Liberté Iraq: causa-effetto Traduzione e sintesi di Carlotta Caldonazzo L’amministrazione USA, che con il presidente Barack Obama ha cambiato strategie e modalità di intervento in Medioriente, si trova di fronte un Iraq che dimostra il fallimento di vecchi e nuovi approcci alla guerra al terrorismo. Tra l’incudine dei combattenti dello Stato islamico in Iraq e Levante (ISIS) e il martello delle pressioni internazionali, dagli USA all’Iran, l’Iraq rischia di disintegrarsi, anche perché la situazione attuale costituisce lo sbocco di una crisi politica che dura ininterrottamente dalla caduta del regime di Saddam Hussein. All’avanzata dell’ISIS l’esercito di Baghdad non ha saputo opporre finora una resistenza efficace, indebolito dalle numerose defezioni di soldati sunniti. Gli unici a conquistare vittorie sul campo sono stati i peshmerga, l’esercito regionale curdo, garantendo alla regione autonoma del Kurdistan iracheno una posizione geopolitica di non poco rilievo. Al punto che durante un suo discorso al parlamento di Erbil, il presidente Massoud Barzani ha attribuito la responsabilità dell’ascesa dei jihadisti al “fallimento della politica” del primo ministro sciita Nouri al-Maliki, in carica dal 2006, proponendo ufficialmente di indire un referendum per l’indipendenza da Baghdad. Già a dicembre 2013 il Kurdistan iracheno aveva assestato un duro colpo all’unità territoriale del paese, completando i lavori dell’oleodotto che consente di vendere petrolio alla Turchia senza l’intermediazione del governo centrale. Un accordo piuttosto vantaggioso per Ankara, che a meno di un anno di distanza lascia cadere il suo tradizionale attaccamento all’unità territoriale irachena, dicendosi pronta a convivere anche con un Kurdistan iracheno indipendente. Huseyin Celik, portavoce del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ha recentemente affermato che “in passato un Kurdistan indipendente era una ragione di guerra per la Turchia, ma adesso nessuno può più sostenerlo”. Più delicata la posizione degli sciiti, compreso al-Maliki, che giorni fa ha respinto la proposta di Washington e dell’ayatollah Ali al-Sistani (massima autorità sciita del paese) di sciogliere il governo attuale e crearne uno di unità nazionale. Ciononostante, il primo ministro iracheno ha ricevuto dagli USA 800 consiglieri militari e voli di ricognizione di droni armati, F18 e Orion, da Tehran sette aerei d’attacco Sukhoi 25, piloti e droni Ababil, e dalla Russia (già in altre faccende affaccendata) sette elicotteri e l’impegno a incrementare le forniture. Un intreccio piuttosto caotico di alleanze, se si considera che il Segretario di Stato USA John Kerry ha consultato sulla vicenda irachena anche le monarchie del Golfo, le stesse che hanno inviato armi alle frange sunnite dei ribelli siriani e che hanno represso militarmente le proteste sciite in Bahrein, cui ora Washington chiede di utilizzare la loro autorità tra i sunniti per fermare l’ISIS. Diversi osservatori temono che quest’ultimo porti il conflitto settario in Siria. In realtà è proprio dalla Siria, dove decine di migliaia di estremisti sunniti sono andati a combattere contro il regime di Bashar al-Assad, che jihadisti sunniti e armi (in parte fornite da USA e monarchie del Golfo) sono arrivati in Iraq. L’Iraq dunque ha pagato gli interventi indiretti in Siria, come il Mali ha pagato l’intervento della Nato in Libia: in entrambi i casi armi fornite da stimabili membri della comunità internazionale sono approdate in mani discutibili. A differenza del Mali, l’Iraq è vittima sia dell’interventismo dell’amministrazione Bush, che della nuova politica di Obama. Per rovesciare militarmente Saddam Hussein, nel 2003 USA e Gran Bretagna avevano fatto leva sulle rivendicazioni politiche degli sciiti e sulle spinte autonomiste dei curdi, trovando in Nouri al-Maliki, sciita, primo ministro dal 2006, un alleato affidabile nella “lotta al terrorismo”. Lo stesso ordinamento sancito dalla costituzione del 2005 assegna la maggior fetta di potere agli sciiti, cui spetta la carica di primo ministro, e garantisce l’autonomia amministrativa al Kurdistan iracheno, spianando la strada ad al-Maliki verso un accentramento di poteri sempre maggiore ai danni della componente sunnita. La crisi politica esplode nel 2011, quando la magistratura irachena spicca un mandato di cattura per il vicepresidente Tariq al-Hashemi (capo del blocco sunnita della coalizione laica Iraqiya), accusato di essere coinvolto in una serie di attentati contro funzionari di governo: al-Hashemi, che respinge le accuse bollandole come politiche, si rifugia nel Kurdistan Iracheno per poi riparare ad Ankara, dove riceve il diritto di asilo. Un terreno fin troppo fertile per l’insorgere di estremismi e conflitti settari.
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