di Lettera22 per il Fatto
Crisi umanitaria in Yemen: oltre sei milioni di profughi per sfuggire ai ribelli A lanciare l’allarme è stato l’inviato speciale dell’Onu Jamal Benomar. La lunga agonia del regime di Saleh, durato trentatrè anni, "ha creato un collasso dell’autorità in diverse zone del paese". Che ha avvantaggiato Al Qaeda Non basta la difficile transizione dopo trentatré anni di regime del presidente Ali Abdullah Saleh e nemmeno gli attacchi di Al Qaeda nella Penisola arabica. Ai guai dello Yemen, il più povero dei paesi arabi, si aggiunge ora anche una possibile crisi umanitaria. A lanciare l’allarme è stato l’inviato speciale dell’Onu Jamal Benomar, che ha riferito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la sua valutazione sulla situazione nel paese. Benomar ha detto che ci sono almeno tre milioni di persone che hanno bisogno urgente di aiuti umanitari, mentre oltre sei milioni e mezzo di persone hanno lasciato le proprie case e in alcuni casi il paese durante gli ultimi mesi di altissima tensione politica e per sfuggire ai combattimenti tra l’esercito regolare e le formazioni ribelli. Tra loro anche le milizie legate ad Al Qaeda che nei giorni scorsi hanno lanciato un’offensiva nella regione meridionale di Abyan. “C’è una imminente crisi umanitaria nel paese”, ha detto Benomar al Consiglio di sicurezza, dove ha spiegato che dei 446 milioni di dollari che l’Onu aveva chiesto per aiutare lo Yemen, ne sono arrivati appena il 15 per cento. Secondo Benomar, la lunga agonia del regime di Saleh, “ha creato un collasso dell’autorità in diverse zone del paese”. Un crollo da cui ha tratto vantaggio Al Qaeda, la cui presenza «è una sfida per il prossimo futuro». La transizione in Yemen, dopo quasi un anno di proteste sociali culminate con il passaggio di poteri tra il presidente Saleh e il suo vice Hadi, prevede che si apra adesso un periodo di dialogo nazionale che dovrebbe portare entro due anni a nuove istituzioni democratiche e libere elezioni. Su questo già difficile percorso, però, c’è l’ombra della presenza delle milizie jihadiste che nei giorni scorsi hanno colpito duramente vicino la città di Zinjian. I miliziani, secondo l’agenzia di stampa Reuters, chiedono al governo di liberare i “prigionieri detenuti nelle carceri nazionali e della sicurezza” e in cambio promettono di liberare i 73 soldati catturati nei combattimenti dei giorni scorsi, che altrimenti saranno uccisi. In un’altra città della stessa provincia, Jaar, intanto, i miliziani hanno consentito a un team della Croce rossa internazionale di portare soccorso a una dozzina di soldati feriti, tenuti in un ospedale improvvisato all’interno di una scuola. La provincia di Abyan, nel sud del paese, con lo sbocco al mare sul golfo di Aden e su una delle principali rotte petrolifere mondiali, è il centro dello scontro tra governo e ribelli jihadisti, nonché la più immediata fonte di preoccupazione sia per il Pentagono che per la vicina Arabia saudita, che teme l’espandersi dell’insurrezione armata anche nel suo territorio. Tuttavia, a quei governi che se ne fossero dimenticati, il resoconto di Benomar ricorda che lo Yemen ha anche altri problemi, di cui la presenza islamista radicata da molti anni è in parte una conseguenza. L’Onu aveva già richiamato l’attenzione internazionale sulla “perdita di controllo” in diverse zone del paese già in un primo rapporto, datato settembre 2011. Tanto durante i mesi di proteste contro Saleh, che adesso, nelle prime settimane di transizione, la risposta del governo è però stata puramente militare, con la conseguenza che decine di migliaia di persone sono scappate dalle zone dei combattimenti. Una ulteriore complicazione per un paese dove già più del 40 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e dove, secondo l’ong internazionale Oxfam, 7,5 milioni di persone, un terzo della popolazione, si trovano in una situazione di sottoalimentazione o denutrizione. Una serie di donatori internazionali, tra cui la Banca mondiale che a metà dello scorso anno aveva sospeso un trasferimento per oltre 500 milioni di dollari, dovrebbe riprendere le proprie attività nel paese e l’assistenza finanziaria allo stato proprio in questa fase di transizione, che rischia però di diventare molto più lunga e tormentata se l’escalation militare delle ultime settimane non viene in qualche modo arrestata. La “qualità” della minaccia, su un paese così fragile, è stata testimoniata, prima dell’offensiva di Abyan, dall’autobomba esplosa il 25 febbraio a Mukalla, nel sud del paese, davanti a uno dei palazzi presidenziali. Nell’attentato, rivendicato da Al Qaeda, sono morti 25 soldati della Guardia repubblicana. Appena poche ore prima, nella capitale Sana’a, il presidente Abd-Rabbu Mansur Hadi, aveva giurato quale nuovo capo dello stato.
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