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Agosto 13, 2014

Iraq. L’inviato di Tempi tra i rifugiati cristiani a Erbil. «Vogliamo andarcene tutti. Qui non c’è speranza»
di Rodolfo Casadei

«Qui arrivano persone che portano dieci chili di pane o dieci polli da cuocere, o che dicono: “Voglio pagare il pasto per 70 persone”. Ci si aiuta fra noi e i cristiani di qui fanno per noi tutto quello che possono»

L’aria è rovente, almeno 40 gradi, e le parole pure, anche se Ivan sorride mentre parla, gli occhi chiarissimi illuminati da un sogno. «Vogliamo andarcene tutti, non importa in quale paese europeo: qui non c’è più speranza». Il cortile della cattedrale caldea di san Giuseppe a Erbil è una cayenna di grida, facce disfatte, persone che si muovono in tutte le direzioni, donne sdraiate sotto tende di fortuna, capannelli di uomini intenti a organizzare non si sa cosa, acqua e generi vari trasportati di qua e di là attraverso prati spelacchiati.

Il giovane che mi aiuta a trovare il sacerdote col quale ho appuntamento viene da Qaraqosh, la più grande delle cittadine della Piana di Ninive con quasi 50 mila abitanti. Due volte i jihadisti di Daesh (come qui tutti chiamano l’Isil, o Stato islamico dell’Irak e del Levante) l’hanno espugnata strappandola ai reparti curdi che la controllavano dal 2003, e i fuggitivi sono arrivati sin qui, 60 chilometri più a oriente. «Sì, vogliono emigrare tutti e si immaginano che da un momento all’altro arrivino grandi aeroplani che li caricheranno in massa e li porteranno via da qui».

Padre Paolo Thabet Yousif è il parroco caldeo di Karamlish, la principale località cristiana a nord di Qaraqosh. Lui è fuggito il 7 agosto insieme alle ultime 20 famiglie che erano rimaste. Adesso trascorre le sue giornate fra il seminario di Erbil, dove gli hanno dato un letto, e lo scheletro di un edificio in costruzione che sta proprio in faccia alla cattedrale di san Giuseppe. Dovrebbe diventare un supermercato con tanto di parcheggio seminterrato. Per adesso è un’impalcatura di cemento armato nei cui vasti spazi hanno trovato ospitalità 70 famiglie caldee di Karamlish, circa 300 persone. «Sono quelli che non hanno parenti che li possano ospitare qui a Erbil o nelle altre città curde dove esistono comunità cristiane. La maggioranza delle 800 famiglie della mia parrocchia si è sistemata per conto proprio in qualche modo, questi stanno qui perché si tratta di una proprietà della Chiesa di Erbil, che aveva progettato di finanziarsi con l’affitto che il supermercato le avrebbe versato».

Bivaccare sul cemento grezzo, nonostante l’inesistenza delle pareti laterali favorisca il ricambio dell’aria, in pieno agosto non è per nulla meglio che stare sotto le tende nei parchi della città o sui prati della cattedrale. Perciò in pochi giorni sono stati installati una specie di condizionatori a forma di cubo: dentro c’è una ventola che quando è in azione non solo muove l’aria ma spruzza acqua su un paio di pareti rivestite di paglia: il risultato finale è un certo sollievo per chi sta nei pressi. In quattro-cinque giorni sono state installate le docce, quattro wc, una cucina da campo e fioche lampadine che pendono nel vuoto dei due piani principali. Sotto, nel seminterrato, gente è al lavoro per pulire e sterilizzare quella che era diventata una cloaca in un paio di giorni, e che si vorrebbe attrezzare per dare un riparo a gente che ancora vive per strada.

«C’è una gran solidarietà», spiega padre Paolo. «Qui arrivano persone che portano dieci chili di pane o dieci polli da cuocere, o che dicono: “voglio pagare il pasto per 70 persone”. Ci sono pure i volontari della diocesi e le suore che vengono a far giocare i bambini. Questa disgrazia che ci ha colpito ha portato anche qualcosa di buono: lo spirito comunitario è cresciuto, ci si aiuta fra noi e i cristiani di qui fanno per noi tutto quello che possono». Poco distanti da noi, infatti, due giovani e una donna stanno facendo giocare una trentina di bambini in puro stile oratoriano, mentre le mamme stanno intorno a guardare coi più piccoli in braccio.

Continuamente gente si avvicina per far firmare carte al parroco. «Sono autorizzazioni per fornire aiuti ad altre persone della parrocchia che si sono installate altrove. Quelli che sono qui ricevono gli aiuti direttamente dal magazzino e dagli uffici della cattedrale, che gestiscono tutto quello che arriva in generi e in denaro. I documenti che mi dispiace di dover fornire sono altri». Succede anche mentre parliamo sul marciapiede di fronte all’edificio: si avvicina una signora corpulenta circondata da tre ragazze adolescenti e fanno una richiesta a padre Paolo. Vogliono i loro certificati di battesimo. «Gli servono per fare domanda come rifugiati alle Nazioni Unite. È un fenomeno iniziato molto prima dell’attuale tragedia: la gente chiede il certificato di battesimo, parte per la Turchia e chiede prima protezione e poi lo status di profugo all’ente apposito delle Nazioni Unite. Il certificato di battesimo serve ad avvalorare le loro dichiarazioni di essere dei perseguitati a causa della religione che professano. A volte durante l’omelia dicevo: “Vi ricordate di essere cristiani solo adesso che volete emigrare e mi chiedete il certificato di battesimo”. Li frena solo un fatto, che per avere un’intervista con l’Unhcr ci vogliono non mesi, ma anni: qualcuno si è sentito dire che il suo appuntamento è fissato per il 2017! Intanto devono restare nella condizione precaria di richiedenti asilo».

Come tutti, il parroco caldeo di Qaraqosh è rimasto stupito dalla rapidità dell’avanzata di Daesh: «Il 6 agosto si è diffusa la notizia che i reparti curdi si sarebbero ritirati da tutta la piana di Ninive. Io pensavo che non era possibile, e non mi sono mosso. Già il mese prima 70 famiglie erano fuggite per le voci che dopo Qaraqosh toccava a noi, ma poi non era successo nulla. Invece quel giorno c’è stata una fuga di massa, hanno riempito anche i pullman. Il giorno dopo ci siamo resi conto che davvero i curdi si ritiravano e anch’io sono fuggito. Ho caricato tutti i manoscritti storici e i documenti parrocchiali che ho potuto, e il Santissimo. È stato un esodo faticosissimo, le strade erano bloccate da un traffico convulso, c’erano persino famiglie che fuggivano sul trattore. I curdi stavano posizionando una nuova linea difensiva con blindati e altri mezzi militari: non si riusciva più a passare. Ho preso i campi secchi con l’auto, a rischio di restare bloccato».

Quando si chiede cosa riserva il futuro, quanto tempo dovranno restare alloggiati come disperati, don Paolo e i suoi parrocchiani si fanno taciturni. «Chi aveva le armi, non aveva voglia di combattere; chi aveva voglia di combattere non aveva le armi», dice uno. In estrema sintesi è la spiegazione che la maggioranza si dà dell’avanzata inarrestabile dello Stato islamico, che nel giro di due mesi ha occupato o messo sotto assedio mezzo Iraq, arrivando a 30 chilometri da Erbil prima che l’aviazione e i droni Usa rallentassero la sua avanzata. L’esercito nazionale iracheno è stato costituito negli ultimi anni sulla base di un clientelismo che nulla aveva a che fare con la professionalità e il coraggio di battersi; invece i curdi, restando militarmente separati dal resto dell’esercito iracheno, non hanno avuto la possibilità di fornirsi di mezzi all’altezza di una crisi importante come questa. Ma mentre il sole comincia ad abbassarsi e a mandare una luce radente sui giochi dei bambini, nessuno ha voglia di parlare di politica.

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