pubblicato oggi sul quotidiano “Le Monde” Le immolazioni e le manifestazioni continuano nelle aree tibetane
Nessuna notizia filtra sui media locali e la popolazione cinese ignora cosa accade a Rebkong (Tongren in cinese), piccolo villaggio tibetano situato all’inizio degli altipiani, circa 200 km. a sud di Xining, capitale dell’immensa provincia del Qinghai. Solo i residenti che abitano lungo la strada che costeggia il Fiume Giallo prima di arrivare in questo centro rinomato per le tanka, le pitture religiose tibetane, hanno potuto vedere i convogli di autocarri militari ricoperti di scritte (“Mantenere la solidarietà tra le minoranze nazionali! Sostenere la direzione del Partito!”), i pullmann carichi di soldati e i blindati anti-sommossa. Questo silenzio imposto su quanto avvenuto a Rebkong, mostra che la crisi nelle regioni tibetane sta per generalizzarsi. Nel giro di pochi giorni, la settimana scorsa , questa piccola città ha visto le manifestazioni degli studenti e l’immolazione col fuoco di un monaco di 34 anni (Jamyang Palden) nel grande monastero di Rongwo gonchen, mercoledì 14 marzo. E poi, sabato 17, quella di un agricoltore di 43 anni e padre di tre figli. Quel giorno parecchie migliaia di monaci, studenti, gente del luogo hanno manifestato mentre il corpo del defunto, irriconoscibile, è stato deposto sulla grande piazza Drolma thangchen in mezzo a dei ritratti del Dalai Lama. Si tratta del trentesimo tibetano a immolarsi col fuoco dal 2009. Venti non sono sopravvissuti. Se si può ben percepire un acuto senso di sconforto, siamo anche in presenza di una forte solidarietà espressa da tutti gli intellettuali tibetani che ho incontrato a Xining, indeboliti dalla brutale persecuzione che li colpisce dal 2008. É l’intera società tibetana che sembra oggi saldata contro un arsenale di misure punitive. “Queste immolazioni sono estremamente dolorose. Fanno male ma è un modo per i monaci di difendere i loro diritti e la loro dignità”, mi spiega un intellettuale tibetano di Xining. Tentativi di organizzazione di cerimonie segrete Come negli altri focolai di tensione delle regioni tibetane, il monastero di Rongwo è stato etichettato dai cinesi come potenzialmente “ribelle”. Incidenti avevano avuto luogo nel febbraio 2008, all’inizio dell’insurrezione generale, seguiti da arresti e poi da nuove manifestazioni indette per reclamare la liberazione dei monaci considerati ingiustamente puniti. Quest’anno diversi monasteri, tra cui Rongwo, hanno cercato di organizzare delle cerimonie segrete per celebrare il 10 marzo, anniversario dell’insurrezione di Lhasa del 1959 che precedette la fuga in esilio del Dalai Lama capo spirituale dei tibetani. Hanno queste cerimonie causato misure di rappresaglia che hanno spinto Jamyang Palden a immolarsi? Altrove, a Tongde un po’ più a nord di Rebkong, circa un migliaio di tibetani hanno manifestato il 16 marzo per domandare la liberazione dei monaci arrestati il giorno prima per aver issato una bandiera tibetana, mentre un altro scontro si è avuto nella parte orientale del Tibet tra militari e monaci dopo una commemorazione proibita del 10 marzo. La politica della messa sotto controllo dei monasteri “ribelli” pone pone questi ultimi sulla linea del fuoco della battaglia condotta da Pechino contro la influenza del Dalai Lama. La nuova strategia messa in atto dal 2010 è volta a infiltrare nei comitati di gestione dei monasteri quadri del Partito e poliziotti. “I cinesi stanno per disfare quello che hanno costruito” Sabato 17 marzo, in un grande monastero che sovrasta il Fiume Giallo, a una cinquantina di chilometri da Rebkong, vediamo tre vetture della polizia. “Tenete gli occhi aperti e non parlate troppo”, consiglia un monaco arrivato nel 2011 dall’India per motivi famigliari. Soffre per la mancanza di libertà e per il fatto che nessuno osa parlare all’interno del monastero. Un altro monaco ha creato da diversi anni un sistema di insegnamento del tibetano per bambini in una contea adiacente per supplire alla mancanza di scuole in tibetano. E’ sotto stretta sorveglianza e deve agire con molta prudenza per non essere accusato di “indottrinare” gli allievi. La mobilitazione dn marzo degli studenti di Rebkong e delle altre contee vicine, Tshekog e Kangtsa, non meraviglia nessuno. Avevano già manifestato nell’ottobre del 2010 dopo l’annuncio delle autorità del Qinghai che l’insegnamento in tibetano doveva cedere il passo a quello in cinese. L’adozione di queste misure era stata allora respinta. Ma gli studenti hanno scoperto, al rientro a scuola questo mese, che solo dei manuali in cinese erano disponibili per l’insieme delle materie. “Il desiderio dei tibetani oggi è di poter studiare principalmente in tibetano e, in secondo luogo, in cinese. Non solo questo desiderio non è stato soddisfatto, ma ancora più materie sono in cinese”, mi spiega un intellettuale di Xining. Il Qinghai è il più grande centro di traduzioni in tibetano di tutta la Cina. Ma oggi alcuni servizi di traduzioni sono stati soppressi. “I cinesi stanno per disfare quello che hanno costruito”, deplora un esponente dell’intellighenzia tibetana locale, consapevole di quello che è stato apportato alla cultura tibetana dalla sua apertura alla Cina e al mondo. Lo sgomento degli studenti tibetani gli ricorda un classico studiato nei manuali scolastici cinesi e tibetani. “L’ultima classe” di Alphonse Daudet. “Questo testo mi impressionò quando lo lessi e lo ricordo ancora oggi”, mi dice riferendosi a quel giorno del 1871 quando l’istruttore Hamel annuncia ai suoi allievi che “l’ordine venuto da Berlino è di non insegnare altro che il tedesco nelle scuole di Alsazia e Lorena”…
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