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2013-12-06

Greenpeace: «La nostra crociata verde»  
di Simone Cosimi

Intervista esclusiva a Kumi Naidoo, capo della più popolare organizzazione ambientalista, da mesi sotto i riflettori per le azioni nell’Artico e lo spinoso caso dei trenta attivisti bloccati e processati in Russia

È il capo di Greenpeace. Tecnicamente, l’International executive director. Il primo africano al vertice della più importante e famosa organizzazione ambientalista del mondo insieme al Wwf. Kumi Naidoo, classe 1965, ha portato in dote al quartier generale di Amsterdam un peso specifico notevole, fatto di esperienza e lucidità. Senza difettare, come spesso accade ai grandi personaggi di quel martoriato continente, di un pizzico di visionarietà. Un peso che si è trasferito su tutti i fronti, tantissimi, dove i coraggiosi volontari mettono in scena le azioni più clamorose a cui il pianeta abbia mai assistito. E alle quali ha spesso partecipato anche lui, come nell’occupazione della piattaforma artica Prirazlomnaya di Gazprom, nell’agosto del 2012, o in un’altra operazione in Groenlandia, l’anno prima, costatagli quattro giorni di galera danese. È l’esperienza di una vita, o almeno un pezzo di essa, passata a lottare contro l’apartheid in Sudafrica. E poi in giro per altre organizzazioni. Mischiando ambiente e sociale, lotta alla povertà e ai mutamenti del clima. Sporcandosi le mani per colpire e informare l’opinione pubblica senza smarrire riflessione e strategia. Puntando alla perseveranza senza compromessi, come ci ha raccontato in esclusiva coniando il suo personalissimo slogan. Seguendo la lezione di Nelson Mandela. Ma anche oltre, sfruttando i paradossali palcoscenici internazionali – come quello del World Economic Forum – per far esplodere le emergenze del mondo.

La sua educazione e la sua storia personale mescolano ambiti molto diversi, dall’azione civile al clima fino alla lotta contro la povertà: la scelta di nominarla al vertice dell’organizzazione è stato un segnale di svolta politica per Greenpeace?

«Sono cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, pensando che l’attivismo ambientalista fosse un privilegio per i ricchi. A metà degli anni Novanta, invece, ho iniziato a realizzare che i temi ambientali incrociano tutte le altre istanze. Per me, quindi, il cambiamento climatico non riguarda solo la natura: tocca anche argomenti come sopravvivenza, economia ed eguaglianza. A causa di questa crescente consapevolezza ho iniziato a fare volontariato per diverse organizzazioni ambientaliste. Nella mia esperienza in ambito si sviluppo internazionale ho visto come i progetti indirizzati alla povertà, e che avrebbero potuto avere successo, sono stati bloccati dal degrado ambientale e dagli impatti climatici. Così ho capito che la battaglia per bloccare l’ingiustizia climatica e naturale e quella per porre fine alle diseguaglianze sociali ed economiche sono due facce della stessa medaglia. Dobbiamo assicurare un equilibrio fra ecologia, economia e uguaglianza. Greenpeace sembrava un posto più che logico per dare questo contributo e c’erano anche due aspetti dell’organizzazione che mi colpivano molto. Anzitutto l’idea di confidare su milioni di persone in tutto il mondo per i contributi economici in sostegno delle campagne. Noi non prendiamo soldi dalle aziende o dai governi, il che ci dà l’indipendenza di dire la verità al potere. In secondo luogo Greenpeace ha tratto dal passato lezioni essenziali su come avvengono le mutazioni sociali: chi trae profitto dallo status quo non cederà mai il potere a meno che non vi sia una mobilitazione visibile. Basti guardare alla situazione dei nostri attivisti che hanno protestato contro le trivellazioni nell’Artico e sono stati accusati di teppismo e pirateria. Greenpeace è coinvolta in azioni dirette non violente e di disobbedienza civile partendo dal presupposto che le battaglie si vincono solo quando gli uomini e le donne di buona volontà si alzano in piedi e dicono che basta, non si va oltre. Greenpeace è un’organizzazione che ama la vita ma è pronta all’azione in ogni momento».

Lei è stato pesantemente coinvolto nell’opposizione al regime dell’apartheid sudafricano, ce l’ha spiegato. È stato cacciato da scuola, arrestato e alla fine è andato in esilio volontario: cosa ha portato di tutte queste intense esperienze dentro Greenpeace?

«Sono stato ispirato da Nelson Mandela e molti altri attivisti che ho incontrato in quegli anni. Ero appena quindicenne quando ho sentito parlare per la prima volta di Mandela. La sua persona pubblica e storia personale, perfino il suo volto, erano censurati. Nel corso del regime ho partecipato alla mia prima contestazione, contro la disuguaglianza nell’educazione. Poi, nel corso delle nostre iniziative sono entrato in contatto con la campagna Free Mandela. Ed è a quel punto che è divenuto una grande fonte d’ispirazione. Quando ha detto che “la battaglia è la mia vita” ho realizzato quanto potente e vera fosse questa affermazione. La lotta per cambiare il clima, le ingiustizie sociali e di genere richiede tempo e tanti sforzi. Come ha spiegato Mandela: la battaglia per la giustizia è una maratona, non uno sprint. Tutti quanti troviamo ispirazione in lui, un modello vero. Senza dimenticare che Mandela ha anche detto che la battaglia per la giustizia non è una gara di popolarità e le ingiustizie proseguiranno finché le persone non ne avranno abbastanza e si diranno pronte ad andare in prigione o a mettere a rischio le proprie vite. Anche oggi, le sue parole e le sue azioni rimangono un’ispirazione per i giovani di tutto il mondo. Quello che spero di portare alle divertenti e appassionate persone di Greenpeace è la perseveranza senza compromessi».

Venendo all’attualità: il vostro fronte più caldo, a dispetto delle temperature, è senza dubbio l’Artico. Ci spiega perché è così importante fermare le perforazioni?

«L’Artico funziona per il pianeta intero più o meno come un refrigeratore. Lo aiuta a stabilizzare il clima. Questo perché la calotta di ghiaccio regola il clima globale riflettendo i raggi solari. Questo strato si sta squagliando a un ritmo allarmante: vuol dire che le acque assorbono i raggi solari riscaldandosi. E riscaldando il mondo. Più l’impatto del cambiamento climatico diventa visibile più il pericolo esplode: perforare e bruciare combustibili fossili è quindi l’ultima cosa che dovremmo fare lassù, in un posto così fragile e intoccabile come l’Artico. Compagnie come Shell e Gazprom stanno pianificando perforazioni invasive alla ricerca di petrolio e gas: non possiamo certo competere con i loro enormi muscoli finanziari ma abbiamo creatività e milioni di persone dietro di noi. Questa è la battaglia ambientale definitiva dei nostri tempi. Ed è appena cominciata».

Qual è la situazione dei trenta attivisti rilasciati da poco a San Pietroburgo? Potranno tornare a casa o saranno obbligati a rimanere in Russia per molto. La battaglia andrà avanti?

«Gli Arctic 30 (così è stato ribattezzato il gruppo, ndr) sono stati tutti rilasciati su cauzione dalla corte russa ma devono vedersela con accuse molto serie come teppismo, che potrebbero costare loro fino a sette anni di prigione. L’ultimo a uscire, dopo 71 giorni di carcere, è stato Colin Russell. Al momento devono però rimanere in un hotel di San Pietroburgo. Cerchiamo di ricordarci una cosa: hanno messo in campo un’azione pacifica per conto di tutti, opponendosi alle distruttive perforazioni artiche con un furioso assalto al cambiamento climatico. Accusarli di teppismo è un insulto e un oltraggio, ci aspettiamo che questi capi d’imputazione cadano. Siamo ottimisti, speriamo possano tornare a casa a un certo punto ed evitare di rimanere in Russia finché il caso non sarà chiuso. Ma non ne siamo sicuri. E non possiamo sapere quando accadrà. Il sequestro dell’Arctic Sunrise e del suo equipaggio è stato fuori da ogni legge. Non molleremo finché ciascuno dei trenta non tornerà a casa».

Quali sono i nuovi progetti su cui vi concentrerete nel 2014? A parte l’Artico, quali sono le tre emergenze del mondo secondo Greenpeace?

«Il cambiamento climatico è la più grande sfida che l’umanità debba affrontare. Continuiamo ad assistere a governi apatici sul tema, basti guardare ai recenti negoziati delle Nazioni Unite sul clima a Varsavia. Mentre le persone, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, vengono colpite dalle catastrofiche conseguenze del climate change. Occorre una trasformazione del settore energetico, una svolta massiccia verso le rinnovabili. Abbiamo la tecnologia, sappiamo che il settore delle rinnovabili produce lavoro e sappiamo che l’energia pulita ci aiuta a controllare le dinamiche dei mutamenti climatici. Ma sappiamo anche che tutto è connesso e per controllare il clima abbiamo bisogno di foreste, polmoni del pianeta, e oceani puliti, pesca sostenibile e allevamenti ecologici per nutrire in modo sostenibile una popolazione mondiale in continuo aumento».

Qual è la sua analisi dell’azione di Greenpeace nei quattro anni della sua guida e, più in generale, a quali battaglie storiche dell’organizzazione è più affezionato?

«Greenpeace e il movimento ambientalista hanno registrato diverse vittorie negli scorsi anni. Ma per vincere davvero la guerra e assicurare all’umanità un futuro su questo pianeta c’è ancora molto da fare. Mentre sono ispirato dai nostri colleghi e volontari devo tuttavia ricordare che abbiamo di fronte un percorso lungo. Per esempio, serve più pressione sui leader politici ed economici e abbiamo bisogno di attivisti da ogni ambito della vita pubblica. Nel 2013 una delle più grandi compagnie che producono carta, Asia Pulp and Paper, ha accettato una moratoria immediata per il blocco di ogni ulteriore deforestazione in Indonesia, un accordo da sottoporre a tutti i suoi fornitori. Volkswagen, sotto pressione da tutto il mondo, ha annunciato che rispetterà e supporterà gli obiettivi climatici. E ancora, il più grande marchio di moda asiatico, Uniqlo, così come la sua compagnia collegata Fast Retailing Group, ha accettato di eliminare tutti gli agenti chimici inquinanti dalla catena produttiva e distributiva globale entro il 2020. Tutto grazie alla nostra campagna Detox. Nel 2012 un grande brand come Levi’s e il più grande distributore di moda al mondo, Zara, così come la compagnia collegata Inditex, hanno accettato di intervenire sugli inquinanti chimici e nel 2013 anche Valentino si è impegnato di fare lo stesso, come evitare di utilizzare prodotti derivanti dalla deforestazione. Uno dei giganti alimentari e agricoli mondiali con base in Australia, John West del gruppo Simplot, si è convinto a bloccare i distruttivi metodi di pesca che utilizzava e che, senza alcuno scopo, finivano per uccidere squali, razze, piccoli tonni e tartarughe. Ancora, il governo della Corea del Sud ha abbandonato i piani per un’operazione su vasta scala destinata alle balene, un passo significativo per difendere la popolazione dei grandi cetacei. Il gigante petrolifero brasiliano Petrobras ha mollato i progetti sulle perforazioni al largo delle coste della Nuova Zelanda e abbiamo anche saputo che il governo senegalese ha preso la decisione di cancellare le autorizzazioni alla pesca a 29 pescherecci oceanici da strascico nelle acque occidentali dell’Africa, dopo una campagna di Greenpeace. Infine, la Edison International ha annunciato che chiuderà le centrali a carbone Fisk and Crawford di Chicago».

Le sensazionali dimostrazioni in cui siete specialisti continuano a essere utili per la vostra causa? Insomma, sono ancora un modo valido per protestare e attrarre nuovi attivisti?

«Come ha osservato un meme circolato sui social network che a sua volta citava Howard Zinn: Il problema non è la disobbedienza civile ma l’obbedienza civile. Le giovani generazioni sono attivamente coinvolte in tutto il mondo in dimostrazioni sensazionali, dal movimento Occupy a Gezi park, Istanbul. E funzionano. Ovviamente non è l’unico aspetto su cui lavora Greenpeace. È parte di un complesso mix di tattiche legate alle nostre campagne che, portate avanti all’unisono, possono condurre a delle svolte autentiche. Il nostro lavoro mette insieme dettagliate ricerche scientifiche, investigazioni scrupolose, lungo e spesso noioso lavoro di lobbying, volontariato, lavoro sui media. In questo pacchetto c’è sempre spazio per azioni dimostrative che facciano scalpore. Azioni che sottolineino l’urgenza delle sfide che dobbiamo affrontare: proprio come le proteste nell’Artico di cui abbiamo parlato, dove gli interessi sono molto alti. Si tratta infatti di una delle grandi battaglie in un contesto fragile da cui potrebbe dipendere un peggioramento del caos climatico. Abbiamo imparato molto dalla storia, dall’apartheid alla battaglia delle donne per i diritti. Spesso l’unico linguaggio che i politici riescano a capire è proprio quello della disubbidienza civile. Greenpeace è coinvolta in azioni pacifiche e non violente e di disobbedienza civile. Cristian D’Alessandro e gli altri 29 membri dell’equipaggio della Arctic Sunrise sono donne e uomini coraggiosi colpevoli solo di avere una coscienza. Tornando alla domanda, i giovani sono intelligenti e capiscono bene cosa facciamo. Porteranno avanti il loro punto di vista. Miglioreranno e modificheranno i metodi e le azioni di contestazione ma emozione e sensazione saranno sempre parte della protesta. Se continueranno a essere metodi pacifici anche noi li abbracceremo».

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