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http://www.theatlantic.com
June 18 2014

Anche coloro che sostennero l'invasione meritano di essere sentiti
di Peter Beinart

Coloro che hanno sostenuto la guerra dovrebbe essere parte della discussione di oggi.

Nei giorni scorsi, due dibattiti sono scoppiati sui media americani a proposito dell'Iraq. Il primo riguarda la saggezza di un rinnovato intervento militare per fermare, o fare ritirare, le conquiste fatte dallo Stato islamico in Iraq e Siria (ISIS). La seconda è se i politici e gli esperti che hanno sostenuto l'invasione dell'Iraq, in primo luogo hanno la reputazione di sostenere che bisogna tornare ancora in guerra lì. Non sorprende, che i falchi considerino generalmente il secondo dibattito un diversivo, e cerchino di di impedirlo con commenti del tipo: "Indipendentemente da ciò che qualcuno pensa sia stato andare in Iraq nel 2002 ..." e "Ora non è il momento di rilitigare ... sulla decisione di invadere l'Iraq nel 2003." Non sorprende, che le colombe in generale credano che la conduzione del primo dibattito senza il secondo sia come andare in chirurgia senza indagare perché il medico che sta per tagliare abbia fallito l'operazione la prima volta.

Penso che le colombe abbiano ragione, con un avvertenza. Uno degli aspetti più frustranti della politica estera americana è il fatto che il discorso si svolge a la carte. Una crisi emerge, un gruppo familiare di commentatori appaiono in tv a parlarne, presentando le loro osservazioni con una specie di verginale innocenza pre-lapsaria*, come se nulla di detto e scritto prima fosse di alcuna rilevanza. Questo non è solo un problema perché le loro passate opinioni potevano essere sbagliate. E' anche un problema perché le loro opinioni passate potrebbero essere in conflitto con quelle che stanno offrendo oggi. Nel mondo reale, la capacità militare americana e la leva diplomatica sono limitate, creano compromessi difficili. Prendere una linea ultra-dura contro l’acquisizione di Mosca della Crimea, può far diventare più difficile  conquistare il sostegno della Russia a continare le sanzioni contro Teheran. Bombardare l’Iran può diventare più difficile, sia logisticamente che politicamente, come bombardare l'Iraq, affama il governo con grandi tagli alle entrate fiscali e sarà più difficile fare entrambe le cose. La natura a la carte della politica estera erudita impedisce ai commentatori di affrontare quei compromessi, che consente a persone rapaci come Bill Kristol e John McCain di sollecitare la risposta più aggressiva per ogni successiva crisi senza spiegare come l'America possa andare a DEFCON 1** mentre sta combattendo contro tutti i suoi avversari contemporaneamente.

Le colombe hanno ragione quando offrono le loro opinioni sul tema della politica estera del giorno, gli esperti devono confrontarsi con i punti di vista hanno offerto in passato, soprattutto quando si parla dello stesso paese. Semplicemente sapendo che queste domande sarebbero state poste, ho il sospetto, che gente come Kristol, Paul Wolfowitz, Paul Bremer, e Dick Cheney, i quali hanno pubblicamente criticato le politiche di Obama in Medio Oriente nelle ultime settimane, avrebbero pensato due volte prima di lasciarsi intervistare. Ha certamente avuto questo effetto su di me. All'inizio di questa settimana, mi è stato chiesto di andare in tv a discutere di Iraq. Dopo aver tergiversato, ho deciso che l'unico modo per farlo eticamente sarebbe stato spiegare, come prefazione alla mia prima risposta, che avevo sostenuto l'invasione dell'Iraq nel 2003 ed era egregiamente sbagliata. Ho quindi fatto l'intervista, ma era difficile in quel modo.

Eppure, dicendo che i falchi sull’Iraq contorcevano la loro strada attraverso il secondo dibattito prima di arrivare a discutere il primo, è diverso dal dire, come Paul Waldman ha fatto di recente sul The Washington Post, che "In Iraq, ignoriamo chi pensa che abbiamo sbagliato tutto." In effetti, le due posizioni sono antitetiche. Si possono ignorare le persone che considerano in Iraq fosse tutto sbagliato o si può chiedere loro, ponendo domande sul perché fosse tutto sbagliato. Quest'ultima scelta porta i dibattiti del passato a quelli attuali, e aiuta a chiarire ciò che il nostro intervento disastroso del 2003 può insegnare all'intervento di oggi. Mentre l’offerta precedente non offre una tale opportunità a tutti.

Il che mi porta all’ammonimento. Parte delle motivazioni delle persone che l'ultima volta pensavano che andare in l'Iraq fosse sbagliato, hanno la possibilità di spiegare il motivo per cui questo intervento è diverso è che essi possono avere ragione. Sostenere l'invasione dell'Iraq è stato insolitamente un grande errore, ma prima o poi, quasi tutti coloro che offrono opinioni sulla guerra commettono errori. Ted Kennedy si oppose al rovesciamento di Manuel Noriega. Colin Powell si oppose alla guerra del Golfo, come hanno fatto la maggior parte dei Democratici al Congresso. Jimmy Carter pensava che fosse una cattiva idea esortare altre nazioni a rifiutare l'autorizzazione per le forze delle Nazioni Unite. Michael Moore si oppose all'intervento militare della NATO in Kosovo. The Nation l’ha definita una guerra distratta, vile e distruttiva. Nel periodo precedente l'invasione dell'Iraq nel 2003, infatti, alcuni falchi hanno fatto esattamente quello che Waldman sta facendo ora. Hanno esortato il pubblico a ignorare chi ha sbagliato tutto, quando si opposero alle azioni militari di successo nel 1990.

Se prevedere con precisione l'ultima guerra fosse una guida affidabile per prevedere con precisione la prossima, la politica estera sarebbe molto più semplice. In realtà, la storia americana è piena di persone che hanno consultato il futuro per un momento e fatto follie subito dopo: i critici della prima guerra mondiale che si opposero all'entrata americana nella seconda guerra mondiale; i campioni della Seconda Guerra Mondiale che pertanto hanno sostenuto la guerra americana in Vietnam; i campioni degli interventi nei Balcani che pertanto hanno sostenuto l'invasione americana dell'Iraq.

Il punto è che non ognuno, che abbia azzeccato l'ultima guerra o meno, dovrebbe avvicinarsi al prossimo con umiltà. Ognuno deve rispondere dei suoi errori del passato, ma nessuno dovrebbe essere iscritto fuori dal dibattito a causa di essi. A giudicare dal secolo passato della politica estera americana, è proprio quando le persone sono più fiduciose che la storia ha provato loro che era più probabile che si sbagliassero.

Note

* Un Eden prelapsario di sorprendente pienezza, precedeva la caduta di Adamo ed Eva nel peccato originale

** La condizione DEFCON, defense readiness condition, è uno stato di allerta utilizzato dalle Forze Armate degli Stati Uniti che prevede cinque livelli di allerta.


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June 18 2014

Even Iraq's Sinners Deserve to Be Heard
by Peter Beinart

Those who supported the war should be part of today's debate.

In recent days, two debates have broken out in the American media about Iraq. The first is about the wisdom of renewed military intervention to halt, or roll back, the gains made by the Islamic State in Iraq and Syria (ISIS). The second is about whether policymakers and pundits who supported invading Iraq in the first place have the standing to advocate going to war there again. Not surprisingly, hawks generally consider debate number two a diversion, and have tried to forestall it with comments like, “Regardless of what anyone thinks of going into Iraq in 2002 …” and “Now is not the time to re-litigate … the decision to invade Iraq in 2003.” Not surprisingly, doves generally believe that conducting debate number one without debate number two is like going into surgery without inquiring why the doctor who’s about to cut you open botched the operation the first time.

I think the doves are right, with one caveat. One of the most frustrating aspects of American foreign-policy discourse is the fact that it takes place a la carte. A crisis emerges, a familiar group of commentators appear on TV to discuss it, and they present their comments with a kind of virginal, pre-lapsarian innocence, as if nothing they said before is of any relevance. This isn’t only a problem because their past opinions may have been wrong. It’s also a problem because their past opinions may conflict with the ones they’re offering today. In the real world, America’s military capacity and diplomatic leverage are limited, which creates difficult tradeoffs. Take an ultra-hard line against Moscow’s takeover of Crimea and it may become harder to win Russia’s backing for continued sanctions against Tehran. Bomb Iran and it may become harder, both logistically and politically, to also bomb Iraq (starve the government of revenue with big tax cuts and you may find it harder to do either). The a-la-carte nature of foreign-policy punditry prevents commentators from having to confront those tradeoffs, which allows uber-hawks like Bill Kristol and John McCain to urge the most aggressive response to each successive crisis without explaining how America can go to DEFCON 1 against all its adversaries at the same time.

Doves are right that when offering their views on the foreign-policy topic du jour, pundits should be confronted with the views they offered in the past, especially when discussing the same country. Simply knowing such questions were coming, I suspect, would make folks like Kristol, Paul Wolfowitz, Paul Bremer, and Dick Cheney—all of whom have publicly criticized Obama’s Mideast policies in recent weeks—think twice before accepting interview requests. It’s certainly had that effect on me. Earlier this week, I was asked to go on TV to discuss Iraq. After some noodling, I decided the only way to do so ethically would be to explain, as a preface to my first answer, that I had supported invading Iraq in 2003 and been egregiously wrong. I still did the interview, but it was harder that way.

Still, saying that Iraq hawks should have to squirm their way through debate number two before getting to debate number one is different than saying, as Paul Waldman recently did in The Washington Post, that “On Iraq, let’s ignore those who got it all wrong.” In fact, the two positions are antithetical. You can either ignore the people who got Iraq wrong or you can ask them tough, searching questions about why they got it wrong. Doing the latter brings past debates to bear on present ones, and helps clarify what our disastrous 2003 intervention can teach us about intervention today. Doing the former offers no such opportunity at all.

Which brings me to the caveat. Part of the rationale for giving people who got Iraq wrong last time the chance to explain why this intervention is different is that they may be right. Supporting the Iraq invasion was an unusually big mistake, but sooner or later, almost everyone who offers opinions about war makes mistakes. Ted Kennedy opposed overthrowing Manuel Noriega. Colin Powell opposed the Gulf War, as did most Democrats in Congress. Jimmy Carter thought it such a bad idea that he urged other nations to reject authorization for force at the UN. Michael Moore opposed NATO’s military intervention in Kosovo. The Nation called it a “careless, cowardly and destructive war.” In the run-up to the 2003 Iraq invasion, in fact, some hawks did exactly what Waldman is doing now. They urged the public to “ignore those who got it all wrong” when they opposed successful military actions in the 1990s.

If accurately forecasting the last war were a reliable guide to accurately forecasting the next one, foreign policy would be a lot simpler. In fact, American history is littered with people who looked prescient one moment and foolish the next: critics of World War I who therefore opposed American entry into World War II; champions of World War II who therefore supported America’s war in Vietnam; champions of the Balkan interventions who therefore supported America’s invasion of Iraq.

The point is that everyone—whether they got the last war right or not—should approach the next one with humility. Everyone should answer for his or her past mistakes but no one should be written out of the debate because of them. Judging by the past century of American foreign policy, it’s precisely when people are most confident history has proven them right that they’re most likely to be wrong.

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