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19 agosto 2014

Filoni: «Prendiamo i profughi sulle nostre spalle»
di Luca Geronico

La voce, più di una volta, si incrina e gli occhi si arrossano anche a un consumato diplomatico come il cardinale Fernando Filoni. Appena terminata la Messa di commiato da Ankawa, l’inviato personale di papa Francesco e prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli è quasi travolto dal calore della folla. Un affetto che rende ancora più intenso il ricordo di quanto visto e ascoltato in questi giorni nel nord del Kurdistan.



Cardinale Filoni, lei ha sottolineato la necessità di «fare presto» per fermare l’emergenza umanitaria. Quale situazione ha potuto vedere visitando i luoghi più colpiti?

«Fare presto» non è un solo un appello che io faccio. Ho raccolto la voce di tutta la gente che mi dice: «Fate presto, non aspettate quando le cose saranno in una situazione irrecuperabile». Mentre per questa gente è sempre più difficile vivere in questa precarietà. Il «far presto» esprime, quindi, il desiderio di riprendere la propria vita, il proprio lavoro: noi abbiamo il dovere di ascoltarli, di fare qualcosa per loro.

In questi ultimi giorni è venuta alla ribalta anche la questione degli yazidi. Quali gli esiti del suo incontro con questa minoranza sinora dimenticata?

Non era dimenticata, qui era viva e presente: varie volte ho avuto modo di incontrarli anche se forse solo oggi alcuni media occidentali la scoprono. Siamo davanti a un dramma che è genocidio, perché quando si arriva a prendere tutti gli uomini e ucciderli, quando si arriva a rubare le donne, portarle via, violarle nella loro dignità più profonda di essere umano, e poi venderle, allora si vuole distruggere questo popolo sapendo che in questo modo per loro non ci sarà più un futuro. Che nome diamo a questa realtà tragica? Ho incontrato tante di queste persone, e io le guardavo negli occhi e non avevo parole. È uno strazio. Da lontano si hanno delle percezioni grazie al lavoro di alcuni media. Ma altra cosa è visitare decine di insediamenti con queste persone completamente abbandonate che ci dicono: «Per favore non abbandonateci, per favore parlate di noi». Ecco, io credo di raccogliere tutte queste voci».

Tutti i profughi, basta parlare con uno qualsiasi di loro, chiedono una protezione internazionale. La stessa cosa che ha chiesto a gran voce il patriarca Sako. Ritiene che sia una soluzione possibile?

Queste cose devono essere valutate soprattutto a livello civile e internazionale. Anche il Papa, scrivendo al segretario generale delle Nazioni Unite, ha invocato il diritto di difendere questi poveri. Come li possiamo difendere? Qui deve intervenire la comunità internazionale per farsi carico, non solo morale, della situazione. È bello dire difendiamo queste persone, però stanno morendo. Come si fa a toglierli dalle grinfie di questi predoni? Ecco, la risposta è già lì.

Un primo passo è stata la risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu che all’unanimità ha approvato sanzioni contro l’Isis. La diplomazia vaticana, immagino, resterà impegnata a tutto campo. Lei ha appena evocato le responsabilità della società civile. Quale potrebbero essere i prossimi passi?

Credo che ognuno debba portare il proprio contributo: non è questione della sola diplomazia, che può avere certamente il suo peso. Vedo anche la consapevolezza di questa nostra gente qui ad Ankawa. L’abbiamo vista a Zakho e in tutti i più piccoli villaggi. Ho visto come la gente si è prodigata aprendo le case, dando ospitalità perché è stata una situazione inaspettata, che nessuno avrebbe potuto prevedere. Nessuno aveva inizialmente le capacità per venire incontro a queste persone e il primo soccorso è venuto dalla popolazione locale che merita un riconoscimento enorme. Poi sono venuti, pian piano, i primi aiuti internazionali. Ma bisogna trovare una soluzione stabile. È responsabilità di tutti coloro che possono contribuire a livello internazionale come l’Onu, l’Ue e tutti gli altri organismi che si occupano dei rifugiati. C’è poi un altro livello: a chi tocca il primo dovere civile e morale di difendere i cittadini di questo Paese? Alle autorità civili, ovviamente, che devono essere aiutate e sono loro che devono poi gestire tutto il resto. Aiutiamo queste autorità civili a riprendere in mano la situazione, perché da soli non hanno in questo momento gli strumenti per farlo. Si deve agire a diversi livelli e con diverse capacità: da un tale complesso unitario di interventi questa gente potrà riavere, oltre ai propri averi e alle proprie case, soprattutto la speranza di poter vivere qua.

Al di là delle concrete azioni politiche e umanitarie, come pastore che cosa si sente di suggerire per ricostruire un futuro dopo una tragedia di queste proporzioni?

Credo che portando qui la sollecitudine, la presenza del Papa siamo già partiti. Come pastore sento che queste sono le pecore dimenticate che, come dice papa Francesco, dobbiamo prenderci sulle nostre spalle. E prendiamo proprio così il loro odore, le loro necessità, i loro problemi. La mia visita è stata di grande beneficio: lo dicono le persone che a migliaia si avvicinano, me lo hanno detto le autorità, me lo hanno detto i profughi: «Grazie che siete venuti a vedere come stiamo. Parlate di noi». Come comunità ecclesiale siamo già presenti: la Chiesa locale, i vescovi, il patriarcato, tutti hanno dato una straordinaria mano... Ma ora si tratta di dare speranza: da soli non possiamo farlo, ma ci impegniamo ad essere sempre presenti. Camminare in mezzo a loro ci dà la forza e a loro dà la forza di voler continuare a vivere qui, come dice il patriarca caldeo. C’è chi vuole andare, non lo possiamo certo impedire, ma ci sono tanti che hanno detto: «Qui è la nostra terra, qui sono le nostre radici». L’Iraq, e in particolare la zona del nord del Kurditan, terre antichissime di civiltà e culture, sono un crogiuolo di popoli. Come diceva il presidente Barzani, questo è un mosaico di pietre grandi e di pietre piccolissime, Ma togliendo anche solo una tessera del mosaico non siamo più gli stessi: questo non è l’Iraq. Dobbiamo fare sì che queste pietre non cadano, ma siano parte di questa convivenza. Bisogna trovare gli strumenti per favorire una convivenza pacifica.

Eminenza, dopo la grande preghiera della solennità dell’Assunta, qual è l’appello da Ankawa?


Non spegnete d’ora in poi l’attenzione. Portiamo nel cuore questa gente. E io porto già nel cuore i loro sguardi.

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