http://www.sirialibano.com Date a noi siriani l’opportunità di creare la nostra Storia Yara Bader, pacifista siriana, giornalista e scrittrice, oggi direttrice del Centro siriano per i media e la libertà di espressione (Scm) fondato da suo marito, Mazen Darwish, da mesi in carcere, è stata invitata a Udine qualche settimana fa. Vi proponiomo qui di seguito il testo del suo discorso tradotto dall’arabo da Eva Ziedan. Buongiorno, sono Yara Bader. Mi è dispiaciuto tanto non essere con voi in Italia. E vorrei ringraziare chi mi ha invitato, anche se sapeva che forse non sarei potuta venire. Ringrazio la città di Udine, il Centro Balducci e la mia amica Eva. Non so se davvero mi avrebbero proibito di partire: se non sono riuscita a farlo è per paura che non mi avrebbero permesso di tornare in Siria. Quindi era meglio restare, mi scuso di nuovo di non essere con voi. Vorrei parlare dalla Siria a tutto il mondo, alla gente che spero abbia ancora una posizione obiettiva rispetto a quello che sta succedendo. Spero che non si trinceri dietro pregiudizi o posizioni indotte dall’esterno. Io mi trovo in Siria, non sono mai uscita in tutto questo lungo periodo. Non nego l’esistenza di aspetti negativi, o anche pericolosi nella rivoluzione, ma chiedo solo di non considerarli come l’unica cosa che succede in Siria, di non pensare che siano l’unico aspetto della rivoluzione siriana. Vi prego di non farlo, perché qualsiasi rivoluzione è un movimento di società ed è una cosa grave condannare una società intera, con una sentenza assoluta. Ne approfitto per parlarvi dei giovani che lavorano in Siria. Non so se possono essere considerati colti nel senso accademico della parola. Ma lo sono nel senso di una cultura della società civile. Sono giovani spontanei, che lavorano senza finanziamenti. Il risultato finora più importante di questa rivoluzione è che noi giovani la stiamo vivendo, non ci limitiamo a riportare chiacchere sentite o lette su fogli di giornale. Vorrei raccontarvi di un’attività che si chiama “I muri di Saraqeb”. Saraqeb è una città molto piccola, vicino ad Aleppo. Non so se sia visibile su Google Earth. Comunque sia, i suoi giovani stanno facendo cose splendide. Noi in Siria avevamo un problema con i muri: i nostri muri non sono belli, di solito sono sempre pieni di pubblicità. I giovani di Saraqeb prendono secchi di vernice e disegnano e scrivono sui muri della loro città, che è ancora sotto le bombe. Non so se Saraqeb venga nominata nei telegiornali: io non sento spesso il nome di questa cittadina, ma seguo la pagina web di questi giovani e loro dicono che la città è bombardata. La situazione umanitaria ed economica è molto difficile in Siria, i prezzi sono altissimi e i trasporti difficili. La nostra vita è una vita dentro la guerra, ma nonostante tutto questi giovani continuano a disegnare personaggi e storie che fanno felici i bambini, quando camminano per strada. I bambini si fanno una foto davanti a Topolino e magari per poco, forse per un secondo, riescono a dimenticare di essere in guerra. Ricordano solo di essere in rivoluzione, con i muri che ora non sono più uno spazio per la pubblicità. Ora sono belli. I giovani di Saraqeb scrivono per le città distrutte, come Daraya. Daraya è una cittadina alla periferia di Damasco, nota per le sue manifestazioni pacifiche e… per le sue buone uve (noi siriani diciamo sempre “Daraya, l’uva del mio Paese”). Daraya ha subito un massacro enorme, sono state uccise più di 600 persone. Ma questo massacro ha avuto solo un piccolo spazio nei telegiornali. Per Daraya, i giovani di Saraqeb hanno scritto: “Daraya, non ci sono parole e i muri sono diventati quaderni del vento. Daraya, abbracciami, sei una patria, sei una bambina ferita”. Sui muri trascrivono poesie, di Mahmud Darwish o di Naji Al Ali, per esprimere i loro pensieri. Secondo me questi giovani, di questa piccola città, provano a dire che ancora ci sono persone che stanno riscoprendo se stesse durante questa rivoluzione, durante questa follia che stiamo vivendo. Noi stiamo in Paese in cui muoiono 200 persone ogni giorno (che siano civili, membri dell’Esl, o dell’esercito regolare). Eppure, c’è ancora chi tenta di mettere in prima fila gli aiuti umanitari. E non capisco perche tutto il mondo insista nell’ignorarlo. Questo ci fa molto male. È una cosa terribile, perché abbiamo cominciato a sentire che qualsiasi attività civile facciamo, viene rifiutata a priori, non acquista il diritto di essere presa in considerazione. Le foto dei morti in Siria sono ormai per il mondo soltanto foto: quando “l’altro” le vede rimane male per pochi secondi, poi si annoia e continua la sua vita di sempre. Ma mentre continua la sua vita di sempre, si chiede: “Come mai la gente, in questo posto che si chiama Siria, è così violenta?”. Oppure: “Perché non sono rimasti pacifici?”. Questo senso di superiorità e queste domande ci hanno molto ferito, perché c’è gente che è stata uccisa in questa terra per un anno e sette mesi e per i primi sei mesi la rivoluzione siriana è rimasta pacifica. Eppure, già in questi primi sei mesi, come è documentato ovunque, era molto grave quel che stava succedendo. C’erano bambini uccisi, madri uccise, città bombardate e il mondo non faceva nulla, stava appena scoprendo dove si trova la Siria sulla carta geografica! Cito come esempio la città di Deir az Zor, una città che ha origini antiche e che il mondo ora conosce come una città che muore di fame. Io non so per quanto tempo possa resistere Deir az Zor, perché è ancora sotto le bombe e l’inverno è vicino. Ma i giovani di questa città hanno creato una pagina Facebook che si chiama “Il cartone di Deir az Zor”. È un cartone nero su cui scrivono frasi per il “detenuto che non conosciamo”. Si tratta di una campagna a cui partecipano molti altri giovani siriani, perché in Siria abbiamo adesso più di 200.000 detenuti. È un modo per dare solidarietà a chi non ha voce. È molto semplice, non costa niente e non fa male a nessuno. Serve per dire che un detenuto non è solamente un numero, ma una persona che ha un nome, una vita, ha faticato per avere forse una laurea, e aveva tanti sogni, voleva costruire una casa, sposarsi, lavorare. Ora è solamente un detenuto, un numero. Almeno per il resto del mondo. Perché noi siriani stiamo cercando ogni modo possibile per farci conoscere, per riaffermare l’idea che un detenuto non è un numero. Ci sono anche i giovani della campagna “Taccuino di un Paese”. A me piacciono tanto, spero che possiate seguire le loro attività sul web. Sono giovani che cercano tutti i documenti che raccontano la storia della Siria, la Siria degli anni Venti, la Siria che ha vinto 4-2 a calcio contro la Gran Bretagna. Mostrano com’erano i giornali dal 1930 al 1950, che per noi è un’epoca d’oro per quanto riguarda la libertà di espressione, come dimostra anche la quantità di pubblicazioni che c’erano in Siria in quegli anni. Oppure riflettono su qual era in quel periodo il concetto di media, confrontandolo con quello di oggi. Questi giovani pubblicano le vignette satiriche che erano fatte sui presidenti della Siria a quell’epoca, foto di donne e di esponenti della società civile. Poi tutto è stato cancellato per fare posto a un altro tipo di vita, che dura ormai da cinquanta anni, ma secondo me è molto importante riscoprire la nostra storia, adesso, nel momento in cui una nuova storia viene scritta. Questi giovani che stanno riscoprendo le loro città, le loro storie e se stessi, provano nel bel mezzo della guerra a mandare messaggi di pace. Lo fanno nel modo più semplice, perchè le loro armi sono solo terra, penna e carta. Ma bastano per dire al mondo che in alcune zone della Siria ci sono ancora alcune persone che credono che “il popolo siriano è uno! Uno, uno, uno!”. Siamo una società che ha vissuto tutta la vita insieme (drusi con alauiti, sunniti, sciiti, cristiani e curdi) e rifiutiamo il confessionalismo. Non riusciamo a concepirlo. Come ha detto un anziano della città di Deraa tre giorni fa: “Non posso immaginare questo Paese di un unico colore. Siamo una società colorata. Né bianca né nera”. Per questo, noi che veniamo da una Siria colorata, chiediamo al mondo che smetta di dare su di noi valutazioni monocrome, assolute, solo perché vede alcuni aspetti negativi. Vi preghiamo di osservare le attività per cui la gente sta morendo e viene arrestata, e di cui nessuno parla. Ci sono città che vengono bombardate solo perché hanno un’attività civile rivoluzionaria ma pacifica. La prova maggiore della repressione dei manifestanti pacifici è questa campagna di arresti che non si ferma, unita al rifiuto di liberare tutti i pacifisti più noti, che dicono che questa rivoluzione deve rimanere pacifica. Come lo scrittore curdo Husein ‘Iso, Mazen Darwish, Husein Ghrer, Hani Zetani, Yahya e Nabil Sharbaji di Daraya. Ora io spero di approfittare di questa opportunità per dire dal profondo del cuore a tutto il mondo che in Siria ci sono, sì, aspetti negativi ma per favore, per favore, questi aspetti non sono le uniche cose in questo Paese. Ci sono giovani che pagano con la vita solo per aver dato una testimonianza civile che questa società è colorata e rimarrà colorata. Dateci solo l’opportunità, solo l’opportunità per vivere e creare la nostra storia, senza pregiudizi, che qualche volta aggiungono una ferita alle molte aperte dall’indifferenza e dalla compassione data con superiorità. Se volete dare prova di compassione senza superiorità, mostrate le fotografie della città di ‘Azaz sotto le bombe, o l’immagine di quell’anziano seduto sopra un mucchio di terra che era un tempo la sua casa, il sogno di tutta la sua vita, che aveva lavorato tanti anni per costruire, in cui si era sposato, aveva avuto figli e li aveva cresciuti, e che ora è un mucchio di terra. Io, Yara Bader, vi ringrazio per qualsiasi forma di compassione umana, ma spero che non sia data con un senso di superiorità. Spero che sia una compassione giusta, che mostri tristezza per quanto accade in Siria ma anche apprezzamento per la nostra resistenza civile, che qualche volta è fatta da giovani di piccoli paesi sconosciuti che non sono visibili su Google Earth, ma che esistono, in questo Paese che si chiama Siria e che il mondo ha scoperto nel 2011.
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