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Un popolo tra due fuochi
Da una parte le ultime truppe fedeli a Bashar al-Assad, dall'altra gli insorti, ferventi sunniti e tentati dall'integralismo islamico. In mezzo, la società civile siriana, e in particolare la minoranza cristiana, che rischiano di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro in questa nuova, sanguinosa, Primavera araba. Melchiti, armeni, maroniti, caldei, siriaci, latini. Come in altre nazioni del Medio Oriente, anche in Siria i cattolici sono un mosaico di riti. Caratteristica che riproduce, su scala ridotta, la fisionomia della più ampia componente cristiana nella quale predominano, dal punto di vista numerico, i membri delle Chiese ortodosse. Appartenenze che però in queste società non hanno confini invalicabili. Qui le minoranze hanno l'esigenza di non farsi assimilare dalla maggioranza: anche i cristiani, quindi, scoraggiano il matrimonio dei propri membri con i musulmani, ma le famiglie composte da battezzati di Chiese diverse sono un fenomeno comune, che alimenta una sorta di ecumenismo della quotidianità, poco interessato alle differenze teologiche ed ecclesiologiche. Su 22 milioni e mezzo di siriani, i musulmani sunniti sono poco meno dell'80 per cento.Gli alawiti gruppo musulmano di area sciita, e quindi filoiraniano, a cui appartiene anche il clan del presidente Bashar al-Assad raggiungono l'11 per cento. I cristiani sono all'incirca uno su 10 e quindi, complessivamente, poco più di 2 milioni. Queste le cifre ufficiali, ma anche tra gli ecclesiastici c'è chi le ridimensiona: i battezzati sarebbero non più di un milione, incluse le piccole comunità protestanti che hanno messo radici nel Paese solo nell'ultimo secolo. Tre patriarcati hanno sede in Siria, due ortodossi (il greco e il siriaco) e il cattolico greco-melchita, sulla cui cattedra siede il 78enne Gregorio III Laham, che è anche presidente della Conferenza episcopale nazionale. La comunità melchita in Siria si articola in cinque circoscrizioni ecclesiastiche, alle quali fanno capo 175 mila fedeli (o forse 235 mila). Meno numerosi gli altri cattolici: i maroniti (60 mila) hanno in Siria tre circoscrizioni: Damasco, Aleppo e Lattachia; gli armeni (26 mila) altrettante: Damasco, Aleppo e Kamichlié; i siriaci (64 mila) ne contano quattro: Damasco, Aleppo, Homs e Hassaké-Nisibi. I fedeli di rito caldeo (30 mila) fanno capo all'eparchia di Aleppo. Città nella quale ha sede anche l'unico vicariato apostolico dei latini, che sono circa 13 mila. Della loro cura pastorale si occupano soprattutto i frati minori della Custodia di Terra Santa. La crisi siriana, iniziata con le proteste del marzo 2011, ha spiazzato le Chiese locali, che avrebbero preferito un percorso diverso e ordinato, fatto di dialogo politico e riforme. Invece, come tutti i connazionali che subiscono la situazione, sono costrette ad assistere a massacri, mistificazioni, scorribande di criminali comuni. Si è scritto, o lasciato intendere, che le gerarchie cattoliche siano marcatamente su posizioni filogovernative perché sottoposte a ricatto da parte del regime o forse perché timorose dei frutti di questa insanguinata «Primavera siriana », e del possibile avvento di un regime islamista poco sensibile ai diritti delle minoranze. Ma ancora il 16 luglio scorso il patriarca Laham ribadiva puntigliosamente la posizione ufficiale con un vademecum in 24 punti consegnato alla stampa nazionale e internazionale. Nel testo il Patriarca denuncia e respinge una campagna di denigrazione «contro i pastori delle Chiese in Siria e contro le loro prese di posizione». Icristiani rappresentano l'anello debole, osserva il presidente dell'episcopato cattolico: «Privi di difese, sono la parte più esposta allo sfruttamento, all'estorsione, ai rapimenti, alle sevizie e anche all'eliminazione (fisica). Ma sono pure la parte pacificatrice, non armata, quella che fa appello al dialogo, alla riconciliazione, alla pace e all'unità tra tutti i figli e le figlie dell'unica patria». E tuttavia l'idea di un conflitto islamo-cristiano in corso viene respinta: «I cristiani non sono presi a bersaglio in quanto tali, ma sono tra le vittime del caos e della mancanza di sicurezza». Oggi, scrive Laham, «il maggior pericolo è l'ingerenza di elementi stranieri, arabi od occidentali. Un'ingerenza che si traduce in armi, denaro, mezzi di comunicazione a senso unico, programmate e sovversive» . La Chiesa ha appoggiato il piano di pace proposto da Kofi Annan, a nome di Onu e Lega araba, e sostenuto i cristiani impegnati con altri connazionali in movimenti non violenti come il Mussalah («Riconciliazione»). Sino all'ultimo ha continuato a invocare perdono e impegno comune per il bene del Paese. Quando finalmente le armi taceranno, tutto un popolo dovrà ripartire da lì.
settembre 2102
Padre Dall'Oglio la Siria si salva solo con la politica di Vittoria Prisciandaro
Matrudzaalan: esiliato e amareggiato. Il nuovo indirizzo mail di padre Paolo Dall'Oglio racconta in arabo lo stato d'animo del gesuita espulso dalla Siria. Mentre la guerra civile infuria e le ore del regime di Bashar al- Assad sembrano contate, Dall'Oglio è in giro per il mondo a raccontare le speranze «dei giovani siriani, che chiedono libertà e democrazia». Il gesuita, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, ha lasciato la Siria il 12 giugno, dopo oltre trent'anni. Minacciato di espulsione nel mese di novembre, era riuscito a restare mantenendo un «basso profilo», evitando dichiarazioni pubbliche contrarie al regime, pur non interrompendo la sua attività a favore della pace e la sua denuncia delle violenze, come testimonia la lettera aperta del 23 maggio a Kofi Annan, inviato speciale dell'Onu in Siria. Poi la partenza, in obbedienza alle autorità ecclesiastiche del Paese, cui il Governo si era rivolto. Il monastero, che è rimasto aperto e continua la sua vita di ospitalità e preghiera, è stato saccheggiato agli inizi di agosto. «Hanno rubato tutto il gregge delle capre, il trattore e altri strumenti di lavoro. Non ci sono stati feriti, ma soprattutto tra gli impiegati c'è tanta paura. La situazione è fuori controllo», dice il gesuita. Di passaggio in Italia, Dall'Oglio si prepara a iniziare una nuova avventura in Iraq, nell'eparchia caldea di Kirkuk, a Sulemaniya, dove nella chiesa dedicata alla Vergine Maria sta nascendo una nuova comunità monastica della stessa confederazione di Mar Musa, intitolata ad Al Khalil, «Abramo, l'amico di Dio». Dall'eremo nel deserto siriano al Kurdistan, passando però prima per Roma, Parigi, gli Usa, a raccontare cosa succede nel Paese dove si era incardinato come prete, nella Chiesa siriaco-cattolica. Tavole rotonde, interviste, conferenze, quasi sempre allo stesso tavolo di membri dell'opposizione in esilio. «Mi accusano di fare politica», dice il gesuita. «Non pretendo di conoscere tutto, ma ci sono dei fatti che vanno raccontati». La situazione spiega è che esiste una «menzogna di Stato organizzata, sistematicamente, che si contrappone agli eventi con un'interpretazione che produce negli osservatori la sensazione che la verità non si possa conoscere. C'è stato un nuovo fenomeno straordinario che ha ri-dinamizzato i nostri Paesi: la Primavera, l'espressione del malcontento soprattutto giovanile, ha trovato una eco internazionale e un incoraggiamento sufficiente a produrre il cambiamento. In passato le persone in grado di organizzarsi come opposizione non violenta erano una manciata e finivano in galera per mesi o anni. Tutti i regimi contestati erano organizzati sulla violazione dei diritti fondamentali delle persone, soprattutto il rispetto della libertà di espressione e di opinione». Sul conflitto in atto ci sono interpretazioni diverse. Lei cosa pensa? «Il punto è che qui c'è un'emergenza umanitaria, la gente viene arrestata e torturata, le persone sono vittime di violenza di Stato e di repressione sistematica, le città vengono bombardate, distrutte, abbiamo milioni di sfollati, fuori o all'interno del Paese, per non dire della guerra civile, nelle zone in cui sono confrontati direttamente gli alawiti sciiti e i sunniti, e i cristiani sono coinvolti o ci vanno di mezzo. I giovani siriani chiedono libertà e democrazia. Come fa la Chiesa a non assisterli in questa richiesta? Questo movimento di massa, che all'inizio era di emancipazione civile, si è presto colorato islamicamente. E questo è naturale che avvenga laddove la maggioranza delle persone mantiene l'elemento dell'appartenenza religiosa islamica come decisivo per la propria autocoscienza e identità». Proprio la coloritura islamica del movimento ha creato molte preoccupazioni, anche nelle minoranze cristiane. Lei non pensa ci possano essere dei problemi? «Chi vuole ridurre questa grande novità propugna la teoria del complotto internazionale, dove americani, francesi, israeliani sionisti, qatarini, sauditi e terroristi islamici farebbero tutti parte di un solo disegno volto a destabilizzare l'eroico regime siriano, ultimo resistente contro l'impero globale americano-giudaico. Questa teoria si appoggia pure su qualche fatto storico, ma di fatto è menzognera, si basa su una sovrastruttura ideologica a protezione di una struttura di natura dittatoriale, addirittura mafiosa, e che quindi non soffre di nessuno scrupolo ideologico. Così molti, anche cristiani, pensano: meglio tenersi il complesso autoritario che ha esercitato l'autorità in Siria per quarant'anni e che garantisce un certo ordine, che passare nelle mani dei musulmani fondamentalisti, che non sono democratici». Molti cristiani quindi hanno paura e lo hanno raccontato anche a media autorevoli del mondo cattolico... «Molti cristiani sono legati al regime, altri sono oppositori o passivi o indifferenti. I pastori sono sempre stati considerati dalla struttura di regime come un elemento per la costruzione e il mantenimento del consenso attraverso la gestione, il controllo diretto o la censura esercitata sui leader. Oggi un settore importante della minoranza cristiana è intimorito dalla prospettiva di una vittoria della maggioranza sunnita, da una islamizzazione, e questo è un motivo per schierarsi con il regime. La repressione è vista come una necessità assoluta per evitare la dittatura musulmana. In questo senso sono stati utilizzati e hanno passato informazioni di regime, anche attraverso i media cristiani. C'è un complotto mediatico che riesce a gestire e inquinare l'informazione. In campo cristiano le predisposizioni islamofobiche rendono molti vittime dell'interpretazione data dal Governo siriano. E l'islamofobia finisce con il giustificare la repressione fatta dal regime. Per esempio ci sono religiosi che si sono prestati sistematicamente a riecheggiare le tesi collaborazioniste e repressive dello Stato. Non ci sarebbe nessuna rivoluzione, ma soltanto la lotta al terrorismo del presidente Bashar al-Assad: un'interpretazione che è il tradimento della lotta per la libertà del popolo siriano e un insulto al sangue versato dai martiri». Un domani un Governo islamico che tipo di politica potrebbe avere? «Più si stagna in questa fase, più la si prolunga in modo insopportabile, più si dà spazio ai gruppi islamici estremisti». Che cosa teme a questo punto? «La mia impressione è che nell'agenda del regime ci fossero come delle fasi di un progetto preciso. Ora che si rendono conto che la fase uno, la repressione per riprendere in mano il Paese, è fallita, stanno passando alla fase due. Vogliono distruggere il più possibile, al fine di indebolire quella che sarà la Siria del futuro. Perché o gli alawiti si arrendono o faranno una secessione a ovest del fiume Oronte. E avendo distrutto il Paese, lasceranno i siriani a leccarsi le ferite e con l'appoggio dell'Iran e della Russia si stabilizzeranno in una regione autonoma, diciamo una Siria occidentale, dove potranno contare su risorse di gas e petrolio off-shore e sulla vendita dell'acqua. E questo avrebbe un effetto domino sul Libano e l'Iraq per lo meno». Molti si interrogano sull'opposizione al regime che un domani dovrebbe prendere il potere. Lei sta spesso incontrando gli oppositori all'estero. Che idea se n'è fatto? Su cosa e su chi puntare per il futuro della Siria? «Si accusa da molte parti l'opposizione siriana di essere divisa e inaffidabile. A me pare che il fatto che sia multipartitica sia già un annunzio di futuro pluralista e democratico. Sicuramente manca la capacità di prendere delle posizioni manifestando sì delle esigenze particolari, ma in modo inclusivo e capace di negoziato e di sintesi. La politica siriana soffre d'un passato ideologico e settario. La rivoluzione è stata iniziata dalla minoranza liberale e garantista. L'opposizione interna "classica" comunista, nazionalista, libertaria e pro diritti umani si è immediatamente sintonizzata con il movimento. Subito sono scesi in campo i musulmani delle città periferiche che manifestano i disagi sociali più pesanti. I Fratelli musulmani hanno in gran parte ripreso la rivoluzione a loro conto sulla base della loro capacità di finanziarla e armarla dall'esterno anche con l'appoggio turco. A essi si uniscono le formazioni di partigiani jihadisti legati ai finanziatori del Golfo e dell'Arabia Saudita. Sono questi che sono chiamati generalmente salafiti e che spesso si confondono nei media con i "takfiriti" (coloro che scomunicano gli altri musulmani giustificando così una forma violenta ed estrema di lotta intestina) di area al-Qaeda. In effetti i salafiti sono diversificati e non immediatamente assimilabili all'estremismo terrorista. Nella misura in cui, nel dopo rivoluzione, la stragrande maggioranza dei cittadini siriani sarà riorganizzata su base democratica consensuale, i salafiti non potranno che evolvere insieme con la società civile musulmana, che è plurale e coinvolge anche la presenza dei cristiani locali e di altri gruppi. Invece i giovani terroristi, al pari dei miliziani per altro, rappresenteranno un problema duraturo d'ordine pubblico e si dovrà combinare la capacità di riabilitazione civile con l'efficacia garantista delle forze dell'ordine rinnovate. Certo, più si va avanti con questo andazzo irresponsabile da parte della collettività internazionale, più si favorisce la rissa estremista». Più volte Benedetto XVI è intervenuto sulla tragedia della Siria. Quale potrebbe essere il ruolo delle Chiese e della comunità internazionale? «Credo che il lavoro diplomatico della Santa Sede si debba sposare con uno sforzo ecumenico. Penso al ruolo importante che gli ortodossi potrebbero per esempio avere con il patriarcato di Mosca. In passato ho chiesto che il Brasile svolgesse un ruolo decisivo nell'offrire dei caschi blu, che sarebbero stati accettati da tutti per vari motivi: ci sono milioni di siriani in Brasile e poi il Brasile è su una posizione antimperialista, quindi sarebbe culturalmente diverso dai caschi blu francesi o di forze Nato. Bisogna restituire la parola alla politica, alle manifestazioni, alla libertà d'opinione. Proprio chi ha paura dell'islam deve restituire la parola alla gente che chiede libertà e democrazia. Dunque, caschi blu nelle zone di guerra civile e poi non 300 ma 30 mila osservatori Onu, che vengano ad assistere la società civile siriana affinché emerga come forza di maturazione democratica». Lei lascia una Siria in fiamme per stabilirsi in una regione non meno complicata. Il vescovo di Kirkuk, monsignor Louis Sako, in riferimento alla visita che lei ha fatto il 24 giugno, ha avuto parole di elogio per la sua scelta: «L'arcidiocesi e i suoi fedeli hanno accolto con gioia l'arrivo di padre Dall'Oglio, al quale ho ricordato che se gli uomini gli hanno chiuso una porta il Signore gliene ha aperta un'altra in Kurdistan». Come legge la situazione del Kurdistan nel contesto mediorientale? «Una comunità Al-Khalil è in via di fondazione con un paio di monaci a Sulemaniya, nel Kurdistan iracheno, nell'eparchia caldea di Kirkuk. E il primo incontro lì in giugno mi ha reso più sensibile alla questione curda. La crisi siriana può spingere i curdi a profittare dell'occasione con un rischio di secessione nella zona del Nord- Est del Paese (la Jezira). Penso che gli sforzi diplomatici vadano indirizzati ad accogliere e riassorbire le aspettative curde concedendo un'autonomia regionale e riconoscendo le specificità culturali delle grandi comunità curde presenti principalmente ad Aleppo e a Damasco. Nel contempo, occorre invitarli a rendersi partecipi della grande ecumene araba, di cui sono stati importanti protagonisti nella storia passata. Non vedo un unico Kurdistan, ma una confederazione di "Kurdistan", nelle diverse regioni autonome nei singoli Paesi. Se un domani la Turchia dovesse entrare in Europa, converrebbe anche ai curdi essere dentro come regione autonoma».
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