http://wagingnonviolence.org Trasformare la paura in potenza Linda Sartor non ha paura di morire. Dedicata alla nonviolenza, ha trascorso 10 anni dopo l'11 set 2001 viaggiando in zone di conflitto in tutto il mondo come peacekeeper disarmata, con ruoli che vanno dall’accompagnamento protettivo a dirigere interposizioni tra le parti quanddo le tensioni erano alte. Documenta il suo lavoro in tutto il mondo, in Israele / Palestina, Iraq, Afghanistan, Sri Lanka, Iran e più recentemente nel Bahrain, nel suo nuovo libro, Trasformare la Paura in Potenza: Il Viaggio di una donna che affronta la Guerra al Terrore. Interiormente tranquilla e straordinariamente umile (scelse di dormire all’aperto per otto anni della sua vita adulta), il suo coraggio e la convinzione non sono solo rinfrescanti, sono infettivi. Recentemente ho avuto il privilegio di trascorrere una giornata con lei per discutere i suoi viaggi e le modalità con cui essi l'hanno cambiata come individuo, così come la sua relazione con l'azione nonviolenta. C'è una risposta nonviolenta al terrorismo? Penso che George W. Bush abbia abusato della parola "terrorismo", tanto che non abbia più davvero alcun senso. Quando i manifestanti del movimento Occupy sono stati ritratti come terroristi, questo cambia davvero il significato di democrazia. Se c'è una cosa come il vero terrorismo, penso che è spesso l'ultima risorsa, grido di aiuto da persone che vengono gravemente abusate e maltrattate e che non hanno altro modo per essere viste e sentite da coloro che potrebbero portare giustizia ad una situazione. Una risposta non violenta al terrorismo è qualsiasi cosa che porta più giustizia nel mondo, tra cui più equità nel nostro sistema economico globale in modo che tutte le persone possano soddisfare i loro bisogni e nessuno possa abusare di chiunque altro per il proprio vantaggio economico. Che cosa significa attivismo per te? Penso che la parola attivismo significhi più spesso protestare contro qualcosa, ma io sono più entusiasta all'idea di Gandhi del programma costruttivo. Io preferisco focalizzarmi sulla creazione dei modelli di ciò che vogliamo, invece di protestare contro ciò che non vogliamo, perché credo che quando mettiamo energia contro qualcosa, in realtà gli dà più di potenza. Hai lavorato per un’organizzazione creando programmi costruttivi, che è la prima linea di mantenimento della pace disarmata internazionale, il sogno gandhiano della Shanti Sena, o Esercito della Pace. Ci puoi raccontare una storia che illustra questo tipo di nonviolenza al lavoro? Il giorno dopo un massacro in un villaggio cristiano Tamil su ull'isola in Sri Lanka, noi di Nonviolent Peaceforce, peacekeepers civili disarmati siamo stati accolti da un sacerdote che ci ha portato a vedere i corpi. Gli abitanti del villaggio erano tutti entusiasti di dirci quello che avevano vissuto la notte precedente, quando le 11 persone sono state uccise. Ognuna delle loro storie ha confermato che gli assassini erano della Marina dello Sri Lanka. Il modo in cui lavoravano in Sri Lanka, era che i corpi dovevano rimanere sul posto fino a che il giudice veiva per guardarli. Quando il giudice arrivò e camminò per strada, era accompagnato dalla Marina e della polizia. Così, non appena gli abitanti del villaggio videro il gruppo avvicinarsi, le donne e i bambini tutti corsero in fretta all'interno del sagrato della chiesa e gli uomini si strinsero più vicini gli uni agli altri sul lato della strada di fronte alla chiesa. La tensione era palpabile. Mi sono posizionata sul lato del gruppo di uomini, così i militare della Marina, la polizia e il giudice camminavano davanti a me e poi passarono gli uomini del villaggio. Mentre passavano, ho sorriso e salutato per dimostrare di essere totalmente disarmata nelle tensioni. In quel momento, ho percepito una consapevolezza che ero al sicuro perché ero disarmata più di quanto sarei stata, se fossi stata armato. Nessuno aveva alcun motivo di avere paura di me, quindi non ero in pericolo. Da quella mattina, fino a quando gli abitanti del villaggio hanno deciso di passare dal loro villaggio in un campo profughi, siamo stati in grado di fornire una presenza protettiva alla popolazione, di fargli sentire un senso di sicurezza che la Marina, che era presumibilmente responsabile della loro sicurezza, non poteva fornire. Tu sei una persona. Che cosa ti fa credere di poter fare la differenza? Dopo il 9/11, non riuscivo a stare ferma. Ho sentito il desiderio di entrare in una sorta di azione, di prendere una posizione più forte di quanto non avessi mai fatto prima. Nei 10 anni della mia vita in cui mi ritraggo nel mio libro, non so concretamente quanta differenza, le mie azioni, abbiano realizzato in un quadro più ampio. Come i Volontari di Pace afghani. Ho trascorso del tempo con loro in Afghanistan, senza necessariamente aspettarmi di vedere dei cambiamenti. Mi impegno a lavorare per l’avvenire, nella mia vita. Ma credo di dover lavorare per quei cambiamenti comunque. E' come la strofa nella canzone "The Impossible Dream" che dice: "E io so che se sarò solo fedele a questa gloriosa missione, il mio cuore sarà pacifico e tranquillo, quando mi concederò al mio riposo; e il mondo sarà migliore per questo." Su un altro livello, se vedo qualcosa là fuori nel mondo che non va bene per me, credo che se guardo dentro me stessa e mi chiedo qualcosa come: "Dov'è la violenza in me?", trovo un posto dentro di me a cui posso lavorare per guarire. Forse questo è l'unico posto dove ho davvero il potere di fare la differenza. Credo che quel pò di guarigione contribuisca alla guarigione che è necessaria nel mondo. Sono stata ispirata dalle parole della poetessa Clarissa Pinkola Estes, quando dice: "Il nostro compito non è di salvare il mondo intero tutto in una volta, ma di ripararne quella parte che è alla nostra portata. Ogni piccola cosa calma che un'anima può fare per aiutare un'altra anima, per assistere una parte di questo mondo sofferente e povero, aiuterà immensamente ... Sappiamo che non è da tutti, sulla Terra, portare giustizia e pace, ma per solo un piccolo gruppo determinato che non si arrenderà." Il tuo libro parla di trasformare la paura in potere nonviolento. Il coraggio è una delle caratteristiche chiave di Gandhi, dell'anima nonviolenta, o satyagraha. Nella sua opera del 1928 "Satyagraha in South Africa", egli scrisse, "Un offerta al satyagraha e addio alla paura." Che ruolo pensi che giochi la paura nel perpetuare la violenza nel nostro mondo? Vedo che i poteri che sembrano dominare e controllare il mondo di oggi, prosperano sulla creazione e il mantenimento di una cultura della paura. La paura è contagiosa e viene facilmente gonfiata a dismisura dalla nostra immaginazione. Soprattutto quando è distante. Ad esempio, le persone che non vivono in California hanno paura dei terremoti e fino a quando non sono mai stata in un tornado, lo temevo. Ho capito quando mi stavo preparando per il mio primo viaggio, quello in Israele/Palestina, che per tutti coloro che rimanevano a casa, sarei stataa in pericolo tutto il tempo. Ma in realtà, c'erano solo pochi istanti che erano abbastanza spaventosi, il resto del tempo non lo era. Possiamo imparare a lasciare che le paure siano i nostri insegnanti e quando le accettiamo, o addirittura le abbracciamo, lasciando che la paura ci insegni ciò che deve, essa avrà meno controllo su di noi. Non è che ci sbarazziamo della paura, è solo che possiamo conviverci in un modo diverso. Quanto più sono in grado di stare con le mie paure, tanto sarò libera di fare quello che il mio cuore mi chiama a fare e, alla fine, mi sentirò più viva. Consiglia tutti di viaggiare zone di conflitto come ha fatto lei? Incoraggio le persone a riconoscere che essi non sono tenuti a fare quello che ho fatto io, ma che i loro cuori hanno le uniche chiamate che sono giuste per loro. Confido che se ognuno di noi fa così, questo può portare a soluzioni che non possiamo trovare quando pensiamo solo ai problemi nelle nostre teste e dal punto di vista di ciò che abbiamo fatto prima. http://wagingnonviolence.org Turning fear into power Linda Sartor is not afraid to die. Dedicated to nonviolence, she spent 10 years after September 11, 2001 traveling to conflict zones throughout the world as an unarmed peacekeeper, with roles ranging from protective accompaniment to direct interpositioning between parties when tensions were running high. She documents her work across the world in Israel/Palestine, Iraq, Afghanistan, Sri Lanka, Iran and most recently Bahrain in her new book, Turning Fear into Power: One Woman’s Journey Confronting the War on Terror. Inwardly quiet and exceedingly humble (she chose to sleep outside for eight years of her adult life), her courage and conviction are not only refreshing, they’re infectious. I recently had the privilege of spending a day with her to discuss her travels and the ways in which they have changed her as an individual, as well as her relationship to nonviolent action. Is there a nonviolent response to terrorism? I think George W. Bush misused the word “terrorism” so much that it really has no meaning. When protesters in the Occupy movement are portrayed as terrorists, that really changes the meaning of democracy too. If there is such a thing as real terrorism, I think it is often a last resort cry for help by people who are being severely abused and mistreated and who don’t have any other way to be seen and heard by those who could bring justice to a situation. A nonviolent response to terrorism is anything that brings more justice into the world, including more equity in our global economic system so that all people have their needs met and no one can abuse anyone else for their own economic advantage. What does activism mean to you? I think the word activism most often means protesting against something, but I am more excited about Gandhi’s idea of constructive program. I prefer the focus on creating models of what we want as opposed to protesting against what we don’t want because I believe that when we put energy against something it actually gives that something more power. You worked for an organization doing constructive program, which is at the forefront of international unarmed peacekeeping, the Gandhian dream of the Shanti Sena, or Peace Army. Can you tell a story illustrating that kind of nonviolence at work? The day after a massacre in a Christian Tamil village on an island in Sri Lanka, we Nonviolent Peaceforce unarmed civilian peacekeepers were greeted by the priest who took us to see the bodies. The people of the village were all excited to tell us what they had experienced the night before when the 11 people were killed. Each story confirmed that the killers were of the Sri Lankan Navy. The way it worked in Sri Lanka was that the bodies had to stay in place until the judge looked at them. When the judge arrived walking down the street, she was accompanied by Navy and police. So as soon as the villagers saw the group coming, the women and children all quickly went inside the churchyard and the men clumped closer to each other on the side of the street across from the church. The tension was palpable. I positioned myself on the side of the clump of men, so the Navy, police and judge walked past me first and then past the village men. As they passed, I smiled and waved and that proved to be totally disarming of the tensions. At that moment, I felt a bodily knowledge that I was safer because I was unarmed than I would have been armed. No one had any reason to be afraid of me, so I was not in personal danger. From that morning on, until the villagers decided to move from their village into a refugee camp, we were able to provide a protective presence to the people and they felt a sense of security that the Navy, which was supposedly responsible for their security, could not provide. You are one person. What makes you hopeful that you can make a difference? After 9/11, I couldn’t sit still. I felt a longing to get into some sort of action to take a stronger stand than I had ever taken before. In the 10 years of my life that I portray in my book, I don’t know concretely how much of a difference my actions made in the bigger picture. Like the Afghan Peace Volunteers I spent time with in Afghanistan, I don’t necessarily expect to see the changes I am committed to working toward come about in my lifetime. But I believe that I have to work toward those changes anyway. It is like the line in the song “The Impossible Dream” that says, “And I know if I’ll only be true to this glorious quest, that my heart will lie peaceful and calm when I’m laid to my rest; and the world will be better for this.” On another level, if I see something out there in the world that is not okay with me, I believe that if I look inside myself and ask something like, “Where is that violence in me?” then I have a place within myself that I can work to heal. Maybe that is the only place where I really have the power to make a difference. I do believe that that little bit of healing does contribute to the healing that’s needed in the world. I have been inspired by the words of the poet Clarissa Pinkola Estes, when she says, “Ours is not the task of fixing the entire world all at once, but of stretching out to mend the part of the world that is within our reach. Any small calm thing that one soul can do to help another soul, to assist some portion of this poor suffering world, will help immensely … We know that it does not take everyone on Earth to bring justice and peace, but only a small determined group who will not give up.” Your book is about transforming fear into nonviolent power. Fearlessness was one of Gandhi’s key characteristics of the nonviolent soul, or satyagrahi. In his 1928 work, “Satyagraha in South Africa,” he said, “A satyagrahi bids goodbye to fear.” What role do you think fear plays in perpetuating violence in our world? I see that the powers of domination that seem to be in control of the world today thrive on creating and perpetuating a culture of fear. Fear is contagious and easily blown out of proportion by our imaginations. I see that especially when it is at a distance. For example, people who don’t live in California are afraid of earthquakes and since I have never been in a tornado I fear that. I realized when I was preparing for my first trip which was to Israel/Palestine that for everyone back home it would seem like I would be in danger all the time. But in reality, there were only a few moments that were quite scary, and the rest of the time was not. We can learn to let fears be our teachers and when we accept, or even embrace, a fear and let ourselves learn what we have to learn from it, it has less control over us. It’s not that we ever get rid of fear, it is just that we can be with fear in a different way. The more I am able to be with my fears, the more freedom I have to do what my heart is calling me to do, and the more alive I feel in the end. Do you recommend that everyone travel to conflict zones as you have? I encourage people to recognize that they don’t have to do what I did, but that their own hearts have unique callings that are right for them. I trust that if each of us does that, it can lead to solutions that we can’t find when we only think about the problems from our heads and from the perspective of what we’ve done before.
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