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07/08/2014
Ragazze rapite in Siria, intervista a Susan Dabbous giornalista sequestrata più di un anno fa
di Giacomo Galanti
“La cosa più difficile da accettare quando si è rapiti è quello che può succedere dopo, il costante campanello d’allarme che ti assilla su cosa succederà tra un minuto o tra un’ora”. Susan Dabbous, giornalista free lance che collabora con Avvenire e Sky Tg24, ricorda così i suoi 11 giorni di prigionia in Siria. Susan venne sequestrata a Ghassanieh, un villaggio cristiano, da Jabhat al-Nusra, un gruppo legato ad al-Qaeda. In Siria per girare un reportage sperimentale dal titolo "Silenzio, si muore", insieme a lei vennero rapiti gli altri 3 colleghi facenti parte della troupe Rai: Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe e Andrea Vignali. Da poco la giornalista ha pubblicato un libro edito da Castelvecchi, “Come vuoi morire?”, in cui racconta quella brutta esperienza. Intanto da circa una settimana non si hanno più notizie delle ventenni Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, in Siria come volontarie e sparite vicino ad Aleppo. Forse sequestrate da criminali comuni.
Qual era la paura più grande che hai avuto durante il sequestro?
Il maggior timore è quello di perdere lucidità. Questo dipende molto dai rapitori e dalla zona in cui ti trovi. Noi eravamo in zona di guerra, sotto i bombardamenti: un ambiente che certo non aiuta. Però la lucidità è necessaria per riuscire a sopravvivere: dunque bisogna comportarsi in maniera passiva ma intelligente, non fare provocazioni e adeguarsi alle nuove circostanze.
Nel libro racconti che, in quanto donna, eri stata isolata dagli altri prigionieri.
Temevo molto l’isolamento. Ero sola in un appartamento con la moglie di uno dei terroristi. Dato che avevo paura che ci avessero sequestrato non per avere soldi, ma per una dimostrazione simbolica come ai tempi della guerra in Iraq, ho cercato in tutti i modi di essere accettata dai rapitori. Quindi ho chiesto alla donna di essere convertita all’Islam
Che rapporto c’era con la tua carceriera?
Un rapporto umanamente molto bello. Nonostante lei aderisse all’ideologia fondamentalista, sentivo una sua vicinanza dal punto di vista umano, anche perché eravamo sotto le bombe. Certo, non vedevo in lei una persona complice che potesse darmi una mano per essere liberata.
Come sei stata trattata dai rapitori?
Decisamente bene. Sono sempre stata rispettata sul piano fisico, non mi hanno mai toccato. Non mi è mai mancato il cibo. Anzi, erano quasi ossessionati nel darmi da mangiare.
Cosa ricordi della tua liberazione?
Diciamo che la fase del rilascio è stata ancora molto dura, fino a che non abbiamo raggiunto il territorio turco e ci sono venuti a prendere gli uomini della Farnesina. Ricordo le grida di gioia di mio padre al telefono appena gli ho detto che ero finalmente libera. E poi, una volta che ho abbandonato i vestiti lunghi tradizionali del posto, ho sentito le mi gambe strette dentro ai jeans. Avevano perso l’abitudine.