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Agosto 16, 2014

Il nostro inviato tra i “poveri diavoli” yazidi, aiutati da alcuni musulmani e dai cristiani
di Rodolfo Casadei

Più che adoratori del diavolo, poveri diavoli. Peggio dei profughi cristiani, in Iraq stanno soltanto gli yazidi, anche loro costretti a fuggire alla disperata dai loro villaggi e città ai primi di agosto di fronte all’avanzata dei combattenti di Daesh. Ma mentre le perdite di vite umane fra i cristiani – almeno a quel che si sa finora- si contano sulle dita di una mano, gli yazidi passati per le armi dai jihadisti e quelli morti di stenti fra le rocce del monte Sinjar  risultano centinaia oppure migliaia a seconda delle fonti. Tutte le storie più atroci e gli atti più turpi attribuiti ai guerrieri del Califfato riguardano crudeltà commesse contro i fedeli di Taus Malek, il dio pavone, identificato anche con Saytan, l’angelo ribelle della narrazione biblica e di altre tradizioni religiose. Lo stesso discorso vale per il numero delle donne rapite e persino per le condizioni in cui vivono i profughi nei centri di raccolta e soprattutto nei siti informali in giro per il Kurdistan: gli yazidi sono più numerosi di tutti gli altri gruppi di profughi ma sono quelli che ricevono di meno in termini di aiuti e soffrono la maggiore precarietà.

Un esempio preclaro di questa realtà sono gli insediamenti di fuggitivi yazidi nella città curda di Zakho, 200 mila abitanti nell’estremo nord dell’Iraq a ridosso della frontiera curda. Spostandosi in auto o a piedi per distanze anche superiori ai 50 km, migliaia di abitanti dei villaggi yazidi di tutta la regione a sud di Zakho si sono riversati nei parchi e nelle scuole della cittadina, a volte sfondando cancelli e porte per entrare a cercare riparo, come nel caso della scuola elementare del quartiere di Gedeh. Il 14 agosto, una settimana dopo la loro precipitosa fuga, 800 persone appartenenti a 154 famiglie, provenienti perlopiù dalla cittadina di Atabeh da cui dicono essere fuggite in tutto quasi duemila famiglie, si trovavano alloggiate nelle 16 aule e aulette, nei corridoi e nei due cortili della scuola elementare del quartiere senza nessuna assistenza da parte delle autorità pubbliche o degli enti internazionali. Né i governi regionale curdo o quello centrale, né l’Unicef o l’Ocha (Coordinamento aiuti umanitari) o le Ong dei vari paesi ancora si erano presi minimamente carico dei bisogni di questo piccolo popolo di una bellezza antica e struggente: pelle e capelli rossicci su tratti somatici iranici, gli yazidi sono dei curdi per la lingua ma separati da tutti gli altri.

Come sopravvivono le anime morte della scuoletta? Grazie alla carità del quartiere, cioè delle famiglie, tutte musulmane, dei bambini che non potranno ritornare a scuola a settembre se la situazione non si sbloccherà. Il direttore della scuola e un giovane delegato del quartiere si fanno in quattro dalla mattina alla sera per cercare fra i privati cibo e medicine (l’acqua la danno rubinetti e pompe della scuola, ma non basta e i giovani la lasciano alle donne e vanno al fiume per lavarsi) di cui la comunità di sinistrati ha quotidianamente bisogno. Musulmani che pagano di tasca loro per aiutare gli yazidi a sopravvivere: una novità assoluta. Da secoli le due fedi sono nemiche giurate. Ma sulla difensiva sono sempre loro, gli adoratori di Taus Malek: si dice che abbiano subito da parte dei musulmani 72 tentativi di genocidio nel corso della storia. D’accordo, gli abitanti di Zakho sono quasi tutti curdi, con piccole percentuali di cristiani assiri, mentre i persecutori musulmani degli yazidi sono stati quasi sempre arabi e turchi sunniti. Ma è vero che a livello politico i rapporti fra yazidi e forze curde non è mai stato buono e che storicamente alcune persecuzioni sono state curde.

L’unico gruppo dal quale gli yazidi non hanno mai temuto cattive sorprese sono i cristiani: mentre i musulmani arabi sunniti si guardano bene dal dare lavoro agli yazidi, nelle cittadine cristiane della Piana di Ninive prima del drammatico esodo non era raro vedere all’opera muratori, braccianti agricoli e vigili urbani di estrazione yazida. Talvolta i villaggi yazidi sono stati costruiti alle spalle dei villaggi cristiani, visti come una sorta di tampone protettivo che avrebbe tenuto a rispettosa distanza i musulmani assetati del sangue degli adoratori di Satana. I monaci caldei del monastero di Nostra Signora delle Messi di Alqosh, erede dello storico monastero di Sant’Ormisda che sorge appeso alla montagna sovrastante la cittadina, sono in ottimi rapporti ecumenici con gli sceicchi del villaggio yazida di Bozan, pochi km oltre. E nel suo testamento steso prima del rapimento e della morte, mons. Paulos Faraj Rahho arcivescovo di Mosul raccomandava la massima apertura dei cristiani verso musulmani e yazidi, per il bene della diocesi e di tutto l’Iraq.

Dopo che sono balzati all’onore della cronaca per la loro apocalittica disgrazia e per il fatto che il presidente Obama ha presentato la minaccia di genocidio nei loro riguardi come giustificazione per gli attacchi aerei americani contro lo Stato islamico, gli yazidi, per secoli accusati di satanismo, sono improvvisamente divenuti popolari; sia i commentatori che i lettori che vogliono dimostrarsi acculturati sottolineano la forzatura interpretativa con cui i musulmani e altri hanno voluto demonizzare (mai il verbo capitò più a proposito) questa religione di origine zoroastriana: è vero che in essa si adora l’”angelo caduto” Taus Malek, il più importante dei sette angeli a cui Dio avrebbe concesso il governo del mondo terreno dopo il peccato di Adamo, ma tale angelo ribelle, a differenza di Lucifero, si sarebbe pentito della sua ribellione dopo un lunghissimo esilio punitivo (secondo alcuni durato seimila anni), ed è per questo che Dio gli avrebbe affidato il compito più importante. Fa già tendenza ricordare i bizzarri tabù degli yazidi, come la proibizione di vestire di azzurro e di mangiare insalata (due interdetti oggi sempre meno rispettati), o la sempre rievocata metempsicosi, che però riguarda più che altro le anime dei sette angeli che assumono le forme di personaggi storici e profeti. Sugli aspetti più politicamente scorretti della fede è calata la consegna del silenzio, oppure semplicemente non sono conosciuti. Fatto sta che gli yazidi, a parte la natura misterica del loro culto che implica la non accettazione di conversioni e adesioni dall’esterno, praticano il sistema delle caste e pongono limiti molto rigidi alle possibilità del matrimonio (che può essere poligamico). Le caste sono sette, come gli angeli o esseri sacri che reggono il mondo, e la più alta, cioè quella degli emiri e degli sceicchi, gode di diritti e di poteri superiori alle altre. In passato nessuno yazida, tranne quelli della casta più alta, poteva imparare a leggere e scrivere. Poi il divieto fu limitato alle donne. Infine è andato scomparendo. Ciò che vige invece rigidissima è l’endogamia all’interno di ogni casta: nessuno può sposare una persona che appartenga a una casta diversa dalla sua. A maggior ragione non è possibile alcun connubio con chi appartiene ad altre religioni. Nel 2007 una ragazza yazida che aveva una storia con un giovane musulmano fu lapidata, e parte della scena dell’uccisione venne ripresa e diffusa attraverso un telefono cellulare. Poco tempo dopo quella che allora si chiamava Al Qaeda in Mesopotamia (l’Isil di oggi) vendicò l’onore dei musulmani lanciando alcuni camion bomba contro il mercato della cittadina di Qahtaniya che causarono 500 morti quasi tutti yazidi.

Alla rigidità dottrinale gli yazidi accompagnano la fantasiosità delle soluzioni nelle situazioni complicate. È successo qualche tempo fa che una famiglia yazida di un certo villaggio non fosse in grado di trovare mogli per i suoi figli maschi da sposare all’interno della propria casta. Chiesero una deroga agli sceicchi della comunità. La risposta fu: non sono ammesse eccezioni alla norma dell’endogamia di casta, ma senza opporci vi permetteremo di convertirvi tutti al cristianesimo e risolvere così il problema di dare ai vostri maschi delle mogli. Molte altre sono le apparenti bizzarrie del culto yazida, come quella che vieta di pronunciare certe parole e certe lettere, soprattutto la “s” finale trascinata del nome Taus Malek, quando non sia per pronunciare il nome del primo fra gli angeli, e quella di non sputare sulla terra, sul fuoco e nell’acqua. Andrebbe poi verificata la veridicità di una cognizione diffusa fra i cristiani dell’Iraq settentrionale: quella secondo cui il monaco che da solo regge il più importante santuario yazida, che si trova nei pressi di Singar, al momento della nomina all’altissimo incarico sarebbe castrato nel senso più cruento del termine. Il modo più sicuro che rispetti il voto di castità monacale per il resto della vita.

Fra le notizie da noi raccolte sulle brutalità compiute dal Daesh contro gli yazidi spicca quella che informa che molte delle donne rapite dai jihadisti (fra 300 e 1.000 a seconda delle fonti) sarebbero state messe in vendita nel mercato pubblico di Nakkasa nella città di Mosul come schiave e o concubine. Le stesse fonti parlano di un musulmano locale, uomo di buona volontà, che ne avrebbe “acquistate” tre al prezzo di 160 dollari ciascuna per poi liberarle e restituirle alle famiglie. Non è la stessa cosa, ma anche il superiore del monastero antoniano caldeo di Alqosh ha dato una bella testimonianza quando, venendo a sapere che 120 bambini della scuola occupata dagli yazidi a Zakho erano senza latte dal giorno della loro fuga, è andato al deposito del latte a lunga conservazione destinato agli orfani cristiani di cui è responsabile e ne ha donato una certa quantità agli yazidi. I migliori amici degli adoratori dell’Angelo caduto in Iraq continuano ad essere i cristiani.

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