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25/07/2012

Il lento collasso dello Stato siriano trascina il Medio Oriente verso l’ignoto

A una settimana dall’attentato che ha parzialmente decapitato la cosiddetta “cellula di crisi” del regime siriano, si respira un clima da “crepuscolo degli dei” a Damasco e nella regione, dove molti si attendono la fine di Assad e della sua cerchia di potere. Quando ciò avverrà, il volto della regione non sarà più lo stesso.

Eppure non è ancora finita. Sebbene stia inesorabilmente perdendo terreno, il regime continua ad avere alcune carte da giocare. I recenti feroci scontri a Damasco sono solo il prologo di ciò che potrebbe accadere. Damasco è la posta decisiva. Il regime farà di tutto per difendere la sua capitale. E la ribellione armata non sembra ancora pronta per affrontare una simile battaglia.

A livello regionale ed internazionale la contrapposizione attorno alla crisi siriana – che essenzialmente vede Russia, Cina e Iran schierati contro Stati Uniti (ed alcuni paesi europei), Arabia Saudita, Qatar e Turchia – è più aspra che mai.

La recente decisione americana di sottoporre al Consiglio di Sicurezza una risoluzione che ponesse la crisi siriana sotto la giurisdizione del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (che implica l’eventuale uso della forza) ha rappresentato un’ulteriore escalation, e il conseguente veto russo-cinese ha determinato una nuova, grave spaccatura a livello internazionale.

Tutto ciò fa temere che anche dopo il crollo del regime – ormai probabile, ma con tempi tutt’altro che certi – non sarà affatto finita. Anzi, il peggio dovrà forse ancora venire. Sebbene la “guerra per procura” per il controllo della Siria abbia avuto fino a questo momento un impatto relativamente limitato sul terreno in termini di sostegno militare alle parti belligeranti, gli ingredienti per un’ulteriore inasprimento della crisi ci sono tutti.

La prima conseguenza è tragicamente ovvia: altri spargimenti di sangue, orrendi massacri, e terribili sofferenze per la popolazione siriana – in attesa di capire se il lento collasso del regime di Damasco, che sta inesorabilmente spingendo la Siria verso il baratro, trascinerà con sé anche i paesi limitrofi in una sanguinosa guerra settaria, e se la prospettiva di un attacco all’Iran (che si farà incombente il prossimo anno) porterà a una conflagrazione dell’intero Medio Oriente, mettendo potenzialmente a rischio le sorti del mondo.

L’unico modo per scongiurare simili scenari catastrofici potrebbe essere uno sforzo internazionale per disinnescare un’ulteriore escalation, isolando la Siria da ogni ulteriore influsso esterno. L’esito della crisi siriana, qualunque esso sia, non deve essere il prologo per nuovi regolamenti di conti nella regione, e non deve rappresentare una tentazione per ridisegnare ulteriormente gli equilibri mediorientali.

Le forze che la crisi siriana ha scatenato a livello regionale destano preoccupazione, la quantità degli attori coinvolti, le ambizioni che essi nutrono e le minacce “esistenziali” da essi percepite, sono allarmanti. Ogni tentativo di “internazionalizzare” ulteriormente la crisi, in assenza di una reale volontà negoziale, avrà conseguenze disastrose.

SHAWKAT, CONTROVERSO PILASTRO DEL REGIME

Prima di fare un tentativo di descrivere gli ultimi sviluppi in Siria, è bene sottolineare che nessuno sa con certezza cosa stia accadendo nel paese, tenuto conto della campagna di propaganda e disinformazione senza precedenti condotta da tutte le parti coinvolte (senza eccezione), della quasi totale assenza di giornalisti sul terreno, e della segretezza e opacità del regime di Damasco.

L’attentato che la scorsa settimana ha colpito il cuore stesso del regime è esemplare di questa situazione. In esso sono rimasti uccisi il ministro della difesa Dawoud Rajha (cristiano), il suo vice Assef Shawkat (alawita), il consigliere del presidente Hassan Turkmani (sunnita), e – in un secondo momento – il capo della Sicurezza Nazionale Hisham Ikhtiyar (sunnita), morto a seguito delle ferite riportate.

Si tratta di alcuni esponenti di spicco della cosiddetta “cellula di crisi” del governo siriano, responsabile della brutale repressione della rivolta – tutti stretti collaboratori del presidente Assad. Tuttavia la vera figura chiave è Assef Shawkat.

Cognato di Bashar al-Assad (avendone sposato la sorella maggiore Bushra), egli era divenuto uno dei pilastri della ristretta cerchia alawita che circonda il presidente. Ma la sua relazione con la famiglia Assad è stata tempestosa.

Si racconta che il fratello minore di Bashar, Maher, che guida la temuta e odiata Quarta divisione della Guardia Repubblicana, gli abbia addirittura sparato in occasione di un dissidio. Alcuni narrano anche di una velata rivalità fra Shawkat e lo stesso Bashar.

Tuttavia perfino i maggiori esperti di questioni siriane trovano difficile ricostruire con esattezza i rapporti all’interno di una cerchia familiare che si è sempre contraddistinta per la sua quasi totale chiusura al mondo esterno.

Quel che appare certo è il ruolo chiave giocato da Shawkat nell’oppressivo dominio siriano sul Libano, conclusosi con il ritiro del 2005, così come il suo infaticabile sostegno alla “resistenza” palestinese e libanese contro Israele. In particolare, egli fu determinante nell’assicurare appoggio militare e logistico a Hezbollah in quella che il segretario generale del gruppo, Hassan Nasrallah, definì la “vittoria divina” contro Israele nella guerra del 2006 in Libano.

Al pari di altri funzionari siriani di alto rango, Shawkat fu accusato da una Commissione investigativa dell’ONU di essere coinvolto nell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri, avvenuto nel febbraio del 2005.

La figura controversa di Shawkat però non si limita a questo. In qualità di perfetto rappresentante del regime siriano – un regime che, al di là della propria retorica panaraba e dello sforzo di proporsi come il “campione” della resistenza contro Israele, è sempre stato votato in primo luogo alla propria sopravvivenza – egli ha avuto anche stretti contatti con l’intelligence francese, e ha giocato un ruolo di primo piano nel rapporto con gli americani e nella gestione delle “extraordinary renditions” in terra siriana, in piena era Bush.

UN ATTENTATO AVVOLTO NEL MISTERO

Nessuno sa quale sia stata l’esatta dinamica dell’attentato in cui egli è rimasto ucciso, nel corso di una riunione della summenzionata “cellula di crisi”. Le versioni iniziali sono state contraddittorie: le voci che parlavano di un attentatore suicida hanno progressivamente lasciato il passo alla tesi di un ordigno posizionato nella sala della riunione. Ma tutto ciò che la stampa ha riferito in proposito è essenzialmente basato sulle dichiarazioni del regime e sulle rivendicazioni fatte da gruppi armati dell’opposizione.

Tali rivendicazioni sono state numerose: diverse brigate dell’Esercito Siriano Libero ed almeno un gruppo jihadista (Liwa al-Islam) si sono attribuiti il merito dell’operazione.

Le numerose illazioni che sono state fatte sull’attentato possono essere grossomodo ridotte a due ipotesi principali: la prima è che si sia trattato di una resa dei conti all’interno del regime stesso; la seconda è che sia stato effettivamente un attentato compiuto da qualche gruppo della ribellione armata, forse grazie a un supporto di intelligence da parte di servizi stranieri.

Coloro che sostengono la prima ipotesi hanno sottolineato la “strana” tempestività con cui il regime – solitamente noto per la sua propaganda da un lato, e la sua segretezza dall’altro – ha reso pubblica la notizia, sebbene l’attentato abbia rappresentato un duro colpo per la sua autorità e il suo prestigio, per di più in un momento in cui era in atto una pericolosa offensiva dei ribelli a Damasco.

I sostenitori della tesi della “resa dei conti interna” sottolineano come all’incontro tenutosi nella sede della Sicurezza Nazionale, nel cuore della zona più protetta di Damasco, fossero assenti (sempre in base alle notizie che sono “filtrate”), oltre che il presidente Assad e il fratello Maher, anche i capi dei principali servizi segreti: Jamil al-Hassan, capo dell’intelligence dell’aeronautica militare, Mohammed Dib Zaitoun, capo del Direttorato della sicurezza politica, Abdul Fattah Qudsieh, capo dell’intelligence militare, Ali Mamlouk, capo del Direttorato della sicurezza generale, e Hafez Makhlouf, capo della sezione di Damasco di tale Direttorato (e fratello del famoso uomo d’affari Rami Makhlouf).

Si tratta di una cerchia alawita (gli unici sunniti sono Mamlouk e Zaitoun) che rappresenta il vero “nocciolo duro” del regime.

Alcune tesi di coloro che propendono per la “resa dei conti interna” possono però anche essere ribaltate: se davvero si è trattato di un complotto interno, perché dare la notizia proprio in un momento così delicato, mentre la capitale stessa era sotto attacco da parte dei ribelli?

L’attentato può essere visto, infatti, anche come l’evento culminante di un’escalation attentamente studiata, che ha visto l’opposizione armata colpire per la prima volta Damasco in profondità.

Coloro che sostengono che si sia trattato di una brillante operazione condotta dai ribelli ritengono che l’attentato e l’offensiva militare siano stati due elementi strettamente coordinati, nell’ambito di una strategia volta a mettere in ginocchio il regime.

Il giornale al-Quds al-Arabi ha citato fonti secondo le quali l’ordigno sarebbe stato piazzato da un giovane impiegato, arruolato da servizi segreti stranieri, forse turchi o giordani. Altre fonti citate dal giornale puntano invece il dito su ambienti jihadisti affiliati ad al-Qaeda (senza escludere che tali ambienti possano a loro volta essere stati “aiutati” da servizi stranieri).

Ciò metterebbe in evidenza gravi inefficienze da parte dei servizi di sicurezza siriani. D’altra parte, come ha osservato il direttore del giornale Abdel Bari Atwan, tali servizi sono noti non solo per la loro condotta repressiva nei confronti della popolazione, ma anche per la loro corruzione e la facilità con cui sono penetrabili dall’esterno.

Atwan ha ricordato il loro umiliante fallimento in occasione dell’assassinio del comandante militare di Hezbollah Imad Mughniyeh, ucciso nel 2008 a Damasco probabilmente da un commando israeliano (fra l’altro, al centro di polemiche e indagini all’interno del regime siriano fu in quell’occasione proprio Shawkat, all’epoca uno dei principali responsabili della sicurezza).

SERVIZI DI INTELLIGENCE E GUERRE PER PROCURA

Comunque siano andate le cose riguardo all’attentato, che la Siria sia divenuta un campo di battaglia in cui si scontrano indirettamente forze regionali ed internazionali, ed in cui operano servizi segreti stranieri è certamente un fatto.

Armi e finanziamenti giungono ai ribelli da Arabia Saudita, Qatar e Turchia, e il Libano è una delle rotte principali di approvvigionamento (le altre passano per il confine turco, per quello iracheno, e in misura minore per quello giordano). Sebbene le armi pesanti, in particolare, abbiano tardato ad arrivare – anche per il timore che finissero nelle mani di gruppi estremisti – ultimamente diverse milizie siriane sono entrate in possesso di missili anti-tank, come testimoniato dai loro crescenti successi militari.

I ribelli siriani sono costituiti per la maggior parte da civili sunniti arruolatisi nelle milizie e da disertori dell’esercito. Tuttavia si sta registrando un crescente afflusso di combattenti stranieri, spesso di tendenze jihadiste radicali, che appartengono a gruppi frequentemente in competizione fra loro.

Al-Quds al-Arabi ha citato fonti della sicurezza giordana secondo le quali negli ultimi mesi sarebbero entrati in Siria oltre 6.000 combattenti “affiliati ad al-Qaeda”. Secondo fonti saudite citate dal giornale si sarebbero anche verificati scontri fra alcuni di questi combattenti e l’Esercito Siriano Libero. Se queste notizie venissero confermate, si tratterebbe certamente di dati allarmanti.

Sebbene gli Stati Uniti finora abbiano sempre affermato di fornire all’opposizione siriana solo materiale “non letale” (ad esempio per le comunicazioni), ultimamente sono giunte crescenti ammissioni da parte di funzionari americani riguardo a un consistente supporto di intelligence fornito da Washington ai ribelli, che certamente ha un immediato impatto sulle operazioni belliche.

Agenti della CIA operano da tempo dal confine turco. Fra gli obiettivi dell’intelligence americana vi è certamente quello di tentare di evitare che le armi inviate da altri paesi giungano in “mani indesiderate”, e di tenere sotto osservazione il temuto arsenale di armi chimiche del regime siriano; ma gli agenti americani hanno anche fornito preziose informazioni di intelligence ai militari turchi e giordani che operano in stretta collaborazione con i ribelli, e talvolta direttamente a gruppi dell’opposizione armata in Siria.

Naturalmente, vi è uno stretto coordinamento anche fra Washington e l’intelligence israeliana, che pure opera lungo i confini siriani.

Sull’altro fronte, Russia e Iran forniscono armi e supporto logistico e finanziario al regime di Damasco. E certamente il coinvolgimento nella crisi siriana delle forze filo-iraniane nella regione (in particolare di Hezbollah) è destinato ad aumentare nell’eventualità di un’ulteriore escalation del conflitto.

IL REGIME SIRIANO DISTRUGGE SE STESSO

Certamente fra gli obiettivi di americani, sauditi e qatarioti vi è quello di facilitare le diserzioni di alti ufficiali e alti funzionari nelle file dell’esercito e delle istituzioni siriane.

Le recenti defezioni del generale Manaf Tlass, figlio dell’ex ministro della difesa Mustafa Tlass e membro di una famiglia sunnita di spicco all’interno dell’élite fedele al regime, e di Nawaf Fares, ambasciatore del regime a Baghdad ed esponente di primo piano della tribù Oqaydat, la principale della Siria orientale (situata a cavallo del confine siro-iracheno), sono state probabilmente agevolate da servizi segreti stranieri (per Tlass si parla di un possibile coinvolgimento dei servizi francesi, mentre la fuga di Fares è stata gestita dal Qatar).

Ma il regime siriano deve incolpare prima di tutto se stesso per questi episodi.

Tlass era stato progressivamente emarginato dai vertici di Damasco poiché aveva mostrato di prediligere una “soluzione politica”, attraverso un negoziato con i ribelli. Nella rottura definitiva fra Tlass e il regime, un ruolo chiave è stato probabilmente giocato dalla repressione militare condotta dalle forze di sicurezza siriane a Rastan, città natale di Tlass e della sua famiglia.

Fares è invece uno di quei leader tribali che inizialmente avevano scelto di schierarsi dalla parte del regime, ed aveva armato la propria tribù contro le proteste antigovernative.

Le cose tuttavia cominciarono a cambiare quando la violenza del regime crebbe nella Siria orientale. Man mano che città e villaggi vennero trascinati nelle violenze, i legami clanici e tribali fecero sì che il fronte antiregime si estendesse progressivamente.

Questa dinamica è dovuta alle tattiche dei ribelli da un lato, ed alla brutale reazione del regime dall’altro: laddove i ribelli si infiltrano, le forze governative intervengono con estrema violenza, distruggendo i villaggi o i quartieri dove essi si sono annidati. Ciò ha l’inevitabile effetto di ingrossare le file di coloro che chiedono vendetta contro il governo.

Di fronte alla reazione rabbiosa della sua tribù a seguito dei combattimenti del mese scorso, che hanno provocato circa 350 vittime a Deir ez-Zor, Fares ha ritenuto opportuno abbandonare il regime per non apparire come un nemico agli occhi della propria gente.

Le defezioni di Tlass e Fares sono un campanello d’allarme che indica che la componente non alawita che appoggia il regime, rappresentata dall’èlite sunnita e dalle lealtà tribali, si sta erodendo.

Sebbene questo processo non sia ancora in una fase avanzata, soprattutto nell’esercito dove non si sono ancora registrate defezioni di interi battaglioni o di generali di alto rango (Tlass rappresenta infatti un’eccezione fino a questo momento, e la sua defezione ha rappresentato per certi versi una “delusione” per l’opposizione, perché egli non si è unito alle file dei ribelli), si tratta certamente di un segnale preoccupante per Damasco.

Se questo processo dovesse prendere piede, sarebbe fra l’altro destinato a inasprire la natura settaria del conflitto, poiché rafforzerebbe l’identità alawita del regime in contrapposizione alla maggioranza sunnita della popolazione.

DISINTEGRAZIONE DELLA SIRIA?

Il fatto che il governo siriano abbia richiamato truppe dal Golan e dal confine con l’Iraq, facendole convergere verso Damasco, sembra indicare che esso sia disposto a perdere il controllo sulle zone “periferiche” pur di mantenerlo sulla capitale.

Allo stesso tempo, ciò lascia presagire che il regime sia intenzionato a combattere fino alla fine. Il “nocciolo duro” alawita sopravvissuto all’attentato della scorsa settimana rappresenta senza dubbio la sua ala più intransigente; i suoi esponenti, che hanno tutti sostenuto la repressione, sono uniti dallo stesso destino. Difficilmente alcuni potranno sperare di sopravvivere a scapito di altri.

La battaglia per il controllo di Damasco sarà decisiva (anche se il suo momento probabilmente non è ancora giunto). Se dovesse perdere la capitale, all’élite alawita non resterebbe che cercare rifugio nelle montagne lungo la fascia costiera nordoccidentale del paese, storicamente roccaforte della minoranza alawita.

Ma la regione alawita non è etnicamente omogenea, presentando al suo interno diverse sacche di popolazione sunnita. Un ritiro degli alawiti nel nordovest potrebbe dunque portare a orrendi massacri di pulizia etnica.

Alcuni analisti tendono a scartare questa ipotesi, affermando che una volta persa Damasco il regime alawita sarebbe finito, non potendo puntare sulla creazione di uno staterello alawita che di fatto non sarebbe in grado di sopravvivere.

Tuttavia uno scenario in cui gli alawiti si arrocchino nella loro regione non è da escludersi a priori, soprattutto nel possibile contesto di una totale disintegrazione dello Stato siriano, in cui si tratterebbe di sopravvivere alle vendette della popolazione sunnita (finora vittima dei massacri commessi dalle milizie alawite) prima ancora di pensare alla costruzione di un proprio Stato.

Lo scenario di una totale disintegrazione delle strutture statali, del resto, non appare troppo fantasioso se si guarda a quanto sta accadendo nella regione curda, che il regime sembra aver abbandonato a se stessa.

 Il Consiglio Nazionale Curdo (KNC), che rappresenta i principali partiti curdi in Siria, e il Partito dell’Unione Democratica (PYD), braccio politico del Partito del Lavoratori del Kurdistan (PKK), hanno firmato un accordo di condivisione del potere che di fatto crea una sorta di regione autonoma curda in Siria.

L’accordo è stato “benedetto” dal presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani a Erbil.

Questo risultato – che rappresenta fra l’altro un fallimento dell’opposizione rappresentata dal Consiglio Nazionale Siriano (CNS), essendo la conseguenza della sua incapacità di accogliere le richieste curde – prefigura la nascita di una nuova entità politica con cui si dovranno confrontare i ribelli a maggioranza sunnita qualora dovessero avere la meglio sul regime dominato dalla minoranza alawita.

IMPREVEDIBILI RIPERCUSSIONI REGIONALI

Ciò a sua volta solleva lo spettro della nascita di uno Stato curdo autonomo, o comunque di un’enclave che rappresenterebbe un rifugio sicuro per il PKK, considerato dai turchi un’organizzazione terroristica – una situazione inaccettabile per Ankara.

Questa è solo la prima di una serie di ripercussioni dagli esiti imprevedibili che il crollo del regime siriano potrebbe determinare.

L’infiltrazione di elementi jihadisti in Siria, ad esempio, fa temere Tel Aviv che le alture del Golan possano diventare un trampolino per lanciare attacchi contro Israele.

Il crollo del regime porrebbe poi il problema della “messa in sicurezza” delle armi chimiche di cui esso dispone, e Israele ha già minacciato un intervento militare qualora si prefiguri il rischio che queste armi cadano in mano a gruppi qaedisti o vengano trasferite a Hezbollah in Libano.

Per altro verso, la probabile caduta di Assad rappresenta una minaccia esistenziale per Hezbollah (poiché lo separerebbe dalla retrovia iraniana), così come potrebbe far esplodere le tensioni settarie nel vicino paese dei cedri.

Anche dopo il crollo del regime, è del tutto plausibile che le ingerenze straniere in Siria proseguiranno, da parte degli stessi attori attualmente coinvolti – primi fra tutti iraniani e sauditi. In un simile contesto risulterà pressoché impossibile sanare le ferite e le tensioni esistenti fra la maggioranza araba sunnita e le minoranze alawita, cristiana e curda – anche se lo Stato siriano dovesse rimanere nominalmente unitario.

L’affermazione dell’ambasciatore americano all’ONU Susan Rice che il Consiglio di Sicurezza “ha totalmente fallito”, e che Washington intensificherà i propri sforzi “al di fuori del Consiglio di Sicurezza” per costringere Assad alla resa, rappresenta un altro durissimo colpo alla legittimità dell’ONU, e lascia presagire un ulteriore inasprimento della “guerra fredda” attualmente in corso fra le grandi potenze attorno alla Siria.

Questa impressione non può che essere rafforzata dalle dure reazioni di Mosca e Pechino alla presa di posizione della Rice.

L’agenzia ufficiale cinese Xinhua ha dichiarato che i diplomatici occidentali “hanno mostrato arroganza ed inflessibilità” nei negoziati, determinando il loro fallimento. Il portavoce del ministero degli esteri russo ha definito i commenti della Rice “un segnale molto allarmante”.

Ben più dure erano state alcune settimane fa le dichiarazioni del presidente russo Putin, il quale aveva accusato senza mezzi termini l’Occidente di voler esercitare la propria influenza nel mondo arabo esportando la “democrazia dei missili e delle bombe”.

Se a questa durissima contrapposizione internazionale, e all’allarmante situazione all’interno della Siria, si aggiunge il fatto che nessuno conosce realmente le diverse componenti dell’opposizione siriana nel paese, che essa è frammentata al suo interno in una miriade di fazioni in competizione fra loro, e che l’appoggio di Washington nei suoi confronti difficilmente si tradurrà in una reale capacità di influenzarne le decisioni, allora si comprende come l’affermazione di alcuni analisti americani, secondo cui Washington starebbe puntando a una “demolizione controllata” del regime di Damasco, rischi di rivelarsi una tragica illusione.

Come ha affermato più onestamente Marina Ottaway, del Carnegie Endowment for International Peace di Washington, “non abbiamo la più pallida idea di ciò che accadrà”.

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