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RESPEKT PRAGA
Pussy Riot, ovvero il ritorno al futuro sovietico
Il processo alle tre componenti del gruppo punk femminista, condannate il 17 agosto a due anni di lavori forzati, ricorda quello del gruppo rock cecoslovacco Plastic People avvenuto negli anni Settanta. All’opera, infatti, si è vista una stessa intolleranza nei confronti di chi “semina zizzania” e critica il regime. La settimana scorsa i testimoni dell’epoca comunista hanno avuto occasione di intraprendere un viaggio nel passato, per la precisione nel settembre 1976. Alcuni giovani capelloni (quattro a Praga e tre a Plzeň) furono condannati per un comportamento che nel gergo giudiziario del tempo li etichettava come “seminatori di zizzania”. In pratica, ciò significava che i “seminatori di zizzania” facevano cose del tutto normali, che i comunisti associavano però ad atti di disobbedienza: portavano i capelli lunghi, suonavano la loro musica, organizzavano con gli amici eventi privati e si sottraevano ai riti comunisti, il cui rispetto in genere era preteso in segno di fedeltà al regime totalitario. Il caso del gruppo rock Plastic People of the Universe (anche se soltanto due membri del gruppo facevano parte delle sette persone accusate nel 1976) è qui assolutamente emblematico. I “seminatori di zizzania” furono mandati in prigione per aver voluto organizzare a casa loro o in alcuni locali dei concerti privati. L’autunno praghese del 1976 che come sappiamo dette un impulso decisivo alla creazione della Charta 77 (contenente le rivendicazioni in tema di riforme liberali in Cecoslovacchia), pare per molteplici aspetti ripetersi oggi a Mosca. Le giovani donne del gruppo punk russo Pussy Riot sono state condannate il 17 agosto a due anni di reclusione per “vandalismo” e “minaccia all’ordine pubblico”. Sono state accusate di aver cantato e saltato nella più importante chiesa di Mosca, pregando la Santa Vergine di “cacciare Putin” dal potere. Tra i due casi, naturalmente, ci sono grandi differenze. I Plastic People e i loro amici non si sono mai resi colpevoli di alcun gesto di provocazione plateale di carattere politico, né avevano alcuna intenzione di cacciare chicchessia dal potere. I loro concerti erano clandestini, e se mai c’è stato qualcosa di spettacolare in quello che facevano, si trattava soltanto dell’indifferenza dimostrata proprio nei confronti di tutto ciò che stava accadendo nel loro paese. Tutto quello che volevano era vivere a modo loro. Ma non è questo ciò che conta. Il giudice russo che abbiamo avuto modo di conoscere grazie alla trasmissione in diretta televisiva del processo, ha utilizzato un tono e un’argomentazione che ricordano il processo ai “seminatori di zizzania” durante il regime totalitario in Cecoslovacchia. Nessun capellone questa volta, ma soltanto gonne impudicamente corte. Il regime di Putin (e Putin stesso, in persona, a detta di alcuni esperti di questioni russe) si nasconde dietro questo processo politico che forse, per la prima volta come dimostra il nostro stesso passato , ci offre una scena che pare uscita dritta dritta dall’epoca comunista. È nell’arresto e nella condanna delle giovani donne del gruppo Pussy Riot che si mostra al meglio la vera natura del regime di Putin. Con la banalità delle presunte azioni criminose, grazie all’interesse dei media, abbiamo una prova flagrante dell’arbitrio di un despota crudele e animato da spirito di vendetta, che nello specifico costituisce una nuova versione soltanto un po’ più moderna del regime che serviva un tempo, quando era una giovane spia dei servizi segreti. Gli scettici si chiederanno perché, se ci si trova davanti a un caso così palese di arbitrio, le Pussy Riot ricevano un sostegno soltanto vago da parte dell’opinione pubblica russa, dei movimenti di protesta e dai sondaggi di opinione. Chissà… Ma la farsa messa in scena dal regime in tribunale e trasmessa in diretta televisiva non significa che Putin abbia dietro di sé l’opinione pubblica. In questo caso è evidente che si tratta di una deliberata prova di forza, che non era nemmeno destinata ai telespettatori di tutto il mondo, ma soltanto ai russi. Dalla sua elezione, Putin si deve confrontare di continuo con un’opposizione che non ha precedenti. E ha bisogno di intimidire i suoi avversari. Una cosa è certa: il grande interesse per questo caso che nutrono oggi i media, i responsabili politici e gli artisti più famosi si riverserà presto su un’altra causa. Ma, come ci ha insegnato la Cecoslovacchia comunista, la pressione politica può quanto meno impedire che queste giovani donne siano violentate o assassinate in carcere. Sarà dunque necessario convertire l’ondata di interesse e di indignazione che ha circondato il processo alle Pussy Riot, come quella che scosse la Repubblica Ceca, in una concreta pressione politica, senza parlare del fatto che è indispensabile trattare Putin e il suo regime alla stregua di nemici giurati dei valori che per noi anche per noi sono sacri già da 22 anni.
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