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Ecco Perché il Qatar Vuole Invadere la Siria L’Emiro del Qatar sta cavalcando l’onda del successo, statene pur certi. Che entrata in scena all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York! Lo sceicco Hamad bin Khalifa al Thani (nella foto) ha richiesto nientepopodimeno che una coalizione araba “disposta” a invadere la Siria. Secondo l’emiro, “è meglio che ad intervenire nei loro doveri nazionali, umanitari, politici e militari siano i Paesi arabi stessi, che devono adoperarsi per metter fine allo spargimento di sangue in Siria”. Inoltre, ha sottolineato il fatto che i Paesi arabi hanno il “dovere militare” di invadere la Siria. Stando all’emiro, i “Paesi arabi” sono le petromonarchie del Club Contro-Rivoluzionario del Golfo (CCG), precedentemente conosciuto anche come Consiglio di Cooperazione del Golfo, più il tacito aiuto della Turchia, la quale dispone di un accordo strategico ad ampio raggio col CCG. In ogni narghilè bar in Medio Oriente si sa che Doha, Riyad e Ankara stanno fornendo armi, finanziamenti e aiuto logistico alle diverse frange dell’opposizione armata siriana impegnata nel cambio di regime. L’emiro ha anche citato un “precedente simile” di questo tipo d’invasione, ossia quando le “forze arabe sono intervenute in Libano” negli anni Settanta. Tra parentesi, negli anni Settanta, l’emiro stesso prese parte ad interventi più mondani per quasi tutto il corso del decennio, come mettersi a proprio agio in destinazioni esclusive del Club Med con gli altri membri delle famiglie reali del Golfo, come testimonia questa fotografia (l’emiro è quello a sinistra). Ma adesso, quindi, l’emiro sta propugnando una versione araba della R2P (“responsabilità di proteggere”), dottrina proposta dalle Tre Grazie dell’Intervento Umanitario (Hillary Clinton, Susan Rice e Samantha Power)? Senz’altro, questa sarà accolta a braccia aperte da Washington, per non parlare di Ankara o addirittura di Parigi, dato che il presidente francese François Hollande ha appena richiesto all’ONU di proteggere le zone “liberate” in Siria. Il precedente libanese dell’emiro non è esattamente edificante, e questo è un eufemismo. La cosiddetta Forza Araba di Dissuasione, forte dei suoi 20.000 uomini, s’introdusse in Libano per tentare di arginare la guerra civile, abusando dell’ospitalità libanese per niente meno che sette anni. L’intervento militare si trasformò in un’occupazione del nord del Libano da parte dell’esercito siriano. Le forze armate lasciarono ufficialmente il territorio nel 1982, mentre la guerra civile continuava a imperversare. Ecco, immaginatevi uno scenario simile per la Siria, e pompatelo con gli steroidi. “Un tipo abbastanza influente” Riguardo l’ardore umanitario per non menzionare quello democratico dell’emiro, leggere il pensiero del presidente degli Stati Uniti Barack Obama è illuminante: egli definisce l’emiro come un “tipo abbastanza influente”. Sembra quasi che Obama affermi implicitamente che non sia così urgente provvedere ad una maggior democrazia, sebbene “l’emiro non stia introducendo riforme significative” e che “non si siano fatti passi avanti nella democratizzazione del Qatar” solo perché il reddito procapite nell’emirato è gigantesco. Quindi, possiamo supporre che l’emiro non sia affatto interessato a trasformare la Siria nella Scandinavia. Questo ragionamento apre la strada ad un movente ineluttabile e legato al Pipelineistan. E a cos’altro, sennò? Attualmente, Vijay Prashad, autore della recente pubblicazione Arab Spring, Libyan Winter (N.d.T.: Primavera araba, inverno libico), cura una serie di articoli sul gruppo di contatto sulla Siria per la rivista Asia Times Online. Prashad ha ricevuto una chiamata telefonica da parte di un esperto di energia, che lo ha spronato ad indagare circa “l’ambizione del Qatar di realizzare una serie di gasdotti fino ad arrivare in Europa”. Secondo questa fonte, “il percorso proposto avrebbe attraversato i territori di Iraq e Turchia. Il primo paese di transito rappresenta un problema. È molto più semplice passare da nord (e il Qatar ha già assicurato gas gratuito alla Giordania).” Anche prima che Prashad terminasse l’indagine, era ovvio a cosa puntasse il Qatar: schiacciare il progetto del gasdotto da 10 miliardi di dollari che attraverserebbe Iran, Iraq e Siria, un affare concluso nonostante la rivolta siriana fosse già in fieri. Ecco che il Qatar ci appare in veste di concorrente diretto sia con l’Iran (in quanto produttore) che con la Siria (in quanto destinazione), e ad un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di transito). Inoltre, è utile ricordare l’opposizione categorica di Teheran e Baghdad ad un cambio di regime a Damasco. Il gas proverrebbe dalla stessa base geografica e geologica: il South Pars, il più grande giacimento di gas al mondo che Iran e Qatar si spartiscono. Il gasdotto in Iran, Iraq e Siria se mai sarà costruito consoliderebbe un asse prevalentemente sciita tramite un cordone ombelicale economico d’acciaio. D’altro canto, il Qatar preferirebbe costruire il suo gasdotto in una disposizione diversa dallo stile della “mezzaluna sciita” e con la Giordania come destinazione. Le esportazioni passerebbero dal Golfo di Aqaba al Golfo di Suez, per poi raggiungere il Mediterraneo. Un piano B che non fa una piega in un momento in cui i negoziati con Baghdad sono sempre più complicati (senza contare che il percorso attraverso Iraq e Turchia è nettamente più lungo). Washington e presumibilmente i clienti europei sarebbero più che soddisfatti di sfruttare lo stratagemma del Pipelineistan in modo da far fuori il Gasdotto Islamico. E se ci sarà un cambio di regime in Siria, favorito dall’invasione proposta dal Qatar, in termini di Pipelineistan sarà tutto più semplice, ovvio. Un più che probabile regime post-Assad dei Fratelli Musulmani accoglierebbe più che a braccia aperte un gasdotto qatariano. E questo renderebbe più semplice un prolungamento del gasdotto fino alla Turchia. Ankara e Washington ne uscirebbero vittoriose: Ankara per via dello scopo strategico della Turchia, ossia diventare il principale crocevia energetico dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale all’Europa. Il Gasdotto Islamico non farebbe altro che tagliarla fuori. E Washington perché la totalità della strategia energetica nel sudest asiatico dai tempi dell’amministrazione Clinton è stata quella di tagliar fuori, isolare e ledere l’Iran in tutti i modi possibili. Il traballante trono hascemita Tutto ciò indica che la Giordania è una pedina indispensabile nell’audace mossa geopolitica ed energetica del Qatar. La Giordania è stata invitata ad entrare a far parte del CCG, nonostante non sia esattamente situata nel Golfo Persico (e a chi importa? È una monarchia). Uno dei pilastri della politica estera del Qatar è il sostegno illimitato dei Fratelli Musulmani, indipendentemente dalla latitudine. In Egitto, i Fratelli Musulmani hanno già conquistato la presidenza. In Libia sono forti. Potrebbero arrivare ad assumere un ruolo dominante se si verificasse un cambio di regime in Siria. Ecco che arriviamo all’aiuto da parte del Qatar fornito ai Fratelli Musulmani in Giordania. Attualmente, il trono hascemita della Giordania è traballante, e questo è un eufemismo trascendentale. L’afflusso di rifugiati siriani è costante. Aggiungetelo ai rifugiati palestinesi, che arrivarono ad ondate nelle fasi cruciali della guerra arabo-israeliana: nel 1948, 1967 e 1973. E poi unite il tutto ad un massiccio contingente di salafiti e jihadisti contro Damasco. Proprio qualche giorno fa è stato arrestato un certo Abu Usseid. Suo zio era nientemeno che Abu Musab al-Zarqawi, il famigerato ex capo di Al Qaeda in Iraq, morto nel 2006. Usseid stava per attraversare il deserto dalla Giordania alla Siria. Da gennaio 2011 e anche prima della Primavera Araba, le proteste non hanno dato tregua ad Amman. Non sono stati risparmiati né Re Abdullah, conosciuto anche col nome di Re Playstation, né la fotogenica regina Rania, beniamina di Washington/Hollywood. In Giordania, i Fratelli Musulmani non sono gli unici protagonisti dell’ondata di proteste. In quest’ultime hanno un ruolo attivo anche sindacati e movimenti sociali. La maggior parte dei manifestanti è giordana. Storicamente, i giordani hanno avuto il controllo su tutti i livelli della burocrazia statale. Tuttavia, il neoliberalismo li ha schiacciati a seguito dell’ondata selvaggia di privatizzazioni che ha investito la Giordania durante gli anni Novanta. Ora, il regno impoverito dipende dal FMI e da sussidi extra da parte degli Stati Uniti, del CCG e anche dell’Unione Europea. Dominato da affiliazioni tribali e dalla devozione alla monarchia, il Parlamento non è altro che una farsa. Non si effettuano neanche delle riforme di facciata. Ad aprile, un primo ministro è stato sostituito e la maggior parte della popolazione neanche se n’è accorta. In più, un classico del mondo arabo: il regime mette a tacere le richieste di cambiamento aumentando la repressione. Il Qatar mette un piede in questo pantano. Doha esige che Re Playstation abbracci la causa di Hamas. È stato il Qatar a promuovere l’incontro di gennaio tra il Re e il leader di Hamas Khaled Meshaal, espulso dalla Giordania nel 1999. Così, i giordani autoctoni si sono chiesti se il regno sarebbe stato sommerso da un’altra ondata di rifugiati palestinesi. La Dinastia Saudita detiene gran parte del controllo dei media arabi, che sono stati sommersi da storie ed editoriali che presagivano che, dopo l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani a Damasco, sarebbe stata la volta di Amman. Il Qatar, comunque sia, prende il suo tempo. I Fratelli Musulmani esigono che la Giordania divenga una monarchia costituzionale. Poi, subentreranno politicamente in seguito alla riforma elettorale alla quale il Re Abdullah si opponeva da anni. Adesso, i Fratelli Musulmani possono anche contare sul sostegno da parte delle tribù beduine, la cui tradizionale fedeltà al trono hascemita non era mai stata più traballante. Il regime ha ignorato le proteste a suo rischio e pericolo. I Fratelli Musulmani hanno convocato una manifestazione di massa contro il Re il 10 ottobre. Più prima che poi, il trono hascemita crollerà. Non sappiamo quale sarà la reazione di Obama, a parte pregare che non accada niente di sostanziale prima del 6 novembre. L’emiro del Qatar, invece, ha tutto il tempo del mondo. Per ogni regime che cadrà (ed entrerà a far parte dei Fratelli Musulmani), ci sarà un gasdotto da costruire. Pepe Escobar è autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007) e di Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge. Il suo ultimo libro è Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). Fonte: www.atimes.com Link: http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/NI28Ak03.html 28.09.2012
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