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24 novembre 2013

Dopo Varsavia 2013. Movimenti e conferenze
di Alberto Zoratti

Come volevasi dimostrare, il circo mediatico delle Conferenze delle Parti Onu (Cop) sul cambiamento climatico ha mostrato a Varsavia il suo punto più basso. Poche decisioni, più stilistiche che sostanziali, e per il resto si vedrà. Ma la responsabilità non è solo di negoziatori irresponsabili o di interessi innominabili, dietro al fallimento sta anche una società civile che nella sua totalità non ha ancora capito come imporre la propria agenda, unendo opzioni territoriali con questioni globali. Un commento da Varsavia

VARSAVIA – Ci vuole una buone dose di ottimismo, o di ingenuità scegliete voi, per definire questa 19a Conferenza delle Parti Onu sul cambiamento climatico (COP19) come un buon risultato. O forse una discutibile compatibilità con gli interessi che contano, quelli che con inspiegabile faccia tosta sono stati accettati come sponsor della Conferenza di Varsavia: Arcelor Mittal, Bmw, Opel, Emirates e il gruppo energetico polacco PGE.

Sarebbe dovuta essere la COP della finanza, si è trasformata nella COP dell’attendismo. Si è ribadito il refrain della necessità di mobilizzare risorse per raggiungere i 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, il Green Fund su mitigazione ed adattamento, esattamente come si decise due anni fa a Cancun. Ma come, quanto e chi si vedrà. Anche la possibilità di porre obiettivi intermedi per il periodo 2013 – 2019 è caduto nel vuoto.

I “Paesi in via di sviluppo” ed emergenti, soprattutto quelli colpiti da eventi atmosferici estremi, hanno preteso fino all’ultimo un meccanismo capace di far fronte economicamente ai disastri, il cosiddetto capitolo del “loss and damage”. L’unica cosa che esce è il “Warsaw International Mechanism”, che dovrebbe creare le condizioni per mobilizzare fondi di fronte alle calamità naturali. Ma aldilà delle denominazioni, più utili ad inserire il riferimento dei Paesi ospiti negli annali dell’UNFCCC che a dare un serio contributo alla lotta per il clima, la sostanza rimane ancora sul tavolo, irrisolta: sarà finanziato con fondi aggiuntivi o si utilizzeranno quelli del Green Fund peraltro non ancora stanziati che, secondo Third World Network, rischiano di provenire da altri capitoli di spesa, vedi l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo?

“Non abbiamo raggiunto nessun risultato significativo”, così il delegato filippino Naderev Sano, tra i pochi ad avere diritto di replica su conclusioni tanto miserrime viste le condizioni del suo Paese dopo il tifone Haiyan che si è portato via più di cinquemila vite. Unica consolazione sono quei cento milioni di dollari promessi da Norvegia, Germania e Svizzera sul Fondo per l’Adattamento, un primo passo per quanto assolutamente insufficiente per garantire risorse a chi vuole attrezzarsi contro il cambiamento climatico.

Non tanto dissimile il capitolo sugli impegni verso il 2020. Quel “Climate Gateway” approvato a Doha nel dicembre 2012 è rimasta sì porta di accesso, ma scricchiolante e ben poco affidabile. Le tappe per il “global deal”, quel patto globale che dovrebbe far salire a bordo tutti i Paesi del mondo in un regime non più vincolante come poteva essere Kyoto ma volontario, rimangono intonse: chiudere un accordo alla COP21 nel 2015 a Parigi per renderlo operativo nel 2020.

Quello che manca sono gli impegni. E la follia a cui si è giunti, la stessa che le Ong rimaste a vertice chiedevano a gran voce di bloccare (“Stop climate madness”) ha raggiunto il suo apice quando al posto della parola “impegni” (commitments) si è scelto di indicare “contributi, senza pregiudizi di natura legale” per i Paesi che “saranno pronti”. Di fronte ad un “wording” così al limite della manipolazione, lo scontro tra l’Unione europea di Connie Hedegaard ed il resto dei Paesi industrializzati sulla scadenza entro cui indicare gli obiettivi di riduzione (tardo 2014 o primo trimestre del 2015) diventa puro esercizio di stile.

Quello che non è approccio stilistico ma cruda realtà sono gli effetti sostanziali del cambiamento climatico, ormai diventati dati di cronaca.

Che fare? L’abbandono dei negoziati di buona parte delle Organizzazioni Non Governative alcuni giorni fa indicano che la misura è colma. Ma non basta ricordare che so tornerà in Perù nel 2014 per la COP20 più determinati che mai. Il mondo scientifico ci ricorda che il nostro “carbon budget” si sta velocemente consumando, secondo una ricerca pubblicata su Nature nel 2009 per riuscire a mantenere l’aumento della temperatura mondiale sotto i 2°C non bisognerebbe emettere più di mille miliardi di tonnellate di CO2 dall’era preindustriale alla fine del secolo. Siamo già a quasi 550 miliardi di tonnellate emesse e se si continua così supereremo il limite tra il 2015 ed il 2020.

L’attendismo diventa quindi colpevole se non complice di un disastro. E’ venuto il momento per i movimenti sociali di cambiare strategia o, almeno, di renderla più complessa. Delegittimare le COP può essere psicologicamente entusiasmante ma non va nella giusta direzione, uno spazio multilaterale per affrontare temi globali è necessario ed ineludibile. Il problema è come quello spazio politico viene agito e a nome di chi.

L’autorevolezza dei movimenti sociali deriva dalla loro capacità di radicarsi nelle lotte territoriali, di essere protagonisti ed interpreti dei conflitti locali. E’ il paradosso di questo secolo: per risolvere i problemi globali si parte dal costruire opposizione e proposta alternativa sui territori.

Il movimento per lo “stop al biocidio”, contro la costruzione del Tav, così come tutti coloro che si oppongono all’estrazione petrolifera, alle centrali a carbone, al fracking in Europa come nel mondo, portano avanti una politica di seria lotta al cambiamento climatico. Fatta di tanti affluenti che prima o poi dovranno convergere in piattaforme collegate e complementari. E’ con la forza acquisita in basso che si potrà, in modo più efficace, tornare sui tavoli che contano nazionali od internazionali che siano per far valere un punto di vista. I luoghi della decisione politica, tra cui le COP, se abbandonati diventano facile preda dei soliti interessi. Sta ai movimenti decidere se regalare spazi all’avversario.

Un ragionamento valido anche per le prossime settimane, quando a Bali in Indonesia si terrà la nona Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dove si cercherà di sbloccare un Round negoziale (il Doha Development Round) fortunatamente in stallo dal 2001. Qualsiasi cosa verrà decisa a Bali nella direzione di uno sblocco dei negoziati avrà pesanti ripercussioni a livello sociale ed ambientale. Ulteriori liberalizzazioni dei commerci, l’ennesimo consolidamento dei privilegi delle imprese e dei mercati rischieranno di indebolire una volta di più, semmai ce ne fosse bisogno, la lotta al cambiamento climatico.

La responsabilità è certamente di negoziatori senza ambizione o con interessi dichiarati, ma rischia di esserlo anche di una società civile che non riesce, ancora una volta, ad imporre la propria agenda sui tavoli che contano. Serve maggiore determinazione nel mettersi in gioco, anche con azioni illegali, per fermare questa deriva, è necessario un maggiore e migliore collegamento tra le vertenze territoriali e le campagne internazionali. Bisogna evitare di lasciare spazi anche politici a mercati ed imprese. Lo si fa fermando il Tav, lottando contro il biocidio, rimettendo in discussione l’intoccabilità degli interessi di investitori e proprietari, opponendosi al Doha Round a Bali a dicembre e facendo pressioni alla COP20 di Lima nel 2014: diversi appuntamenti per un’unica strategia comune.

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