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12 October 2012

Speciale Siria. 4/5 Continua

Vendetta, atto secondo?
di Gabriele Del Grande

ALEPPO - Dall'inizio della rivoluzione in Siria sono già morte 30mila persone, in maggior parte civili. Eppure il peggio rischia ancora di arrivare. Perché il sangue versato grida vendetta. E non è detto che con la fine della dittatura finisca anche la guerra. O quantomeno non è detto che la guerra finisca senza un regolamento di conti tra sunniti e alawiti. Ovvero senza che altro sangue innocente venga versato.Dopotutto sarebbe la conseguenza naturale delle politiche di Bashar, che dall'inizio della rivolta ha scommesso tutto sulla divisione settaria del paese, facendosi protettore delle minoranze contro quello che la propaganda del governo chiama il terrorismo sunnita. Nei quartieri cristiani di Aleppo e Damasco sono state formate delle bande armate pronte a difendere le proprie comunità. Lo stesso è successo nei quartieri alawiti di Homs e nei villaggi delle regioni alawite. Ma è soprattutto nelle campagne che il regime ha giocato la carta del settarismo. Reclutando centinaia di alawiti per commettere il lavoro sporco dei massacri nei villaggi a maggioranza sunnita.

Il copione è sempre lo stesso. L'esercito regolare bombarda per giorni interi i civili costringendo l'esercito libero al ritiro dalle zone abitate. Dopodiché le famigerate bande degli shabbiha, i tagliagole reclutati tra gli alawiti - la minoranza cui appartiene anche il presidente Bashar Al Assad -, entrano al seguito delle truppe per finire i superstiti, casa per casa, con il macabro rituale del taglio della gola. Senza nessuna eccezione per donne, bambini e anziani.

Tremseh, Daraya, Houla, Kafr Awid... L'elenco dei massacri nelle campagne siriane è lungo. I morti centinaia ogni volta. E la firma sempre la stessa. A confermare le testimonianze dei superstiti poi, ci sono decine di video amatoriali finiti su internet, girati dagli attivisti oppure trovati in tasca ai militari e agli shabbiha arrestati e uccisi dai combattenti dell'esercito libero.

In uno dei video si vedono due attivisti legati con le mani dietro la schiena, in piedi, a torso nudo. Due militari prima li sfottono. “Volete la libertà? - dicono -. Eccola!” E tagliano la testa a uno dei due con un coltello da macellaio. Poi accendono una motosega e la usano per tagliare la testa all'altro. In un altro video, un giovane attivista catturato dalle truppe di Asad è sepolto in piedi dentro una buca, fino al collo. Piange implorando pietà. Ma i militari, senza smettere di ridere, finiscono di riempire la fossa e lo sotterrano.

Questa spropositata e ingiustificata violenza, oltre ad aver terrorizzato la popolazione siriana, ha sicuramente piantato il seme della vendetta. Dopotutto i combattenti dell'esercito libero non lo nascondono. Gli alawiti sospetti che incontrano nella città liberate vengono ammazzati su due piedi. Gli abitanti del posto fanno i nomi di chi ha torturato, stuprato e ucciso in nome del regime. E i combattenti dell'esercito libero tagliano loro la gola. Lo stesso accade per tutti gli iraniani e i libanesi trovati in giro. Per le inchieste non c'è tempo. Si dà per scontato che siano mercenari al soldo della dittatura e vengono giustiziati.

Succede persino in una grande città come Aleppo. Dove una ventina di shabiha sono stati arrestati e uccisi nel solo quartiere di Sukkari. A tagliarli la testa è stato un combattente afgano della brigata islamista Ahrar Al Sham. I loro corpi sono sepolti in una piazzola lungo la strada, a fianco di un cavalcavia, dove si nota la terra smossa accanto ai cumuli di immondizia bruciata. La stessa sorte è toccata a Zaino Berri e ai suoi uomini. Prima della rivoluzione i Berri erano un clan mafioso che ad Aleppo controllava il mercato delle droghe e del contrabbando. Con l'inizio delle proteste il regime li aveva armati e finanziati affinché svolgessero il lavoro sporco della repressione. Ovvero omicidi, stupri, pestaggi, torture. Quando ad agosto l'esercito libero è entrato in città, sono stati i primi ad essere arrestati e quindi giustiziati con una scarica di mitragliatrice contro il muro, davanti a una folla esultante.

E se questa è stata la reazione in una grande città come Aleppo, la reazione nelle campagne potrebbe essere molto più grave. Perché nelle campagne si aggiunge il fattore settario. Ad Aleppo infatti Berri e gli altri shabbiha erano sunniti, come la maggior parte delle loro vittime. Nelle campagne invece, i massacri nei villaggi sunniti sono stati commessi dalle milizie alawite dei villaggi vicini. E lo stesso è accaduto a Homs, dove fin dall'inizio della repressione il regime ha diviso la città in due, isolando il quartiere alawita con decine di posti di blocco e usandolo come base per i bombardamenti sui quartieri sunniti.

A distanza di 19 mesi dall'inizio della rivoluzione, il sangue versato è tanto che un capovolgimento dei rapporti di potere e un'avanzata dell'esercito libero potrebbe significare una vendetta collettiva contro le zone alawite. Anche se la maggior parte dei combattenti dell'esercito libero giurano che non accadrà. E rispondono con i vecchi slogan delle manifestazioni: wahid, wahid wahid, al sha3ab al suri wahid (uno, uno, uno, il popolo siriano è uno). Sono i figli di un paese dove la convivenza tra religioni, culture e minoranze è stata la norma per secoli. Cristiani, musulmani sunniti, ebrei, alawiti, arabi, turchi, curdi, circassi, armeni.

Il problema è che quando di mezzo ci sono le armi, per fare un massacro non c'è bisogno delle maggioranze. Basta una brigata di cento uomini. È inutile nasconderlo. Le armi sono finite in mano a gente molto diversa e al vuoto di potere che seguirà l'avanzata dell'esercito libero, corrisponderà un clima di impunità che farà sì che tutto possa accadere. Il caso della guerra in Libia nel 2011 insegna. E non è stato raccontato abbastanza.

Anche in Libia i ribelli erano giovani di estrazione popolare che avevano imbracciato le armi in nome della libertà e della democrazia. Eppure non esitarono a vendicarsi dell'assedio subito a Misrata, distruggendo la vicina città di Tawargha uccidendo centinaia di civili e costringendo alla fuga più di 40mila persone che, a distanza di un anno, non sono ancora tornate nelle loro case. Gli stessi rivoluzionari, per vendicarsi delle forze mercenarie di Gheddafi, arrestarono centinaia di civili africani e ne uccisero decine e decine. E infine, per vendicarsi del clan di Gheddafi, i ribelli bombardarono e saccheggiarono oltremisura la sua città natale, Sirte.

Lo stesso potrebbe succedere anche in Siria. La vendetta collettiva è ciò che più temono tutti gli attivisti del movimento non violento siriano. Per loro in Siria è già stato versato troppo sangue. Ed è ora di una soluzione politica. Ma quella soluzione al momento è impossibile. Da un lato per l'incapacità dell'opposizione siriana di parlare con una sola voce, divisa dai conflitti tra vecchi oppositori di sinistra, i fratelli musulmani e gli ex del regime già pronti a rifarsi una verginità politica. Dall'altro per l'immobilismo della comunità internazionale che sembra assistere inerme al massacro del popolo siriano.

Nella storia contemporanea non si è mai vista l'aviazione di uno Stato sovrano bombardare per mesi i propri cittadini. Senza che nessuno dica niente da fuori. Ma forse è proprio questo il senso. Forse al di là del veto di Russia e Iran al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e del loro sostegno economico e militare al regime, c'è qualche paese forte nella regione – e non è solo Israele - a cui fa comodo che la Siria persegua questa folle politica di autodistruzione. Perché alla Siria del migliore nemico Asad, è preferibile soltanto una Siria distrutta. E allora la triste verità è che la Siria e i siriani non sono mai stati così soli.

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