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http://www.thedailybeast.co
09.06.14

L'America ha una strategia senza preavviso, e coinvolge l'Iran
di Jacob Siegel

Obama può dire "non abbiamo ancora una strategia" per battere ISIS. Ma le operazioni americane che crescono sul terreno dipingono un quadro diverso, quello con riflessi iraniani.

Il presidente non ha ancora annunciato la sua strategia per trattare con ISIS, ma c'è un approccio militare chiaro che sta prendendo forma in Iraq. A livello operativo, l'intervento militare ha mostrato alcuni primi successi nell'uso della forza aerea per sostenere le forze di terra locale e fermare i progressi di ISIS. Ma la tensione tra tattiche e strategie, metodi e obiettivi, sta già iniziando ad emergere. La battaglia che abbiamo vinto ieri potrebbe rendere più difficile domani vincere la guerra.

E mentre la strategia americana per ISIS è in fase di stallo, la guerra aerea in Iraq si sta espandendo costantemente.

Ai primi di agosto, quando sono stati autorizzati attacchi aerei, l'amministrazione articolava un insieme limitato di obiettivi sottolinenado che non sarebbe stata elaborata una ulteriore guerra civile in Iraq. Nella sua prima fase, che è durata circa una settimana, la missione aerea si è focalizzata su aiuti umanitari e difesa del personale americano da un’avanzata di ISIS. Gli attacchi aerei sembravano funzionare e mentre ISIS veniva spinto indietro lo erano anche i limiti della missione. Un mese fa ci fu un approccio reattivo stretto su ISIS, ora vi è una evoluzione offensiva.

Da metà agosto, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di forza aerea irachena de facto. Aerei americani bombardano obiettivi ISIS e sostengono le offensive delle forze curde, i gruppi militari e miliziani iracheni che ieri erano jihadisti anti-americani, oggi sono alleati anti-ISIS.

Come The Daily Beast Josh Rogin ha riportato, l'amministrazione ha dato al Congresso quattro distinti motivi per fare la guerra in Iraq: proteggere il personale americano in Erbil; salvare le minoranze yazidi intrappolate sul monte Sinjar; proteggere la diga di Mosul; e rompere l'assedio di ISIS sulla città sciita di Amerli.

E per ogni obiettivo, ci sono una serie leggermente diversa di alleati americani da sostenere con la potenza aerea. "Le coalizioni di terra cui siamo di supporto con missioni aeree, sono uniche e distinte in ogni caso", ha detto Doug Ollivant, un ex consigliere generale di David Petraeus che ha servito nel Consiglio di Sicurezza Nazionale sotto i presidenti George W. Bush e Barack Obama. "In Sinjar, è in gran parte il PKK che ha salvato gli Yazidi", ha detto Ollivant. "A Mosul, erano le Golden Brigades, unità di elite dell'esercito iracheno, con i Peshmerga in supporto, e in Amerli sembra fossero le milizie sciite con l'esercito iracheno a sostegno.

Normalmente, non tutti questi alleati sarebbero considerati amici dell'America. Il PKK, che secondo alcuni ha guidato la lotta contro ISIS nel nord dell'Iraq, è ancora elencato come un'organizzazione terroristica straniera.

La guerra produce strani compagni di letto e gli Stati Uniti sono stati certamente promiscui prima di scegliere i propri alleati nelle guerre passate. La questione è se i partenariati a breve termine mineranno gli interessi a lungo termine. Lavorare con il PKK presenta complicazioni, soprattutto per quanto riguarda il nostro alleato della NATO in Turchia, ma non una chiara minaccia per il popolo americano o per i nostri obiettivi in Iraq.

Con altri alleati emergenti il calcolo è più complicato e lascia meno margine di errore. In Amerli, l'operazione statunitense è stata guidata da Asaib Ahl al-Haq, un gruppo di appoggio iraniano noto per la violenza settaria contro i sunniti e gli attacchi contro le truppe americane durante l'ultima guerra in Iraq. Gli attacchi aerei americani hanno aiutato Asaib Ahl al-Haq a prendere il controllo di Amerli, un portavoce del gruppo ha detto a un giornalista del New York Times, "non ci fidiamo degli americani per niente … non abbiamo bisogno di loro."

Le parole del leader delle milizie avrebbero potuto essere considerate irrilevanti, ma la foto trapelata online subito dopo la battaglia aveva le caratteristiche di un messaggio intenzionale.

La foto mostra il generale iraniano Qasem Soleimani, comandante della forza Qods, capo stratega militare di Teheran, l'uomo che molti funzionari americani ritengono essere il nemico più pericoloso sul pianeta. La sua visita al sito sottolinea la convergenza di Stati Uniti con gli interessi iraniani in Iraq, e il desiderio dell'Iran di essere visto orchestrare gli sforzi.

Amerli era chiaramente una sconfitta per ISIS e un sollievo per i cittadini che avevano tenuto fuori il gruppo per sei settimane. Ma è meno chiaro che cosa l'alleanza tra US Air Force e le milizie iraniane dicono a proposito della visione che guida la missione in Iraq. Anche lasciando da parte le questioni di una grande strategia regionale per il Medio Oriente e, come il nostro track record suggerisce, ci ha portato a guerre in Iraq di cui possano beneficiare gli iraniani non è chiaro come il precedente stabilito ad Amerli servirà gli obiettivi più immediati del Presidente per la risoluzione della guerra in Iraq.

Il presidente è stato criticato per la mancanza di una strategia più ampia per affrontare ISIS, ma lui è stato coerente in Iraq, sottolineando che la forza militare può essere efficace solo come preludio ad una soluzione politica. Per spingere ISIS fuori dall'Iraq, il pensiero va a Baghdad che ha bisogno di reintegrare i sunniti emarginati che hanno sostenuto ISIS, ma non sono ideologicamente allineati con il gruppo. Ma il difficile compito di sloggiare ISIS dalla sua base di appoggio sunnita diventerà solo più difficile, quando i gruppi sciiti settari aumenteranno la loro influenza su Baghdad, mentre sembrano ricevere sostegno degli Stati Uniti.

"Se l’obiettivo è quello di provocare un certo livello di riconciliazione, Amerli non aiuta neanche un pò", ha detto Phillip Smyth, un ricercatore presso l'Università del Maryland sui gruppi militanti sciiti. "Il fatto è che questo è promosso da Teheran come iniziativa iraniana. E loro vanno dicendo dirigono lo spettacolo."


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09.06.14

America Has an Unannounced ISIS Strategy, And It Involves Iran
By Jacob Siegel

Obama may say “we don’t have a strategy yet” for beating ISIS. Growing American operations on the ground paint a different picture—one with Iranian hues.

The President hasn’t announced his strategy for dealing with ISIS yet, but there is a clear military approach taking shape in Iraq. On an operational level, the military intervention has shown some early success in using U.S. airpower to support local ground forces and halt ISIS’s advances. But the tension between tactics and strategy, methods and goals, is already starting to show. The battle we won yesterday could make it harder to win a war tomorrow.

And while the American strategy for ISIS is stalled, the air war in Iraq has been expanding steadily.

In early August, when airstrikes were first authorized, the administration articulated a limited set of goals and stressed that it wouldn’t be drawn further into Iraq’s civil war. In its first phase, the air mission focused on humanitarian relief and defending American personnel from an ISIS advance. That lasted about a week. The air strikes seemed to be working and as ISIS was pushed back so were the limits of the mission. A month ago there was a narrow reactive approach to ISIS, now there is an evolving, offensive mission.

Since mid-August, the U.S. has been acting as Iraq’s de facto air force. American aircraft are bombing ISIS targets and supporting offensives by Kurdish forces, the Iraqi military and militia groups that were yesterday’s anti-American jihadists and are today’s anti-ISIS allies.

As The Daily Beast’s Josh Rogin reported, the administration has given Congress four distinct reasons for waging war in Iraq: to protect American personnel in Erbil; to save the Yazidi minorities trapped on Mount Sinjar; to protect the Mosul Dam; and to break ISIS’s siege on the Shiite town of Amerli.

And for each objective, there’s a slightly different set of American allies being supported by U.S. air power.

“The ground coalitions we’re supporting with air power are uniquely different in each case,” said Doug Ollivant, a former advisor to Gen. David Petraeus who served in the National Security Council under Presidents George W. Bush and Barack Obama. “In Sinjar, it’s largely the PKK [a Kurdish militia] who rescued the Yazidis,” Ollivant said. “In Mosul, it was the Golden Brigades [An elite unit of the Iraqi army] with the Peshmerga in support, and in Amerli it looks like Shia militias with the Iraqi military in support.

Not all of these allies would ordinarily be considered friends of America. The PKK, which by some accounts has been leading the fight against ISIS in northern Iraq, is still listed as a foreign terrorist organization.

War makes strange bedfellows and the U.S. has certainly been promiscuous before choosing its allies in past wars. The question is whether short-term partnerships will undermine longer-term interests. Working with the PKK presents complications, especially in regard to our NATO ally Turkey, but no clear threat to the American people or our goals in Iraq.   

With other emerging allies the calculus is trickier and leaves less margin for error. In Amerli, the U.S. backed operation was spearheaded by Asaib Ahl al-Haq, an Iranian backed group known for sectarian violence against Sunnis and attacks on American troops during the last war in Iraq. After American airstrikes helped Asaib Ahl al-Haq take control of Amerli, a spokesman for the group told a New York Times reporter, “we don’t trust Americans at all” and added “we don’t need them.”

The militia leader’s words could have been taken for loose talk but the photo that leaked online shortly after the battle had the hallmarks of a deliberate message.

The photo reportedly shows the Iranian general Qasem Soleimani, commander of the Qods force, Tehran’s chief military strategist, and the man many American officials consider to be America’s most dangerous foe on the planet. His visit to the site underscores the convergence of U.S. and Iranian interests in Iraq, and Iran’s desire to be seen as orchestrating the efforts.

Amerli was clearly a defeat for ISIS and a relief for the townspeople who had held off the group for six weeks. But it’s less clear what the alliance between U.S. airpower and Iranian-backed militias says about the vision guiding the mission in Iraq. Even leaving aside questions of a grand regional strategy for the Middle East—and how our track record suggests that U.S. led wars in Iraq can benefit Iran—its not clear how the precedent set in Amerli will serve the President’s more immediate goals for resolving the war in Iraq.

The president has been criticized for lacking a larger strategy to deal with ISIS but he’s been consistent on Iraq, stressing that military force can only be effective as the prelude to a political solution. To push ISIS out of Iraq, the thinking goes, Baghdad needs to reintegrate marginalized Sunnis who have supported but are not ideologically aligned with the group. But the difficult task of dislodging ISIS from its Sunni support base will only become harder as Shia sectarian groups increases their influence in Baghdad and appear to receive U.S. backing.

“If you’re goal is to cause some level of reconciliation, [Amerli] doesn’t assist it one bit,” said Phillip Smyth, a researcher at the University of Maryland on Shia militant groups. “The fact is this is being promoted by Tehran as an Iranian initiative. It’s them saying we run the show.”

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