POLITIKA
Finiremo come la Jugoslavia?
Visti da Belgrado, i problemi che attanagliano l'Ue assomigliano sinistramente a quelli che hanno innescato la dissoluzione della federazione creata da Tito. Come nei Balcani degli anni ottanta, gli squilibri interni e il deficit democratico stanno portando a una paralisi istituzionale. Estratti. Fatte le debite proporzioni, l'Unione europea (Ue) comincia ad assomigliare sotto molti punti di vista alla Jugoslavia di Tito. E in questi giorni le ragioni per comparare l'incomparabile non mancano di certo. Facciamo un esempio: mentre l'Ue cerca di rafforzare il controllo del centro sulla periferia, le derive nazionaliste e le crescenti incompatibilità fra gli stati membri minacciano le sue basi. Abbiamo conosciuto questa situazione durate l'epoca d'oro della Jugoslavia (1981-1986), quando era molto vicina a entrare a far parte della Comunità economica europea (Cee). Ma non è l'unica similitudine. Berlino e Parigi, come un tempo Belgrado e Zagabria, sono i pilastri di questa Unione, nonostante i dissensi che esistono fra loro. Inoltre i rapporti non sono molto pacifici fra i paesi finanziariamente più responsabili e quelli che preferiscono spendere, così come fra i paesi più o meno sviluppati dell'Ue. Tutto ciò assomiglia molto ai processi che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia. Il concetto dell'Europa a due (o a varie) velocità ricorda l'idea di trasformare la Federazione jugoslava in una "confederazione asimmetrica", così come la formula dell'"unità e della fraternità dei popoli jugoslavi" ricorda la posizione difesa oggi da Bruxelles, cioè che l'interesse comune deve avere la meglio sulle inimicizie e sulle differenze. Si può anche fare un parallelo sul deficit democratico: in Jugoslavia, a causa del sistema del partito unico, i dirigenti non erano eletti a suffragio universale, così come gli alti funzionari che dirigono oggi l'Ue e questo nonostante il fatto che l'Unione sia composta da paesi con sistemi multipartitici. In entrambi i casi il timore di una predominio dei paesi più popolosi ha impedito di introdurre il principio "un cittadino, un voto". Bisogna inoltre ricordare che malgrado tutti gli interessi divergenti, l'Ue e la Jugoslavia sono state costruite sulla base di ideali che nessuno può contestare: la cooperazione è più importante dello scontro, l'amicizia può avere la meglio sulle inimicizie, il perdono è indispensabile per il progresso comune, la mescolanza di culture anche se contestata dalla teoria degli "scontri di civiltà" è inevitabile. Ma i due sistemi hanno incontrato dei problemi per ragioni simili. Il ricorso al principio dell'unanimità e del consenso ha provocata la crisi del processo decisionale e ha messo in difficoltà l'efficienza dell'Ue, come in passato era successo per la Jugoslavia. Nessuna delle due entità è riuscita a trovare un buon compromesso fra il centro e la periferia, fra il nazionalismo e l'internazionalismo, fra la politica interna e la politica comune, fra l'indebitamento e la crescita. Il crollo della Jugoslavia è frutto in gran parte dei suoi squilibri. Oggi l'Ue cerca di evitare lo scenario balcanico. Sono convinto che l'Ue non conoscerà la stessa sorte della Jugoslavia, perché la guerra è inimmaginabile in Europa. Ma non è questa l'unica ragione. Anche chi vuole il fallimento del progetto europeo è interessato a mantenere i risultati ottenuti, in particolare un equilibrio fra leggi di mercato e contratto sociale mai raggiunto in passato. E anche noi serbi aspiriamo a entrare nell'Ue, nonostante la lentezza della procedura.
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