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19 ottobre 2013

Desmond Tutu: «Rivolta morale 
contro quelle morti in mare»
di Umberto De Giovannangeli

Il suo è un richiamo accorato al diritto-dovere all’indignazione, che sia alla base di una «rivolta morale» di fronte a tragedie, «tutt’altro che naturali», che si consumano nella martoriata Siria, come nel «mare della morte»: il Mediterraneo. A parlare è colui che, assieme a Nelson Mandela, ha rappresentato il simbolo della lotta contro il regime dell’apartheid sudafricano: Desmond Tutu, arcivescovo anglicano emerito di Città del Capo, 82 anni, premio Nobel per la pace 1984. Il suo sguardo si sofferma sui Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo, in particolare la Siria, ma il primo pensiero va alla strage di migranti a Lampedusa: «Un fatto sconvolgente - riflette Tutu - ma non episodico. Perché da tanto, troppo tempo, il Mediterraneo è diventato al tomba di una umanità sofferente, dei più indifesi tra gli indifesi. Ho pregato per loro, ma l’unico modo per onorare al memoria di quelle vittime innocenti, è operare perché tragedie come quella di Lampedusa non abbiano a ripetersi. Il diritto d’asilo è una questione di civiltà. Non voglio sostituirmi ai governanti europei, ma credo che i singoli Paesi, in questo caso l’Italia, non vadano lasciati soli a fronteggiare fenomeni di questa portata. Ritengo che siano nel giusto quanti chiedono che sia aperto un corridoio umanitario per quanti fuggono dall’orrore della guerra, e invocano un diritto d’asilo europeo».

Il mondo è rimasto scioccato di fronte alle immagini di morte e di dolore che provenivano da Lampedusa.

«Quel dolore va trasformato in energia positiva, in azione. Onorare quei morti significa non far calare su di loro, sulla storia di cui sono parte, l’oblìo. Occorre sollevare una rivolta morale contro tutte le forme di schiavitù: dallo sfruttamento delle donne come schiave sessuali all’impiego dei bambini in condizioni inaccettabili per lunghe ore. Ma la piaga dei migranti illegali, e quel che accade loro, è una delle peggiori forme di schiavitù esistenti oggi al mondo. A quanti fuggono da guerre civili, conflitti tribali, pulizie etniche e da povertà disumane, occorre garantire protezione, riconoscere diritti, e il primo di questi è il diritto alla vita e a una vita migliore. Di fronte alle immagini di quella fila di corpi senza vita recuperati dal mare, di fronte ai commoventi racconti dei sopravvissuti, nessuno, nessuno può dire: io non sapevo, io non potevo... Una rivolta delle coscienze presuppone una responsabilità individuale che non può essere delegata ai Governi, o ai Grandi della Terra, che pure sono chiamati alle loro pesanti responsabilità. E questo discorso vale anche per ciò che avviene in Siria».

La tragedia siriana, per l’appunto: oltre 100mila morti, 5 milioni tra sfollati e profughi: sono le agghiccianti cifre di una tragedia in atto. Lei si è schierato apertamente contro l’intervento militare internazionale.

«Vede, troppe volte ho sentito evocare, invocare, interventi militari, come se essi rappresentassero al panacea di ogni Male e non, invece, la genesi del Male. Penso alla tragedia siriana, ma anche a ciò che avviene in Egitto. In Siria c’è bisogno di un intervento internazionale, certo che sì, ma di un intervento umanitario. Abbiamo bisogno di atti concreti di solidarietà, ma anche di parole. Sì, parole. Abbiamo bisogno di parlare, di dialogare per evitare ulteriori spargimenti di sangue. L’alternativa all’intervento militare non è la rassegnazione. Tutt’altro. È puntare su quanti, dall’interno della società siriana, continuano, nonostante tutto, a operare per ricucire ciò che la brutale logica delle armi tende a recidere. Non dobbiamo, non possiamo perdere altro tempo prezioso. Perché ogni attimo che passa nell’indifferenza verso le persone intrappolate nello scontro armato. si incrinano i nostri standard morali. Quelle vittime innocenti, interrogano le nostre coscienze e ci pongono di fronte a un obbligo morale che non può essere delegato. Lei ha fatto riferimento alla mia presa di posizione pubblica nei giorni in cui sembrava imminente un’azione militare di Stati Uniti e Francia in Siria. Aver scongiurato quell’intervento, lo ritengo una prova di forza e non un atto di debolezza. Credo che sia stata una scelta ragionevole, perché era necessario dare tempo agli ispettori dell’Onu di svolgere appieno il loro compito. Così come è stato un passaggio obbligato quello che ha investito il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ma questo tempo va riempito. Riempito di atti di solidarietà concreta ma anche, insisto su questo, di parole, Sì, dobbiamo parlare di cose scomode, come il rapporto tra l’Occidente e il mondo islamico, o quelli tra Israele e Palestina, un conflitto, quest’ultimo, che rappresenta una ferita che ha già provocato troppo dolore».

Per restare alla Siria. In un suo recente scritto a sostegno della campagna di Save the Children, lei ha affermato che oggi in Siria non c’è posto per i bambini. «

È così. Ed è un fatto enorme, una tragedia nella tragedia. Nella nostra incapacità di far sì che il popolo siriano riceva cibo e generi di prima necessità, stiamo condannando i bambini, milioni di bambini alla fame. Sì, in Siria non c’è posto per i bambini, e, vergognosamente, oltre un milione sono già stati costretti a fuggire con le loro famiglie nei campi e nelle comunità di accoglienza nei Paesi vicini. Quelli sono i più fortunati: perché altri ne sono già stati uccisi, migliaia e migliaia. Dov’è lo sdegno? Dove sta l’impegno dei nostri leader? La comunità internazionale non solo non riesce a dare una soluzione e pacifica a questo conflitto, ma la situazione è aggravata dal fatto che vengano trascurate le sue terribili conseguenze, prima fra tutte quella che mette a repentaglio la vita di milioni di bambini siriani».

A proposito di infanzia negata, un’altra campagna che l’ha vista in prima fila, è quella sulle spose bambine. Nel mondo, stando a un rapporto delle Nazioni Unite, quasi settanta milioni di giovani donne nella fascia di età compresa tra i 20 e i 24 anni - una su tre - si sono sposate prima di compiere 18 anni. Un terzo di loro - circa il 12 per cento - ne aveva addirittura meno di 15. Alcune avevano solo cinque anni.

«È un fenomeno inquietante, che troppo spesso resta ai margini dell’impegno delle istituzioni e degli organismi internazionali. Abbiamo eliminato cose brutali come l'apartheid, possiamo porre fine anche ai matrimoni precoci. Ogni giorno si sposano 25mila bambine, dieci milioni in un anno. Vengono strappate alla loro infanzia, ai loro amici, alla scuola e costrette a trasferirsi in una famiglia che non conoscono con un uomo che non hanno mai visto. Come “Elders” (un gruppo di eminenti leader globali di cui Tutu fa parte, assieme alla ex presidente irlandese Mary Robinson, ndr), ci siamo fatti partecipi di una iniziativa che come scopo ha quello di dare voce alle bambine che rischiano le nozze precoci e di rafforzare a tutti i livelli, sia locali che globali, la lotta contro questa pratica. Con la convinzione che se liberiamo le donne risolviamo anche molti altri problemi».

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