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https://now.mmedia.me Bahrain: La Primavera Silenziata Più sinistro dei macabri sogni che i mezzi di comunicazione possono ispirare in giovani disturbati dell’America suburbana, è stato il suo rapporto con la gente e i governi dei paesi che hanno sperimentato gli sconvolgimenti della cosiddetta primavera araba. I media tradizionali hanno in gran parte abbracciato la linea tracciata dai governi occidentali, come ha detto l’analista Samer Araabi della Arab American Institute, praticando un triplo standard, verso i manifestanti e i leader della regione, a seconda del paese e dell’importanza strategica percepita. Migliaia di giornalisti delle agenzie di stampa di tutto il mondo si accalcano ancora gli uni sugli altri per coprire la rivoluzione in Egitto e le crisi che ne derivano, quasi due anni dopo che i manifestanti hanno cacciato Hosni Mubarak, mentre la rivolta di massa in Bahrain durante lo stesso periodo, accompagnata da gravi e diffuse violazioni dei diritti umani per mano della polizia, sono stati largamente ignorati anche dalle agenzie di stampa del mondo arabo. Possiamo attribuire le macabre repressioni dei manifestanti del Bahrein, così come la rivolta in Egitto, alla differenza nel modo in cui i media tradizionali le hanno coperte? Ed è la notevole carenza di copertura mediatica in Bahrain legata alla chiusura di un occhio che i governi occidentali rivolgono verso la violenza nell'isola strategica nel Golfo Persico? Data la storia di violazioni dei diritti umani dell'Egitto, la sua rivoluzione avrebbe dovuto essere molto più sanguinosa di quanto non sia stata. Fin dagli arresti di massa dei Fratelli Musulmani nel 1950 ordinati da Gamal Abdul Nasser, le prigioni, le stazioni di polizia, le camere di tortura e gli obitori d'Egitto sono stati riempiti con gli islamisti e le sinistre che pagavano il prezzo di qualsiasi opposizione al regime percepito. Più di recente, con l'avvento di Internet, le persone sono state arrestate e torturate a causa dei loro post sul blog e su Facebook. Così, quando gli egiziani sono scesi in piazza il 25 gennaio 2011, i mezzi di comunicazione erano pronti: Reporter di media mainstream, così come giornalisti cittadini, erano al Cairo, per documentare ogni minimo dettaglio delle interazioni tra i manifestanti, i politici, la polizia e l'esercito. Una carriera avrebbe potuto essere lanciata da un video sgranato che documenta la brutalità della polizi. Ma per un po’ almeno, il regime di Mubarak era ancora in grado di contare su forniture continue e supporto ideologico dagli Stati Uniti, supporto difficile da garantire quando i video dei pestaggi della polizia e le segnalazioni di torture emergono continuamente. Consapevole che il mondo stava guardando, la polizia potrebbe essere stata istruita sul come comportarsi. Al culmine delle proteste in Egitto, ci sono stati circa un milione di persone in piazza Tahrir, circa una ogni 80 egiziani. In Bahrain, le più grandi proteste di Pearl Roundabout a Manama centro hanno attirato ben due cittadini su tre. Il governo ha risposto con attacchi contro manifestanti disarmati con granate assordanti, cartucce a pallini, proiettili di gomma e munizioni dal vivo, così come con la detenzione arbitraria a lungo termine per gli operatori sanitari e i giornalisti. La diffusione della tortura e persino gli omicidi palesi in strada sono stati registrati da terzi, con i telefoni cellulari con le fotocamera e Twitter links. Questi attacchi non sono stati solo più brutali, meglio documentati e più sostenuti rispetto a qualsiasi atto simile in Egitto, il terrore che rievocano colpisce la popolazione in modo più assoluto. Inoltre, secondo una relazione del 2012 della Commissione indipendente d'inchiesta del Bahrain, questi abusi - non sarebbero potuti accadere senza la consapevolezza dei livelli più alti della catena di comando. - Nonostante questa pletora di prove dell'implicazione del governo, le proteste e i loro risultati raccapriccianti non hanno ricevuto alcuna copertura mediatica, come il giornalista del New York Times Nicholas Kristof ha recentemente scritto a roposito della sua espulsione dal paese. L’esperienza di Kristof dimostra che il mainstream dei media in sé non è del tutto colpevole per la mancanza di copertura. I giornalisti che viaggiano in Bahrain sono regolarmente allontanati alla dogana. Nel frattempo, all'inizio di questo mese, una società di relazioni pubbliche, allineata con il governo, ha pagato per la celebre bellona Kim Kardashian per recarsi in visita in Bahrain ad aprire un negozio di latte frullato in franchising. Al suo arrivo, ha twittato - OMG posso trasferirmi qui per favore? - E vomitato segni di pace mentre posava con i cammelli. Gli attivisti islamici che si sono attivati per protestare contro il suo aspetto, sono stati respinti dai gas lacrimogeni del governo. Siccome le spazzole delle pop star sorpassano i giornalisti aggrediti e gli attivisti dei diritti umani nella linea doganale in aeroporto a Manama, il re al-Khalifa ancora insiste pubblicamente che il Bahrain rispetta libertà e tolleranza. Durante il suo discorso di Domenica scorsa, la polizia stavano usando gas lacrimogeni e bombe sonore per disperdere le migliaia di manifestanti venuti dai villaggi circostanti. Sembra che il regime di al-Khalifa sappia che la negazione e il cambiare argomento con una celebrità può portare molto lontano negli effetti socio-politici dello spirito del tempo. Il governo del Bahrein crede di avere l'immunità internazionale, dice Maryam al-Khawaja, direttrice del Centro del Bahrain per i diritti umani , e hanno ragione. La posizione geografica del Bahrain è sensibile, isola nel Golfo Persico proprio di fronte all’Iran. Questo significa che il re al-Khalifa e la sua famiglia hanno un rapporto intimo con gli Stati Uniti, lo scambio di armi a basso costo per una base del Bahrein che ospita la quinta flotta della Marina degli Stati Uniti. Inoltre il supporto ideologico e materiale dai suoi vicini sauditi hanno fornito al re del Bahrein una ulteriore misura di protezione contro le critiche dei governi occidentali, che non possono funzionare senza un flusso costante di buon greggio saudita. Sul petrolio saudita, al-Khawaja dice, - è più importante in Occidente della vita nel Bahrain. - Fino a quando i leader mondiali fnon faranno dei diritti umani una priorità al di sopra delle loro quote nel mercato globale, possiamo aspettarci notizie anche più tristi dal Golfo. Cioè, se ne otteniamo qualcuna. https://now.mmedia.me Bahrain: Silenced Spring More sinister than the macabre dreams the media may inspire in disturbed young men in suburban America has been its relationship with the people and governments of countries that experienced upheavals during the so-called Arab Spring. Mainstream media has largely toed the line drawn by Western governments, in practicing a “triple standard,” as analyst Samer Araabi of the Arab American Institute has said, toward protestors and leaders in the region, depending on the country’s perceived strategic importance. Thousands of journalists representing news outlets across the world are still falling over each other to cover the revolution in Egypt and the ensuing crises, nearly two years after protesters drove Hosni Mubarak from office, while massive uprisings in Bahrain during the same period, accompanied by grievous and widespread human rights violations at the hands of the police, have been largely ignored even by news agencies in the Arab world. Can we attribute the grisly crackdowns on Bahraini protesters, as well as the relatively peaceful uprising in Egypt, to the difference in the way mainstream media has covered them? And is the notable dearth of media coverage on Bahrain related to the blind eye that governments in the West are turning toward violence in the strategic island in the Persian Gulf? Given Egypt’s history of human rights abuses, its revolution should have been much bloodier than it turned out to be. Since Gamal Abdul Nasser’s mass arrests of Muslim Brothers in the 1950s, the prisons, police stations, torture chambers and morgues of Egypt have been filled with Islamists and Leftists alike paying the price for any perceived opposition to the regime. More recently, with the rise of the Internet, people have been arrested and tortured for nothing more than blog posts and Facebook groups. So when Egyptians took to the streets on January 25, 2011, the media was ready: Reporters from mainstream media outlets, as well as citizen journalists, were on the ground in Cairo, documenting every last detail of the interactions between protesters, politicians, the police and the army. A career could have been launched from a grainy video documenting police brutality. But for a while at least, Mubarak’s regime was still counting on continued material and ideological support from the United States, which is harder to secure when videos of police beatings and reports of torture are constantly surfacing. Because the world was watching, the police may have been instructed to behave themselves. At the peak of the protests in Egypt, there were approximately one million people in Tahrir Square, about 1 in 80 Egyptians. In Bahrain, the largest protests at Pearl Roundabout in downtown Manama have drawn as many as two out of three citizens. The government has responded with attacks on unarmed protesters with stun grenades, birdshot, rubber bullets and live ammunition, as well as arbitrary long-term imprisonment for health workers and journalists. Widespread torture and even blatant murders on the street have been recorded by bystanders with camera phones and Twitter accounts. These attacks have not only been more brutal, better-documented and more sustained than any in Egypt, the terror they invoke affects the population more completely. Furthermore, according to a 2012 report by the Bahrain Independent Commission of Inquiry, these abuses “could not have happened without the knowledge of the higher echelons of the command structure.” Despite this plethora of evidence implicating the government, the protests and their grisly outcomes have received “no coverage” in the media, as New York Times journalist Nicholas Kristof recently tweeted upon his deportation from the country. Kristof’s experience illustrates that the mainstream media itself is not entirely to blame for the lack of coverage. Journalists traveling to Bahrain are routinely turned away at customs. Meanwhile, earlier this month, a government-aligned PR firm paid for sex-tape celebrity Kim Kardashian to travel to Bahrain to open a milkshake store franchise and tour the country. Upon arriving, she tweeted “OMG can I move here please?” and threw up peace signs while posing with camels. Islamist activists who turned out to protest her appearance were tear-gassed by the government. As pop stars brush past waylaid journalists and human rights activists in the customs line at the Manama airport, King al-Khalifa still publicly insists that Bahrain respects “liberties” and “tolerance.” During his speech last Sunday, police were using tear gas and sound bombs to disperse thousands of protesters in surrounding villages. It seems the al-Khalifa regime knows that denial and changing the subject to a celebrity can get it very far indeed in today’s socio-political zeitgeist. The Bahraini government “believes they have international immunity,” says Maryam al-Khawaja, acting head of the Bahrain Center for Human Rights, “and they’re right.” Bahrain’s sensitive geographic location, just across the Persian Gulf from Iran, has meant that King al-Khalifa and his family have enjoyed a cozy relationship with the United States in recent years, exchanging cheap weapons for a Bahraini base for the US Navy’s 5th Fleet. Ideological and material support from its Saudi neighbors have provided the Bahraini king an extra measure of protection against criticism from Western governments, which can’t function without a steady stream of cheap Saudi crude. “Saudi oil,” al-Khawaja says, “is more valuable [to the West] than Bahraini lives.” Until world leaders make human rights a priority over their stakes in the global marketplace, we can expect more grim news from the Gulf. That is, if we get any at all.
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