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13 October 2012

Speciale Siria. 5/5 Finito

La rivoluzione in esilio
di Gabriele Del Grande

CAIRO - È notte fonda, e dal terrazzo di un vecchio albergo del Cairo salgono i fumi dei narghilé alla mela. I bicchieri sono pieni di birra. Intorno ai tavolini, una decina di oppositori siriani cercano di dimenticare i mali dell'esilio. Khalaf è un poeta, Wassim un webdesigner, Rita una formatrice, Maan un regista, Fadi un commerciante, Farzand un medico, e Khater un musicista. Doveva esserci anche Louise, un'attrice, ma stasera non è potuta venire perché oggi ha iniziato uno sciopero della fame in piazza Tahrir con altre tre ragazze: la poetessa Tibi e le attiviste Rola e Salma.

Diciotto mesi fa erano a Homs, Aleppo e Damasco, tra i primi organizzatori di quello che delle primavere arabe è stato il più duraturo, creativo e organizzato movimento non violento e laico. Laico sì perché Khater e Khalaf sono sunniti, Rita e Louise alawite, Maan druso, Fadi cristiano e Farzand curdo. E perché Wassim che è ateo, è entrato per la prima volta in una moschea durante la rivoluzione, perché le moschee erano gli unici luoghi dove ci si poteva aggregare in massa, il venerdì durante la preghiera, per poi uscire in una manifestazione prevenendo le forze di sicurezza.

La folle repressione del regime ha cambiato il loro destino. Dei compagni di quelle prime manifestazioni, molti sono stati uccisi in carcere o sono morti sotto le bombe. Gli altri sono fuggiti per salvarsi la vita. E dall'esilio cercano di supportare la rivoluzione, almeno sulla rete. Khater compone canzoni della resistenza, JuanZero disegna caricature di Bashar, e tutti gli altri passano le giornate in rete per far circolare notizie e idee. Idee sì, le stesse che per un anno hanno alimentato la rivoluzione siriana e che oggi rischiano di morire insieme alle migliaia di vittime di un'improbabile guerra - a detta degli attivisti del movimento pacifista - sta trascinando il paese in un vicolo cieco di morte e distruzione.

Diciotto mesi fa, nessuno di loro avrebbe mai immaginato che la rivoluzione sarebbe passata alle armi. Wassim all'inizio era convinto che il regime sarebbe caduto nel giro di qualche settimana, come era successo in Tunisia e in Egitto. E la sua unica preoccupazione quando venne arrestato nell'aprile 2011, era che non avrebbe vissuto quel momento storico con i suoi compagni. Col senno di poi, ammette di aver peccato di ottimismo.

Prima della rivoluzione Wassim aveva un'avviata impresa di informatica. Da quando è fuggito, ha speso i risparmi di una vita per sostenere il movimento non violento tra Beirut e Istanbul. E ormai ridotto sul lastrico, si è fermato al Cairo. Vive in un modesto bilocale a Saad Zaghloul, insieme a uno studente dei movimenti universitari di Aleppo, anche lui in esilio. Mi versa un bicchiere di raki. Allungato con acqua e qualche cubetto di ghiaccio. Sul suo nome pendono quattro mandati di arresto. Tornare a Damasco è impossibile.

Di combattere con l'esercito libero non ne vuole sentire parlare. Wassim è convinto che la guerra sia stata una scelta sbagliata. Dettata dai paesi del Golfo e dagli americani per sostituire Bashar con un governo islamista amico e indebolire così Hezbollah e l'Iran. All'inizio aveva pensato di andare a documentare i massacri del regime e di fare un film sul ruolo della minoranza alawita nella rivoluzione, ma ha cambiato idea dopo la morte sotto le bombe di due suoi cari amici registi: Basel e Tamer.

È grazie a ragazzi come loro se si sa qualcosa di quello che sta succedendo in Siria. I giornalisti internazionali infatti coprono soltanto la città di Aleppo. Avventurarsi nel resto del paese è troppo pericoloso. Eppure ogni giorno sono diffusi in rete migliaia di video da ogni cittadina siriana e da ogni quartiere di Damasco e di Aleppo. Girati da giovani reporter siriani, volontari che passano le giornate sul fronte a rischio della propria vita. E poi caricano tutto su facebook, su pagine condivise da centinaia di migliaia di siriani. Gente comune che a sua volta rimbalza in rete i contenuti. Non credo ci sia nella storia nessun altro esempio di una guerra con una copertura mediatica così capillare e così partecipata.

Anche Wassim per alcuni mesi ha lavorato sul fronte dell'informazione. Era a Istanbul allora ed era responsabile della formazione giornalistica degli attivisti siriani, e del contrabbando in Siria di telecamere, computer, software e modem satellitari. Ma quelli sembrano giorni lontanissimi.

“Oggi il movimento civile non è più in grado di lavorare. Se in una città c'è l'esercito non possiamo fare nulla. Quando si spara, le voci delle esplosioni coprono la nostra voce. Ci resta solo facebook. Abbiamo artisti, musicisti, poeti, disegnatori. La prima cosa per noi è l'arte, vogliamo mostrare all'estero che la rivoluzione siriana non è solo la guerra. Che c'è un pensiero, che ci sono dei sogni”.

Peccato però che all'estero questa voce non stia proprio arrivando. La Siria è raccontata esclusivamente come il teatro di una guerra civile.

“Alcuni egiziani mi chiedono come andare in Siria per combattere la jihad e difendere i sunniti. Pensano che la guerra sia tra sunniti e sciiti, non hanno capito che è una rivoluzione. E tutto questo a causa delle notizie diffuse in modo distorto da Al Jazeera e Al Arabiya, i cui editori, Arabia Saudita e Qatar, hanno una chiara agenda politica”.

Un'agenda che spaventa Wassim e gli altri attivisti del movimento civile. Dopotutto gli unici che stanno finanziando l'esercito libero sono governi islamisti. L'Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia. E poi ci sono gli Stati Uniti che appoggiano i Fratelli musulmani, come hanno fatto in Egitto. L'esercito libero siriano non ha un'agenda islamista, ma ha un dannato bisogno di soldi e di armi.

“Ho un amico, un ex generale che ha disertato, ci ho parlato su skype l'altro giorno dopo averlo visto su Al Jazeera con la barba lunga quando so che è un gran bevitore di raki. Dice che in guerra se non hai armi muori, e che con la barba lunga lo pagano meglio. Per lui è tutta una farsa, ma poi le milizie dei mujahidin ci sono davvero. Hanno portato in Siria combattenti libici, ceceni. Le loro idee radicali ci fanno paura. Non vogliamo uno stato islamico. Sono soltanto un'esigua minoranza, ma sono un pericolo. Anche perché la stampa internazionale parla solo di loro e così discredita la rivoluzione”.

E lo stesso sta facendo la propaganda del regime. Che ormai si tiene in piedi soltanto grazie a una sapiente costruzione della paura.

“Quando è uscito il video di alcuni combattenti dell'esercito libero di Feriana che tagliavano la gola ad alcuni alawiti sospettati di essere shabbiha, il regime ha mostrato le immagini in tv dicendo ecco come i terroristi sgozzeranno gli alawiti e i cristiani se vincono la guerra.”

Grazie a quella paura, secondo Wassim, un 25% del popolo sostiene ancora con il regime. E un altro 50% - la maggioranza – semplicemente non prende posizione. Odiano il regime, ma hanno ancora paura di esprimerlo. Oppure hanno paura della piega che sta prendendo la rivoluzione da quando è iniziata la guerra.

Il dottor Farzand è uno di loro. È un medico curdo di Aleppo sulla quarantina, padre di due bambini. Un anno fa era sceso in piazza contro il regime. Oggi ha lasciato la Siria per mettere in salvo la famiglia. Parla con le lacrime agli occhi, soppesando ogni singola parola, come se la loro pronuncia gli facesse male.

“Un anno fa avevamo un sogno. E non era la fine del regime. Il nostro sogno era la costruzione della Siria del futuro. Dopo 40 anni di dittatura e di terrore, il popolo siriano aveva sconfitto la paura, avevamo ritrovato la dignità e ripreso a sognare. La fine del regime era un passo necessario, ma non era il nostro obiettivo. Era il primo passo di un lungo cammino che doveva portarci a un futuro di libertà, diritti e giustizia. La guerra ha ucciso tutto questo. Non voglio che cada il regime se poi arriva un altro regime. Non voglio che cada il regime se deve essere versato il sangue di decine di migliaia di innocenti. La guerra è una follia, per uccidere un uomo bisogna essere malati. Ho paura di quello che sta succedendo nel mio paese”.

Il no alla guerra dei pacifisti siriani non è un atto di accusa contro l'Esercito libero, ma piuttosto l'amara consapevolezza di come l'inaudita violenza del regime abbia trascinato il paese in una spirale di violenza che nessuno sa dove porterà. A parlare sono rimaste soltanto le armi e gli uomini di religione. Contro i quali Maan, un altro attivista esiliato della compagnia del Cairo, non si risparmia:

“Il Corano è pieno di pagine che sono un inno alla vita. È scritto che chi uccide un uomo è come se avesse ucciso l'intera umanità. Ma gli uomini di religione in Siria vedono soltanto i versetti del jihad. E i ragazzi delle campagne credono veramente alle loro parole. Credono che se moriranno da martiri in guerra finiranno dritti in paradiso circondati da 70 vergini. E finiscono per preferire la morte a una vita miserabile come quella sotto una guerra. Non si rendono conto che è un suicidio collettivo, stanno mandando a morire i nostri migliori ragazzi.

Ma d'altronde non c'era da aspettarsi altro. Abbandonati dalla comunità internazionale e sottoposti ogni giorno a torture e massacri, difficilmente i siriani avrebbero potuto reagire altrimenti. Sangue chiama sangue. È la più antica legge del mondo. E al popolo siriano non è rimasto che stringersi alle armi e alla religione. Non più per fare la rivoluzione. Ma semplicemente per salvarsi la vita. E agli attivisti del movimento civile che hanno scelto l'esilio, non resta che rimanere a guardare.

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