http://www.repubblica.it
06 maggio 2012

Con gli osservatori dell'Onu nella tregua "armata" della Siria
di Alberto Stabile

ZABADANI (SIRIA)  -  La prima cosa che stupisce è il contrasto violento tra la dolcezza della campagna e l'invadente presenza delle armi. La strada che da Damasco conduce in questa valle  quasi al confine con il Libano è un susseguirsi di frutteti, pinete, giardini lussureggianti fra i quali si ergono ville sontuose. Eppure, in questa specie di eden nascosto da montagne scoscese, tra gennaio e febbraio s'è combattuta una delle battaglie più sanguinose che hanno scandito la rivolta contro il regime di Bashar el Assad. Uno scontro che la tregua proposta a metà aprile da Kofi Annan, e accettata dalle parti, ha messo per ora tra parentesi, ma che potrebbe riesplodere in ogni momento.

Ed eccoli i caschi blu delle Nazioni Unite venuti a verificare la tenuta del cessate il fuoco e a indagare sulle molte violazioni denunciate da una parte e dall'altra. In tutta la Siria sono 70 i caschi blu impegnati in questa missione. A fine mese dovrebbero arrivare a 300. Quelli diretti, oggi, a Zabadani sono cinque militari e un'interprete civile. Li comanda un ufficiale belga. A far da portavoce è un maggiore della marina brasiliana, Alejandro Fejtosa. E in omaggio alla trasparenza imposta dal piano Annan, i caschi blu hanno ottenuto dalle autorità siriane l'accesso a un certo numero di giornalisti accreditati.

Il loro lavoro si può riassumere come un'indagine in diretta, sul terreno. Prendono contatto con la popolazione civile. Ascoltano testimonianze, racconti, denunce e vanno subito a controllare, fotografare, descrivere per finire con un rapporto dettagliato. Si parte da Madaya, un paesino arroccato sotto una rocca spiovente, circondato da posti di blocco munitissimi e postazioni dell'esercito. Qui a gennaio-febbraio ci sono stati 37 morti. Ma non è finita. "Kullu tamam?", tutto bene, chiedo in arabo a uno dei giovani che si sono schierati sul marciapiede della piazza in attesa degli "osservatori" della Nazioni Unite. "Macché tamam  -  risponde Badar, t-shirt nera e lunga barba nera alla maniera degli integralisti sunniti, detti anche salafiti - Tutta la notte bun-bum. Tutta la notte bum-bum", risponde in un inglese stentato, onomatopeico. Spiega, come può, che dalla rocca sparano sulle case e sulle strade. Chi? "Cecchini dell'esercito. Mercenari. Iraniani. Tutti quelli che sono contro noi sunniti".

Le accuse volano, pesanti e controllabili, nella piazza di Medaya. "Otto donne sono state arrestate dai soldati (lealisti). Le hanno fatte scendere giù da un taxi collettivo e se le sono portate via", dice un'anziana in abito tradizionale. "Abbiamo solo fede in Dio, solo in Dio" ripete, alzando il dito indice al cielo. Abu Samer, 50 anni, s'avvicina al gruppo dei cornisti. "Noi non ce l'abbiamo con l'Occidente. Ce l'abbiamo con i paesi arabi. Questo è un problema arabo" e dietro la sua perorazione s'intravede una frecciata all'Arabia Saudita. Poi, con un gesto teatrale si si scopre una gamba e fa vedere una cicatrice scura. "I soldati mi hanno sparato sopra il ginocchio, a febbraio, ma da tre mesi non riesco a togliermi questa pallottola", perché, c'è da supporre,  teme che se se si ricovera in ospedale verrà arrestato. "E tutto questo perché? Per aver chiesto libertà".

I caschi blu partono verso l'ingresso di Medaya, dove accanto ad un palazzetto civile requisito e trasformato in comando militare c'è un mezzo corazzato coperto da un telo mimetico. Ne vedremo molti durante questo viaggio, di mezzi blindati come questo, molto datato, di costruzione sovietica, tecnicamente un APC (armored personal carrier) concepito per trasportare truppe sui campi di battaglia. Ma con una particolarità: vi si può innestare un cannone e trasformarlo in un mezzo decisamente offensivo. E questo, dice il maggiore Feitosa è una violazione della risoluzione sulla tregua, la quale impone all'esercito di Damasco di ritirare tutti i mezzi corazzati dai centri abitati.

Nel clima incandescente di Medaya nessuno parla delle elezioni politiche fissate per il 7 maggio e volute da Bashar el Assad come secondo passo ( il primo è stato il referendum sulla nuova costituzione) di quel piano di riforme che, secondo il Rais, dovrebbe traghettare la Siria verso un sistema democratico  pluralista.

Ma sui muri di Zabadani, soltanto qualche chilometro da Medaya, al posto delle foto dei candidati  spiccano i ritratti fotocopiati in bianco e nero dei "martiri", i 45 ribelli uccisi dalle truppe lealiste durante gli scontri invernali.

Il giovane capitano che dichiara soltanto i suoi anni, 30, ma non vuole dire il suo nome, ha quasi un moto di stizza quando gli chiediamo se le vittime fossero solo dei dimostranti. "Erano criminali, terroristi, contrabbandieri che terrorizzavano la popolazione civile, impedivano agli studenti di andare a scuola, sequestravano, interrogavano e uccidevano. Attaccavano i servizi pubblici. Altro che dimostranti!". Parla del Libero Esercito Siriano, la formazione militare dell'opposizione composta da disertori dell'esercito regolare ed altri gruppi armati, alcuni dei quali, si sospetta, provenienti da paesi vicini. Dice che erano 1500, nascosti sulle montagne. "Comunque ne sono morti di più fra i miei uomini...", assicura, appoggiandosi al blindato che i caschi blu hanno ispezionato dentro e fuori stabilendo che, nonostante la giustificazione ufficiale che serva a proteggere i soldati dagli attacchi della guerriglia, rappresenta anche questo una "violazione".

top