http://www.youtube.com/watch?v=fxm-dO9dpnQ&feature=player_embedded Il Movimento mapuche. Il caso della Coordinadora Arauco Malleco. La difesa dei boschi, dell’acqua e della vita (Video di 27’ in spagnolo)
La Jornada L’enclave mapuche Quella dei mapuche, la gente (che) della terra (mapu), è forse la resistenza più combattiva del pianeta. Dura da sei secoli ed è riuscita a fermare tutte le invasioni di un territorio che oggi si chiama Patagonia cilena. Dove non sono riusciti a passare gli Incas e i conquistadores spagnoli, oggi avanzano le imprese multinazionali del legname, protette dai carabineros di uno Stato che i Mapuche non hanno mai considerato proprio. Contro gli indigeni, il governo di Santiago usa la legge anti-terrorismo di Pinochet ma la mancanza di un apparato centralizzato e la frammentazione delle organizzazioni rendono più difficile la repressione e l’assalto all’autonomia di un popolo che non si riconosce nello Stato, né aspira a conquistarlo. Alla fine di gennaio, con una commissione di solidarietà verso il popolo mapuche composta da cileni e latinoamericani, abbiamo fatto visita ai detenuti Héctor Llaitul e Ramón Llanquileo nel carcere di El Manzano, alla periferia di Concepción, e in quello di Angol, circa 50 km più a sud. La ragione della nostra visita era la necessità di denunciare la situazione dei detenuti che si trovavano già da 79 giorni in sciopero della fame e di rendere visibile la realtà di un popolo perseguitato nell’Araucanía militarizzata. La commissione era composta da cinque persone che avevano vinto premi nazionali, dal presidente della Chiesa evangelica luterana, dal presidente del Consiglio medico, da un ex giudice e da un diplomatico, da dirigenti di movimenti studenteschi e sindacali, da diversi intellettuali, dalla Pastorale Mapuche e dalla Commissione etica contro la tortura. Llaitul y Llanquileo appartengono alla Coordinadora Arauco Malleco, creata en 1998 e impegnata soprattutto nel recupero delle terre ancestrali in mano alle imprese multinazionali del legname e ai latifondisti. I detenuti hanno cessato lo sciopero della fame il 28 gennaio, quando il gruppo che gli aveva fatto visita si è impegnato a mettere in piedi una commissione nazionale e internazionale al fine di verificare il rispetto dei diritti umani nei confronti del popolo mapuche. La commissione farà un viaggio in Cile in ottobre. Il 3 di gennaio era stata diffusa la Quarta Dichiarazione degli storici riguardo la questione nazionale dei Mapuche. L’hanno firmata centinaia di intellettuali, i quali ricordano come gli episodi di violenza, che spesso vengono attribuiti soltanto ai Mapuche, “traggono origine dalla cosiddetta ‘pacificazione dell’Araucania’ , una campagna di sterminio realizzata dallo Stato cileno tra il 1860 e il 1880, in violazione degli accordi stipulati con i Mapuche dopo la conquista dell’indipendenza (1825). Gli storici raccontano che lo Stato del Cile occupò l’Araucanía mettendola a ferro e fuoco e utilizzando i metodi più violenti e crudeli. Si appropriò di grandi estensioni di terra indigena, che vendette all’asta a basso prezzo o regalò ai coloni cileni e stranieri. I Mapuche furono confinati in piccole e misere riserve. Sarà bene ricordare che la legge antiterrorismo del regime di Augusto Pinochet viene applicata solo ai militanti mapuche per azioni che non hanno nulla a che vedere con il terrorismo: incendi di piantagioni o di camion che trasportano legname. La solidarietà nazionale è cresciuta in misura sensibile in Cile, in particolare dopo lo sciopero della fame di Patricia Troncoso, durato dall’ottobre del 2007 al gennaio del 2008. Spicca la solidarietà degli studenti delle medie superiori, che hanno creato gruppi di lavoro per sviluppare legami abajo-abajo (quelli che stanno sotto, los de abajo, ndt) tra i due movimenti. L’appoggio internazionale è invece scarso, per questo è necessario fare un salto di qualità per rompere il recinto di disinformazione che la democrazia cilena (cioè i governi succedutisi dopo la dittatura di Pinochet, ndt) ha tessuto contro coloro che resistono al modello (neoliberista, ndt). Malgrado la forza d’animo dei prigionieri mapuche e dell’insieme del movimento, è facile lasciarsi vincere dallo sconforto nel verificare le divisioni, i rimproveri e le critiche incrociate che si possono ascoltare nelle diverse correnti che si raggruppano nel popolo mapuche, tanto nelle comunità rurali quanto negli spazi urbani. Non è opportuno riprodurre qui le ragioni e le dispute della frammentazione del mondo mapuche che resiste, ma è doveroso segnalarne l’esistenza e, soprattutto, tentare una lettura diversa da quella che ne fanno i mondi accademici e i partiti politici. In primo luogo, bisogna dire che non c’è alcuna organizzazione, nemmeno uno spazio di coordinamento, che riesca ad agglutinare tutto il popolo mapuche. Si tratta di un caso molto diverso da quello che conosciamo nel mondo andino, dove i quechua ecuadoriani e i quechua aymara boliviani oltre ai popoli delle Terre Basse (i boliviani che vivono nelle regioni orientali, lontane dalla Cordigliera andina, ndt)- hanno costruito grandi organizzazioni rappresentative dei loro popoli. Si tratta di un vantaggio o di uno svantaggio, per il popolo mapuche? Il secondo punto da rilevare è che, a partire dagli anni Novanta, nuove generazioni di Mapuche hanno creato un’infinità di organizzazioni urbane e rurali, in quella che lo storico Gabriel Salazar chiama la sesta epoca della guerra mapuche. Un’epoca iniziata nel 1981, quando cominciarono a crescere le proteste di piazza contro la dittatura. Questa nuova generazione si rifà a una lunga storia che dice come il popolo mapuche sia stato il solo nel continente sudamericano a sconfiggere gli Incas e i Conquistadores spagnoli, che costrinse a fermarsi a nord del fiume Bio Bio. Da quando sono stati fondati il Consejo de Todas las Tierras e, più tardi, la Coordinadora Arauco Malleco, un’organizzazione che si definisce autonoma e anticapitalista, sono nate decine di organizzazioni: di studenti, di donne, di giovani, sportive, culturali, di storici, di pescatori, di comunicazione; organizzazioni piccole e locali, con legami di prossimità, che non sono mai arrivate a creare una grande organizzazione che potesse agglutinare tutti. Il terzo punto è che i Mapuche fanno politica in modo differente. Un modo che si traduce in sovranità o autonomia, come ricorda bene Gabriel Salazar. Non si riflettono nello specchio dello Stato, né per conquistarlo né per costruire organizzazioni a sua immagine e somiglianza. Chissà, forse perché lo Stato è rimasto sempre qualcosa di esterno al popolo mapuche. I Mapuche non si sono mai sentiti, né si sentono, cileni. Non innalzano la bandiera cilena ma la loro, quella che hanno ereditato dai loro antenati. La loro lotta fa riferimento a una memoria che probabilmente non ha paragoni nel mondo, una memoria nella quale si sono stratificate non una ma cinque o sei epoche di guerra nel corso di sei o più secoli di storia ( Movimientos sociales en Chile, Gabriel Salazar, p. 119). Arrivati a questo punto, potremmo dire: nonostante la frammentazione, resistono. E se fosse il contrario? Non sarà che proprio perché non hanno creato un unico apparato (centrato sullo Stato) continuano ad essere uno dei popoli che resistono alla cooptazione delle destre e delle sinistre? L’unità e l’omogeneità non rendono più facile il tentativo di addomesticare i movimenti antisistema? Non avrà ragione l’Esercito zapatista di liberazione nazionale? La storia del popolo mapuche insegna che per lottare, e per vincere, serve una volontà comunitaria di lotta e non un apparato che porti al vertice caudillos e annulli le differenze e le autonomie. Altri articoli sulle lotte indigene Intervista a Victor Ancalaf, werken (messaggero) della Coordinadora Arauco Malleco e prigioniero politico delle carceri cilene tra il 2002 e il 2007. Poche settimane fa i carabineros di Collipulli hanno arrestato Heriberto Ancalaf, figlio di Victor, le prove riscontrate a suo carico sono una motosega e una maschera di protezione. I loro alleati, i nostri fratelli Viviamo un tempo che indica quanto sia illusorio e perdente pensare di essere autosufficienti. Le forze politiche si misurano (e frantumano) con la politica delle alleanze. I movimenti indigeni, quelli anti-sistemici e «los de abajo» parlano un’altra lingua
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