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29/10/2014

Solo i cristiani possono mostrare ai musulmani la “folle utopia” dello Stato islamico
di Fady Noun 


Superstizioni rituali, deportazioni, violenze, giustizia sommaria e indottrinamento sono i cardini su cui poggia il potere dei terroristi. Essi vogliono creare una “città perfetta” di natura teocratica e regressiva. Ma le utopie generano mostri - comunismo, nazismo - e terrore. Ai cristiani il compito di indicare ai musulmani il “vero volto” della loro religione e gli “elementi di violenza”.

Beirut (AsiaNews) - Qual è la natura del potere che si sviluppa all'interno del territorio controllato dal gruppo "Stato islamico"? Da quanto ne sappiamo: rituali superstizioni (Abu Bakr al-Baghdadi sale sempre con il piede destro tutti gli scalini del minbar, il pulpito di una moschea), deportazione o liquidazione degli apostati e delle minoranze religiose non musulmane, indottrinamento dei bambini, giustizia sommaria (crocifissioni, lapidazioni, decapitazioni), spoliazioni di beni, pulizia etnica e culturale, etc... Siamo in presenza di un potere teocratico in cui il temporale è sottomesso allo spirituale o a chi ne fa le veci. Siamo in presenza di una vera utopia. 

In linea di massima, utopia è aspirazione a una "città perfetta" collocata nel futuro. Ma nel caso attuale, l'utopia e di natura regressiva. La società ideale alla quale aspira è situata nel passato, che si cerca di ripristinare in tutta la sua presunta purezza. Si tratta di un ritorno a una "età dell'oro", in cui la legge di Dio governa - o almeno così si pensa - tutti gli aspetti della vita personale, sociale e politica. 

Sappiamo, per averlo appreso una volta per tutte da decine di esempi ricavati dalla storia, in particolare da modelli mostruosi apparsi nel XX secolo - comunismo e nazismo -, che l'utopia genera il terrore, e che questo sistema di potere, questo embrione, questa velleità di civilizzazione risiedono su un errore antropologico fatale: la cieca fiducia nella perfettibilità dell'uomo, cittadino di una "città ideale" in cui sarà possibile controllare tutte le pulsioni o, a dirla tutta, l'entropia e la tendenza al disordine. Un qualcosa che non si può ottenere, dal didentro, che con la grazia e, dall'esterno, con il terrore. 

Ed è del tutto evidente che noi ci troviamo, oggi, in un terrificante contesto di utopia politica. Nulla di nuovo. Giovanni Paolo II ha spesso parlato di un messianismo temporale. Ma per incentivare i lettori a esplorare tutti i suoi scritti, questa volta andremo a pescare una perla nel mare magnum dei suoi "Diari" intimi, che il suo segretario non ha avuto il coraggio di distruggere, come il suo autore aveva peraltro chiesto di fare nel testamento. "Il messianismo temporale, il regno di Dio su questa terra, ha rappresentato da sempre un problema", scrive il grande papa. Certo, il Vaticano prende posizioni chiare e nette per quanto concerne le necessità evangeliche nel mondo - ma è un qualcosa di profondamente diverso dal messianismo politico" (pag. 422). 

La Chiesa non rinuncia affatto a fare del mondo un luogo in cui è bello vivere, in ogni caso un posto migliore dello stato brado, ma essa ha archiviato l'utopia di una "città perfetta" e del "regno dei mille anni" in cui si parla nell'Apocalisse, di cui alcuni si sono serviti per giustificare il messianismo temporale. Un messianismo che, in alcune epoche, ha snaturato il messaggio evangelico. 

"L'uomo non è né angelo né bestia" afferma Pascal, "e disgrazia vuole che chi vuol fare l'angelo fa la bestia". È questo l'errore antropologico per eccellenza, quello in cui sono caduti tanti sistemi politici che hanno voluto "ripartire da zero", quello che è valso nei tempi moderni i campi di concentramento in Europa, i gulag in Unione sovietica i campi della morte in Cambogia. Chi vuole fare l'angelo e dimenticare la parte di bestia che è insita in ogni uomo, cade egli stesso nella bestialità. La legge del più forte, la sete del potere, quello che in termini cristiani chiamiamo "cattedra" - e non "corpo" - in opposizione a ciò che è spirituale e alla grazia, si infiltrano in modo insidioso all'interno dei migliori sistemi al mondo, e persino nei meandri della democrazia stessa. 

Alcuni pensano che lo Stato islamico non sia che una creazione occulta che obbedisce a una volontà di rovesciamento geopolitico in Oriente e il cui motivo di fondo sarebbe economico. Tuttavia, senza escludere questa motivazione, se ammettiamo che i fondatori di questo Stato sono davvero mossi da uno zelo religioso, va da sé che essi cedono sfortunatamente all'illusione di una "età dell'oro" inesistente e giustificano ogni forma di violenza in suo nome. 

"Noi, la civiltà, sappiamo già di essere mortali" constatava con un tono di cupezza Valéry. La civiltà stessa, e taluni direbbero soprattutto quelle che si fondano su una religione, non sono che artifizi umani, fragili impalcature, effimere, che devono tenere conto di continuo di un uomo che si divide fra natura e grazia, avendo come arbitro la libertà. E, la Chiesa ne sa qualcosa, è con infinite precauzioni che si deve operare per la nascita di un mondo più giusto, sapendo della nostra fallibilità. "Noi non abbiamo per missione quella di far trionfare la verità, ma di testimoniarla" diceva Henri de Lubac. Questo per quanto concerne l'utopia. 

Violenza e islam

La violenza dello Stato islamico pone inoltre un secondo problema. Qui sopra dicevamo di essere in presenza di un potere teocratico, in cui l'aspetto temporale è sottomesso a quello spirituale. L'islam dello SI è dunque "il vero volto" della religione musulmana? Questo è quanto negano con foga molte autorità musulmane in Libano, così come in Egitto o in Arabi Saudita. Il muftì d'Egitto Abdel Aziz Allam vorrebbe che la stessa parola "Stato islamico" fosse sostituita da "organizzazione terrorista Isis". Il muftì dell'Arabia Saudita Abdel Aziz el-Cheikh si è espresso in termini analoghi: "L'estremismo e la violenza non hanno nulla a che vedere con l'islam: sono il suo primo nemico, e i musulmani sono le sue prime vittime". 

"Certo, è fonte di conforto vedere che molti musulmani non si riconoscono nelle idee e nelle azioni dello Stato islamico" ha scritto il 22 settembre scorso Michele Brignone, segretario scientifico della Fondazione Internazionale Oasis e caporedattore dell'omonima rivista. Ma affermare in modo generico che è estraneo al "vero" islam rischia di essere oggettivamente poco esaustivo, come spiega l'intellettuale egiziano Charif Younis, uno degli interpreti più profondi e competenti del pensiero arabo e dell'islam moderno (ancora poco conosciuto in Occidente), in un paio di articoli pubblicati il 18 agosto e il 1 settembre scorsi sul prestigioso quotidiano egiziano al-Ahram. Nel primo, intitolato "L'ideologia dello Stato islamico e la rinascita islamista" Younis, senza reticenze e con una franchezza rara nel dibattito pubblico dei Paesi arabo-islamici, scrive: "Accusare organizzazioni violenze come questa dello SI di ignorare semplicemente l'islam è una sorta di semplificazione grave, se non addirittura di mera connivenza. In realtà la violenza è parte essa stessa di una cosiddetta rinascita islamista e si fonda sulla ripresa di elementi tradizionali già esistenti [...]". "È certo un bene che i pensatori islamici condannino l'esperienza traumatizzante dello Stato islamico" conclude l'autore dell'articolo. "Ma è altrettanto importante, soprattutto, che l'islam stesso sia rivisto. Senza un giudizio adeguato, i progetti islamisti potranno essere frenati per un certo periodo, ma mai davvero sopiti". 

Difatti, spiegano gli esperti, non vi è un solo islam ma diversi tipi di islam, o ancora delle tradizioni e delle scuole islamiche, indipendentemente dall'adesione letterale al Corano, come si è avuto e si continuano ad avere tradizioni cristiane diverse, pur se ispirate tutte ad uno stesso corpo di testi. Così, come la stessa Chiesa cattolica ha fatto un'ammirevole ammenda per il processo fatto a Galileo, o chiesto perdono per la tratta dei Neri, siamo noi che dobbiamo dire ai musulmani dove guardare per vedere "il vero volto" della loro religione e se gli "elementi di violenza" del Corano sono intrinsechi o meno alla loro fede, e come lo sono. 

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