Questa analisi è stata pubblicata inizialmente da Affari Internazionali, al seguente link: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1949 http://nena-news.globalist.it Longa Manus Saudita Sullo Yemen A fine novembre è stato firmato a Riyadh, in Arabia Saudita, l’accordo per il passaggio dei poteri in Yemen. Ma la strada da percorrere è ancora lunga Roma, 13 gennaio 2012, Nena News Una valutazione superficiale potrebbe far pensare all’ennesimo successo della “Primavera araba” nei confronti degli ancien régime, accomunando l’esperienza yemenita a quelle di Tunisia, Egitto e Libia e avvalorando la tesi secondo cui le rivoluzioni dei gelsomini non riguardano esclusivamente il Nord Africa, ma anche il Vicino Oriente. Una lettura più attenta può però far emergere opzioni diverse da questa. Regia saudita La sede della firma dell’accordo non potrebbe essere più significativa al riguardo. Riyadh è stata infatti la principale sede delle trattative sul futuro dello Yemen, paese nel quale il regno saudita ha più di un interesse speciale. Più in generale, l’Arabia Saudita gioca un ruolo fondamentale all’interno delle complesse dinamiche della Primavera araba: dopo aver infatti offerto asilo all’ex presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali, costretto a fuggire da Tunisi dopo la rivoluzione dei gelsomini di gennaio 2011, il regno saudita ha ospitato anche lo stesso Saleh, ferito gravemente in seguito all’esplosione del 3 giungo scorso, quando nella stessa capitale Sana’a infuriava la battaglia tra la guardia repubblicana lealista ed i ribelli. A ben vedere, la complessa politica estera dell’Arabia Saudita sembra essere venata da una forte componente controrivoluzionaria, che mira a mantenere lo status quo nei suoi più vicini confini e a mettere in difficoltà l’Iran, considerato il principale avversario. Di qui anche l’avversione per il presidente siriano Bashar al Assad, alleato di Teheran, il cui regime è stato apertamente dichiarato dalle autorità saudite illegittimo in seguito alla sanguinosa repressione nei confronti dei manifestanti siriani; di qui anche le manovre per reprimere la ribellione sciita in Bahrein e, d’altro canto, l’impegno a trovare una soluzione sostenibile e non sfavorevole ai sauditi alla ben più intricata situazione in Yemen. In questi ultimi due casi, entrambi prossimi ai confini del regno saudita, gli interventi sono stati realizzati anche grazie alla preziosa collaborazione del consiglio di cooperazione del Golfo (Gulf cooperation council, Gcc). Accordo e immunità I tentativi di arrivare ad un compromesso tra l’opposizione ed il regime di Saleh si erano infatti sviluppati durante l’ultima parte dell’anno soprattutto grazie agli sforzi del Gcc, dopo che la missione guidata dall’inviato dell’Onu, Jamal bin Amr, non aveva avuto alcun esito. La difficoltà principale stava nella volontà di Ali Abdullah Saleh di non abbandonare il potere. Nonostante il grave attentato del 3 giugno già menzionato, infatti, lo stesso Saleh era rientrato a settembre in Yemen. Ciò ha esasperato gli animi dei manifestanti, e ha convinto l’Arabia Saudita che era arrivato il momento di riportare la situazione sotto controllo, per evitare che il paese confinante diventasse ingovernabile. In base ai termini dell’accordo, firmato alla presenza di re Abdullah, Saleh lascia i poteri presidenziali al suo vice Abdrabuh Mansour Hadi, già chiamato in causa durante la permanenza di Saleh in Arabia Saudita. Nuove elezioni presidenziali si terrano il 21 febbraio del prossimo anno, e nel frattempo verrà formato un nuovo governo, presieduto da un rappresentante dell’opposizione, Mohammed Basindawa. Il nuovo presidente ed un nuovo parlamento saranno in carica per due anni, il tempo di redigere una nuova Costituzione ed avviare la sospirata transizione. L’accordo sembra un buon punto di equilibrio tra le parti, ma nasconde diverse insidie. Innanzitutto, il prezzo per la cessione dei poteri da parte di Saleh è il riconoscimento, per lui, dell’immunità assoluta. Un prezzo molto alto per un paese in cui il regime non ha esitato a usare le armi per reprimere le manifestazioni di protesta svoltesi durante tutto l’arco dell’anno. Inoltre lo stesso Saleh non abbandona del tutto il potere, visto che continua a mantenere la carica onorifica di presidente, mentre i poteri presidenziali passano interamente ad Hadi, uno dei suoi più stretti collaboratori. Resta poi da vedere la reazione che possono avere i gruppi politici e tribali con i quali Saleh non ha raggiunto alcun accordo. Il compromesso riguarda infatti il regime e l’opposizione politica nota come Joint Meeting Party, ma non i ribelli zaiditi raggruppati attorno al clan al-Houti, e neanche il movimento secessionista del sud dello Yemen, che chiede da anni il ritorno alla separazione tra le due parti del paese. Strategia della confusione Come prevedibile, l’annuncio dell’accordo è stato accolto dalla popolazione yemenita con forti proteste. È prevalsa la rabbia, e di certo non perché i manifestanti vedano nella scomparsa del regime e nell’allontanamento di Saleh la soluzione ai problemi dello Yemen. La rabbia nasce dal fatto che il presidente yemenita non è nuovo a dichiarazioni che annunciano la sua uscita di scena, salvo poi ripensamenti dell’ultimo minuto. La sfiducia verso le dichiarazioni di Saleh è dunque molto alta. Appena rientrato in patria, del resto, Saleh ha subito attuato una strategia della confusione: il 27 novembre ha annunciato alla tv di stato la concessione dell’amnistia per gli yemeniti “che hanno commesso errori” durante la crisi dell’ultimo anno, escludendo però gli autori dell’attentato del 3 giugno scorso. E dimenticandosi dell’accordo appena firmato a Riyadh che lo ha privato di ogni potere, compreso quello di concedere l’amnistia. Tale gesto, che ha provocato le proteste dell’opposizione, ha causato non pochi dubbi sull’effettività della transizione in Yemen e su chi sia realmente al comando del paese. Saleh sembra dunque destinato ad occupare una posizione centrale in Yemen ancora per diverso tempo, grazie anche all’appoggio determinante di Arabia Saudita e Stati Uniti. Questi ultimi, in particolare, grazie alla crisi yemenita hanno ottenuto carta bianca per le operazioni antiterrorismo nel paese (come, ad esempio, l’operazione condotta contro Anwar al Awlaki lo scorso 30 settembre).
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