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Il risiko delle superpotenze sull’Iraq
Gli Usa spiazzati dall’offensiva islamista ora non sanno bene che fare. L’Iran invece ha le idee molto più chiare. Come la Cina
Correva l’anno 1978, il settimanale Time si chiedeva, in un articolo destinato a passare alla storia, «Who lost Iran?». Chi ha perso l’Iran? Gli Stati Uniti di Jimmy Carter, colti di sorpresa dallo scoppio delle proteste contro lo shah Mohammad Reza Pahlavi, guardavano con smarrimento a quella folla che inneggiava al ritorno in patria dell’ayatollah Khomeini e, indecisi sul da farsi, optavano per l’inazione. Ma non era la prima volta che la superpotenza statunitense veniva colta di sorpresa e si ritrovava, ex post, a interrogarsi su che cosa fosse andato storto, su chi avesse sbagliato. Vent’anni prima, negli anni Cinquanta, era stata la volta della Cina del compagno Mao ZeDong, il “grande timoniere” che nel 1949 aveva unificato la terra di mezzo sotto il segno del comunismo. Le armate nazionaliste di Chiang Kai-Shek, supportate dagli Stati Uniti, erano state sconfitte, e alle migliori menti di Washington non restava che domandarsi “Who lost China?” La recente avanzata dei guerriglieri di Isis in Iraq, con la cattura di alcuni importanti avamposti territoriali, sembra aver suonato la campana della sveglia per l’amministrazione Obama, fino ad oggi impegnata a disimpegnarsi da quel pantano mediorientale che tante energie ha assorbito finora. La decisione di “guidare da dietro” (leading from behind) nelle rivolte in nord-Africa, la decisione di non intervenire in Siria, limitandosi a rifornire di armi i ribelli a intermittenza, in modo da non alterare una situazione la cui evoluzione, in un senso o nell’altro, spaventa più dello status quo, sono state alla base della politica estera di Obama. L’Iraq non è ancora perso, anche se, dopo undici anni di lotte intestine e violenza fratricida, sembra essere condannato allo stesso destino che con ogni probabilità toccherà al vicino siriano, ovvero a non esistere più come stato unitario. Non è un caso che nei giorni scorsi i guerriglieri di Isis abbiano abbattuto con una ruspa un tratto del confine tra i due stati, quel confine tracciato artificialmente da Sykes e Picot, emissari di Gran Bretagna e Francia, che nel 1916 si spartirono i territori della grande Siria, a quel tempo ancora formalmente appartenenti all’Impero Ottomano. Se l’America di Obama, che ha ricevuto in dote il pantano iracheno da Bush, si presenta sempre più come egemone riluttante, sono altri i paesi interessati a prevenire lo smembramento iracheno. Dovrebbe essere l’Iraq, in primis, a impegnarsi a salvare sé stesso; eppure, l’amministrazione guidata da Nouri al Maliki non ha dato prova di grande lungimiranza in questo senso. Sposando la causa sciita e legandosi a doppio filo al patrono iraniano, al Maliki si è procurato l’ostilità tanto della popolazione sunnita quanto degli Stati Uniti. Proprio la firma di un accordo bilaterale con Washington che avrebbe dovuto permettere il mantenimento di una certa quantità di personale a supporto delle forze armate irachene, anche dopo il ritiro della missione internazionale, è sfumata per l’impossibilità leggasi la non volontà da parte irachena di garantire condizioni di sicurezza adeguate. A queste condizioni, appare assai probabile che il principale tutore della sicurezza irachena continui a essere l’Iran, il paese che più avrebbe da perdere da un’eventuale frammentazione irachena. Teheran, infatti, non ha sacrificato uomini e risorse economiche in Siria per poi veder spezzare l’asse sciita ad altezza dell’Iraq. Si è ipotizzato nei giorni scorsi un coinvolgimento sul terreno dei pasdaran iraniani, che del resto sembrano essere già presenti, con un’eventuale copertura aerea statunitense. Attenzione però: nonostante il sensazionalismo circa il carattere inedito e la portata storica di quest’alleanza, è bene precisare che, in primo luogo, la cooperazione tra i due non è affatto inedita, e in secondo luogo siamo ben lungi dall’essere vicini a un riavvicinamento storico. Come tutte le alleanze, se alleanza sarà, essa sarà dettata dalla momentanea convergenza di interessi, esattamente come accaduto nel 2001, quando Teheran collaborò con gli Usa allo scopo di abbattere il regime talebano a Kabul. Infine, per quanto gli Stati Uniti rimangano un attore di primo piano, è bene cominciare a abituarsi a guardare a Oriente, e in questo caso al paese che, secondo molti osservatori, è stato il vero vincitore della guerra in Iraq: la Cina. Mentre gli Usa viaggiano a vele spiegate verso l’indipendenza energetica, il più lontano possibile da quell’area di mondo che tanto faticano a capire, il gigante cinese mantiene intatta la propria sete di energia. Pechino, che dopo il rovesciamento del regime di Saddam è diventata il principale acquirente di petrolio iracheno, ha tutto l’interesse a che l’Iraq rimanga stabile. Il pericolo di un’interruzione delle forniture al momento sembra lontano, dato che i maggiori giacimenti si trovano nel sud-est del paese, vicino al confine con l’Iran, in un’area nella quale Isis difficilmente potrebbe avere la meglio sulla Guardia rivoluzionaria iraniana. Tuttavia, la variabile cinese non è affatto da sottovalutare: il ministro degli esteri Wang Yi, in un comunicato, ha espresso il massimo sostegno nei confronti del governo iracheno, aggiungendo che la Cina è pronta a dare all’Iraq tutto l’aiuto di cui ha bisogno, senza tuttavia chiarire se si tratti del solo aiuto umanitario o se nel pacchetto sarebbe compreso anche l’aiuto militare. È un quadro estremamente complesso, dunque, quello che emerge dall’analisi dello scenario iracheno. Una cosa è certa: se la crisi in Iraq è figlia e sorella della crisi siriana, ad essere in movimento è l’intero Medio Oriente, con i suoi già di per sé precari equilibri. Ma non solo: quando il quadro si sarà assestato, sarà l’intero sistema delle relazioni internazionali a essere cambiato. Se negli anni ’50 prima e negli anni ’70 poi Washington faceva i conti con la perdita di due stati come Cina e Iran, oggi deve fare i conti con la perdita del proprio stesso ruolo globale. Il conflitto, solo apparentemente settario, tra l’asse sciita a guida iraniana e l’estremismo sunnita sponsorizzato dal Golfo, chiama in causa nuovi importanti attori, che, a differenza di Washington, vengono per restare.
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