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15 aprile 2014

Ucraina, la Russia è tornata
di Fëdor Lukyanov

Mosca non si cura più dei possibili danni alle sue relazioni con l’Occidente. In caso di guerra civile in Ucraina i leader russi potrebbero decidere l'intervento. Anticipazione del volume di Limes: "L'Ucraina tra noi e Putin"

Il referendum in Crimea ha posto fine a un’èra durata oltre un quarto di secolo, le cui origini affondano nelle azioni del segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista sovietico Mikhail Gorbacëv tra il 1988 e il 1989. Questi venticinque anni hanno registrato diversi attriti tra Russia e Occidente, che sono andati crescendo di frequenza e intensità: Caucaso, Jugoslavia, Iraq, rivoluzioni colorate, Georgia, primavere arabe.

Tuttavia, il bisogno di minimizzare i danni alle relazioni con Europa e Stati Uniti ha orientato costantemente la postura del Cremlino. Persino il conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008, ad oggi il maggiore di questo travagliato periodo, è stato accompagnato da sforzi politici e diplomatici miranti a smorzare le tensioni e a raggiungere qualche forma di accordo.

Finora la politica estera russa si è dunque mossa nel solco tracciato da Gorba?ëv, che considerava i rapporti con l’Occidente preziosi per lo sviluppo della Russia. Quella stagione è tramontata. Ora la Russia non si cura più dei possibili danni alle sue relazioni con l’Occidente, che rischiano di essere seriamente compromessi. La crisi ucraina è lungi dal concludersi e non vi sono segnali di dialogo. Eppure è tempo di valutare le circostanze a mente fredda, onde minimizzare i rischi di escalation.

La decisione russa sulla Crimea è irreversibile: è un’illusione sperare altrimenti. Senza dubbio, la volontà politica del Cremlino conta sul vasto sostegno dell’opinione pubblica russa e di quella della penisola. Dal collasso dell’Urss, vi è stata la convinzione – sia in Crimea che in Russia – che l’inclusione di questo territorio entro i confini ucraini fosse un accidente storico, un malinteso e un’ingiustizia. Il fatto che, stando a un sondaggio condotto nel 2013, poco più del 40% degli abitanti della Crimea sostenesse l’annessione alla Russia (chi contesta i risultati del referendum sottolinea questo dato) non importa granché. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un simile esito fosse possibile, ma a marzo i cittadini sono stati chiamati a scegliere il loro destino e lo hanno fatto in modo inequivocabile. Il ritorno della Crimea alla Russia è stato possibile solo perché l’Ucraina ha cominciato a disgregarsi dall’interno. Ancora a metà febbraio un siffatto scenario era imprevedibile, pertanto è risibile parlare di predeterminazione. Una volta avviata la catena degli eventi, però, era difficile resistere alla tentazione di correggere quel macroscopico errore storico.

Comprensibilmente, Vladimir Putin non voleva essere ricordato come il presidente che si era lasciato sfuggire l’occasione di recuperare un territorio di così grande importanza culturale, politica e strategica per la Russia. Un ipotetico annullamento della decisione di annettere la Crimea sarebbe equivalso a un disastro politico e morale per la dirigenza russa: un vero e proprio incubo. 

All’indomani dell’annessione è partita la macchina delle sanzioni, ma queste rischiano di avere un effetto contrario a quello previsto da Washington e dalle capitali europee. Sarebbe infatti ingenuo credere che la pressione economico-finanziaria esercitata su paesi come Jugoslavia, Iraq o Myanmar funzioni nel caso di una superpotenza nucleare che occupa gran parte dell’Eurasia ed esercita una forte influenza nel mondo. Anche perché, a ben vedere, non ha funzionato nemmeno negli altri casi. Gli esperti russi non hanno dubbi sul fatto che Stati Uniti ed Europa possano infliggere seri danni all’economia nazionale. Il blocco dei sistemi Visa e MasterCard è stata una chiara dimostrazione in tal senso. Va da sé che nel valutare se annettere o meno la Crimea, il Cremlino ha considerato il possibile prezzo da pagare, dunque le ritorsioni occidentali non hanno sorpreso nessuno. Anzi, esse non fanno che rafforzare l’establishment russo, cementando la sua determinazione a tenere il punto. Per non parlare dell’assurdità di alcune misure, come aggiungere alla «lista nera» il ministro della Difesa russo, una delle persone da cui dipende in ultima analisi la stabilità globale.

Al momento, con grande sollievo di Kiev e dell’Occidente, ulteriori operazioni russe sul territorio ucraino non sembrano in agenda. Mosca comprende la differenza tra i sentimenti della Crimea e l’atmosfera prevalente nell’Est e nel Sud dell’Ucraina. Gli abitanti di queste aree sono leali alla Russia e hanno buone ragioni per mantenere saldi legami con essa, ma fra di loro non vi è la stessa unanimità che si registra in Crimea. Non vi è una chiara linea che separi le regioni filorusse dalle altre, data l’eterogeneità dell’Ucraina.

Vi è solo un caso in cui l’interferenza russa in Ucraina orientale e sudorientale sarebbe possibile, se non inevitabile: quello di una radicale destabilizzazione di questi territori. Lo scoppio di una guerra civile innescato, ad esempio, dal tentativo delle autorità di Kiev di controllare gli elementi radicali e la reazione violenta di questi; o il desiderio del governo, in cui gli ultranazionalisti giocano un ruolo importante, di estendere il modello culturale dell’Ucraina occidentale al resto del paese; o ancora un’acuta crisi economica, un’ondata di bancarotte industriali nell’Est e il conseguente tentativo delle autorità di reprimere le proteste con la forza; oppure una frattura politica causata dalle elezioni presidenziali. Vi sono molti scenari negativi e la loro materializzazione metterebbe la Russia in una posizione difficile. Le controindicazioni di un intervento sono palesi e il successo non è garantito.

Tuttavia, in caso di marcato deterioramento della situazione, di radicalizzazione del clima politico e di forte richiesta d’aiuto a Mosca da parte della popolazione russofona, l’inazione sarebbe inaccettabile. La Russia è in cerca di una nuova identità nazionale che rimpiazzi quella sovietica, ormai obsoleta. Come in altri paesi passati attraverso processi simili, il nazionalismo è in ascesa.  La Russia vuole che la situazione in Ucraina si stabilizzi e che il paese si rimetta in piedi dopo il collasso del suo sistema politico. Mosca è convinta che a tal fine l’unica soluzione sia riorganizzare lo Stato in base a un ordinamento federale o confederale, in grado di garantire alle differenti regioni il diritto alla piena autodeterminazione linguistica e culturale. Le componenti federate potrebbero costruire strategie economiche in base ai rispettivi interessi e obiettivi, appoggiandosi ai partner ad esse più congeniali, tanto all’Ovest quanto all’Est. Ovviamente, la Russia resta allergica all’idea dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, sicché uno status di neutralità per il paese è il prerequisito di qualsiasi assetto duraturo.

Con tutto il rispetto per il popolo ucraino, è impossibile creare un modello di sviluppo sostenibile del paese senza il consenso di Russia, Europa e Stati Uniti. Per storia e geografia, l’Ucraina non è in grado di operare una scelta e ora assistiamo alle conseguenze dei tentativi di forzarle la mano. Certamente, la vicenda della Crimea ha reso le comunicazioni molto più difficili, ma ciò non toglie che i contatti a livello internazionale siano indispensabili e urgenti. Russia e Unione Europea devono discutere seriamente di Ucraina. Nella prima fase i colloqui saranno strettamente riservati, per evitare la collisione delle rispettive ambizioni. È chiaro che non sarà facile superare le posizioni e le preclusioni attuali; prevedibilmente, l’Europa obietterà che è impossibile discutere il futuro dell’Ucraina senza che questa sia presente al tavolo. Tuttavia, sfortunatamente la situazione è straordinaria e richiede misure altrettanto inusuali. La crisi ucraina chiude un’èra nella politica europea e mondiale, mettendo drammaticamente in evidenza l’assenza, in tutti questi anni, di un efficace meccanismo di controllo e gestione delle crisi internazionali. Questa svolta è carica di insidie, ma presenta anche l’opportunità di riscrivere le regole del gioco.

Nel 2015, tra poco più di un anno, cadrà il 40° anniversario della Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e lo sviluppo in Europa. Fino a ieri si pensava a celebrazioni in grande stile. Del resto, fu dal processo di Helsinki che scaturì l’idea di una «casa comune europea», frase usata da Gorba?ëv nel suo discorso al Consiglio d’Europa venticinque anni fa. Da allora però, gli eventi hanno subìto un’accelerazione imprevista. La cortina di ferro è caduta, l’Unione Sovietica è scomparsa, il mondo si è pienamente globalizzato, una nuova fase dell’integrazione europea è stata inaugurata, la Nato si è espansa a est. Oggi vi sono buone probabilità che le celebrazioni di Helsinki vengano annullate. La crisi ucraina ha diviso l’Europa; ora sembra strano persino parlare di un continente unico. Lo spirito di Helsinki e l’aspirazione alla reciproca comprensione sono tramontati; la cortina di ferro è stata rimpiazzata da una «linea rossa» concepita da Mosca come la delimitazione esterna dei propri interessi vitalie dall’Occidente (Europa e Stati Uniti) come il prodotto delle ambizioni imperiali russe. Ma soprattutto: il fine ultimo del processo di Helsinki era consolidare il principio dell’inviolabilità dei confini, emerso in Europa dopo la fine della guerra fredda. Quei confini sono durati quindici anni. La loro revisione è iniziata, in molti modi diversi. In alcuni casi sono stati cambiati per via diplomatica, come nell’ex Cecoslovacchia. In altri con la forza, come in Jugoslavia. In altri ancora dalla cogenza degli eventi, come nello spazio ex sovietico. In alcuni casi, infine, sono stati ridisegnati per volontà di una potenza esterna nell’ambito di un conflitto, come in Kosovo, Ossezia del Sud e Abkhazia. In ogni caso, le frontiere hanno cessato di essere viste come qualcosa di sacro e definitivo. Finito il confronto bipolare, ci siamo tutti abituati all’idea che possano mutare. I confini hanno smesso di terrorizzare la gente come nella seconda metà del XX secolo, quando il ricordo delle guerre mondiali rendeva tabù l’argomento. […]

Oggi l’Europa appare persa nel mondo globale [...] la competizione globale lascia poche chance ai singoli Stati europei, persino ai più grandi fra essi. Solo combinando le forze il Vecchio Continente può competere ad armi pari con Stati Uniti, Cina, forse India e, a livello politico, con la Russia. Ma alla logica dei proclami non è corrisposta la concretezza dei risultati.

Il peso dell’Europa unita nel mondo non è solo inferiore alla somma dei suoi Stati membri; anche il potenziale dei maggiori paesi singolarmente presi – come Germania, Francia e Regno Unito – è diminuito rispetto a vent’anni fa. Le capitali europee hanno smesso di essere attori dotati di una qualche rilevanza politica: Parigi è sprofondata nell’irrilevanza, Londra resta a galla grazie allo status di polo finanziario globale, ma va perdendo influenza e visione strategica. Tutti questi fattori rendono Berlino il fulcro incontestato dell’Europa. La Germania non può più evadere le proprie responsabilità; del resto, è da tempo che non se ne assume. Ci sono voluti oltre cinquant’anni per neutralizzarne le ambizioni, ma oggi ogni qualvolta prova ad assumere un ruolo di guida suscita sospetti e timori. Soprattutto, manca un contrappeso alla forza tedesca: la Francia non svolge più il suo tradizionale ruolo in tal senso. Dunque l’Europa è orfana di un equilibrio interno. A questa confusione si sommano le difficili relazioni con l’America, tradizionale custode dell’Europa.

L’idea di sfidare gli Stati Uniti è stata definitivamente archiviata: il Vecchio Continente è pronto a tornare sotto la tutela americana, principalmente nella forma della Transatlantic Trade and Investment Partnership, attualmente in fase di negoziazione. Sfortunatamente, l’opinione che circola a Washington sull’Europa non è un segreto: un giorno Edward Snowden parla di vigilanza totale, un altro l’assistente segretario di Stato Victoria Nuland fa commenti irriferibili sulla politica estera europea. Il guaio è che la Nuland non ha completamente torto: l’Unione Europea non è esattamente brillante sulla scena internazionale. […] 

È vero che Russia e Occidente non hanno mai superato i loro sospetti reciproci, né hanno mai smesso di competere. Non hanno nemmeno trovato un equilibrio di interessi che consenta loro di instaurare relazioni stabili. All’inizio, per via della debolezza e della dipendenza russe; dopo, perché tutti si erano abituati a questa nuova condizione e nessuno reputava necessario fare concessioni a Mosca. Di fatto, l’Europa non ha mai abbandonato l’idea che il riavvicinamento fosse possibile solo alle sue indiscutibili condizioni. Di discutibile c’era solo la tempistica con cui i partner avrebbero dovuto adottare la normativa comunitaria. Quando la Russia ha cominciato a contestare questo approccio e a pretendere reciprocità, l’Ue ha fatto muro per principio. Non vi è altra spiegazione, ad esempio, per gli infiniti e infruttuosi colloqui sull’abolizione dei visti turistici, che avrebbe reso molto più facili gli spostamenti e contribuito ad avvicinare le parti. L’Unione Europea ha sempre considerato l’accesso al suo territorio come un premio per i paesi terzi, il che trasuda arroganza. Ma tutto ciò non implica che il clima di confronto del XX secolo sia destinato a tornare.

Nel corso del Novecento, le relazioni Est-Ovest hanno costituito il cuore delle relazioni internazionali. Tutto il resto era secondario. Ora sono solo un aspetto della politica mondiale, e nemmeno il più importante. Uno scontro con la Russia sull’Ucraina o su altro non aiuterà l’Europa e gli Stati Uniti a risolvere i loro problemi in Medio Oriente o in Asia. Al contrario, una virata di Mosca a est creerà ulteriori problemi. Questo riorientamento avverrà in ogni caso, perché nel XXI secolo un paese che affaccia sul Pacifico non può permettersi di non avere una politica attiva e ben congegnata in quella regione. Le pressioni occidentali sulla Russia non faranno altro che accelerare tale processo.

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