiti minori rappresentanti della minoranza sunnita. Sembrava che l’Iraq di al-Maliki potesse avviarsi verso una riconciliazione nazionale e un rispetto reciproco fra le diverse componenti religiose della società. Tale visione era condivisa anche dalla maggioranza dei sunniti, che in quei mesi reagirono violentemente contro la presenza di al-Qaeda nei loro territori, contribuendo in modo determinante all’eliminazione e alla fuga dei suoi membri.

A distanza di sei anni le cose hanno preso però una piega molto diversa. Dopo aver conseguito il ritiro ordinato delle forze americane in seguito alla sua rielezione del 2010, al-Maliki – sempre più vicino politicamente all’Iran – ha lanciato una campagna di delegittimazione dei suoi alleati sunniti che ha portato all’arresto e alla condanna di numerosi esponenti di primo piano della politica sunnita, compresi Tariq al-Hashimi – ex vice-presidente della Repubblica – e Rafi al-Issawi – ex ministro delle finanze – accusati entrambi di avere legami con milizie armate responsabili di gravi fatti di sangue. Agli arresti di alto livello si è accompagnata una recrudescenza delle politiche di emarginazione della minoranza sunnita, ormai esclusa da quasi tutti gli uffici pubblici e da tutti i ruoli di potere. Il 2013 ha visto perciò un ritorno delle grandi manifestazioni di piazza, soprattutto nelle province di al-Anbar e Ninive, spesso represse nel sangue dalle forze di sicurezza.

Mentre cresceva costantemente la frustrazione all’interno della comunità sunnita, il conflitto civile nella vicina Siria ha concesso alla decimata al-Qaeda irachena una nuova occasione per riorganizzarsi e reclutare militanti. All’inizio del 2012 alcuni esponenti dell’Isi si sono spostati in Siria, fondando il gruppo di Jabhat al-Nusra, e iniziando a reclutare tra la popolazione locale sotto la guida di un jihadista veterano di origine siriana, Abu Mohammad al-Joulani. Seppur numericamente esiguo, il gruppo è diventato velocemente il più efficace tra le fila dei ribelli, grazie al superiore addestramento dei suoi membri e alla possibilità di sfruttare i finanziamenti a disposizione della rete internazionale dell’organizzazione.

La crescita di al-Nusra come gruppo indipendente ha però portato molto presto a una spaccatura senza precedenti all’interno di al-Qaeda. Lo scontro è avvenuto quando Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isi, ha dichiarato al-Nusra il braccio siriano della sua organizzazione. Immediatamente è giunta dalla Siria la risposta piccata di al-Joulani, a cui è seguito il richiamo ufficiale di Ayman al-Zawahiri – attuale leader di al-Qaeda dopo la morte di Osama bin Laden – che ha chiesto ad al-Baghdadi di rispettare al-Nusra come fazione qaedista indipendente in Siria. La leadership dell’Isi ha però deciso di disubbidire ai capi dell’organizzazione e ha lanciato una propria campagna in Siria, trasformandosi nell’Isis (Islamic State in Iraq and Syria).

Il nuovo gruppo, composto quasi totalmente da jiadisti internazionali, si è macchiato di numerosi crimini ed efferatezze nei confronti della popolazione locale. Esso, più che combattere direttamente il regime di Bashar al-Assad, ha usato le grandi aree di territorio siriano che è riuscito a occupare come luoghi di rifugio e addestramento per le proprie operazioni in Iraq. A ciò è legata quindi la recrudescenza delle azioni terroristiche nel territorio iracheno, che ha visto il numero delle esplosioni e degli attentati aumentare in modo quasi esponenziale in pochi mesi. L’Isis in Iraq è riuscita inoltre a riconquistare una presenza territoriale, occupando diversi villaggi ed entrando nella città di Falluja, diventata ancora una volta teatro di un vero e proprio assedio.

L’Iraq sta quindi affrontando una degenerazione della sua politica interna che, accompagnata dalla sanguinosa instabilità nella vicina Siria, ha causato frustrazione e sollevazioni fra la popolazione sunnita locale e il ritorno dei gruppi terroristi legati ad al-Qaeda. La saldatura tra le tribù sunnite e al-Qaeda non è però ancora avvenuta, grazie soprattutto alla natura moderata del sunnismo iracheno. Ma certamente l’atteggiamento del governo centrale non sta aiutando, mentre la situazione in Siria aumenta quotidianamente il potere dell’Isis.

E nella quasi totale disattenzione del mondo, perfino la sanguinosa normalità irachena rischia così di trasformarsi in una guerra civile.

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