www.ilcorsaro.info Ugo Mattei: è morto Keynes, è morta la democrazia, è morta la rappresentanza Ugo Mattei è professore ordinario alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino. E’ stato estensore e promotore dei quesiti referendari riguardanti la ripubblicizzazione dell’acqua ai referendum di giugno scorso. Una lunga intervista a Ugo Mattei, rilasciata a Filippo Ortona de "il corsaro - l'altra informazione". Il destino del "Forum dei Beni Comuni" e l'eredità dei referendum del 12 e 13 giugno 2011. Le occasioni mancate e gli insegnamenti per il futuro. La democrazia "sospesa" e l'azione politica in difesa dei beni comuni. Cosa resta della rappresentanza e come opporsi ad un modello di sviluppo profondamente sbagliato. Il 28 gennaio a Napoli prendeva l’avvio il “Forum dei Beni Comuni”, con l’obiettivo di redigere un manifesto che coordinasse gli enti locali alle battaglie per i “beni comuni”. Che fine ha fatto quell’iniziativa? Era stato un documento prodotto alla fine di giornate di lavori condotte sotto un sentire politico molto forte, quello di voler portare a termine e garantire la volontà popolare che si era espressa nei referendum di giugno per l’acqua pubblica e contro il nucleare. L’idea guida era che la lotta politica da intraprendere in quel momento dovesse essere il “mettere a frutto” (e tutelare) quella volontà emersa dai referendum. Purtroppo dopo quel manifesto di Napoli non è più successo nulla: più volte ho sollecitato De Magistris a farsene carico, ma per ora quel lavoro resta lì, fermo. Quali pensi siano le ragioni di questo “stallo”? Penso che sia per lo più disattenzione. In questo momento c’è molto fermento attorno al nuovo soggetto politico della “sinistra” e dei “movimenti” che dovrà confrontarsi con le elezioni del 2013. Temo che la questione dei beni comuni per come emerge dal manifesto di Napoli richieda uno sforzo organizzativo molto importante (contattare e convincere le amministrazioni locali, creare reti, ecce cc), che ad oggi non è stato programmato. Ad ogni buon conto, io continuo a spingere affinché si faccia qualcosa in quella direzione, ritengo poco serio non dare corso ad iniziative politiche una volta che sono state messe in piedi. Qual è lo stato di salute dei movimenti dopo il referendum di giugno? Penso che i referendum siano stati una gigantesca occasione perduta, a cui ha fatto seguito una reazione molto più dura di quanto ci saremmo potuti aspettare. Talmente dura da sfociare in un governo tecnico che ha sospeso la democrazia in tutto il paese, istituendo un modo di fare politica fascistoide. Chiunque protesta è aggredito o trattato come sovversivo. Penso che ciò sia una vera e propria reazione al risultato referendario di giugno: in quell’occasione, in quella fase storica, milioni di italiani cittadini di uno dei grandi paesi industrializzati avevano affermato di voler abbandonare il modello neoliberista. Dopo questa affermazione ha agito una reazione a cui abbiamo risposto con una spaventosa debolezza politica. Vi è stata pochissima capacità di dialogo fra il movimento per l’acqua pubblica e quello contro il nucleare; non si è riusciti a creare un coordinamento tra tutte quelle realtà che avevano accompagnato la battaglia referendaria; e dalla vittoria di giugno non abbiamo incassato politicamente quasi nulla, rimanendo spettatori nei processi politici successivi. Ciò che è rimasto, e che può accendere qualche speranza, sono le numerose vertenze locali e nazionali accomunate tra loro dall’idea dei beni comuni: dal Teatro Valle di Roma sino alla Val di Susa e agli scioperi FIOM, ci sono tutta una serie di questioni che si muovono attorno al lascito dei referendum di giugno. Sono tutti segni di una vivacità carsica del movimento. Dargli maggior forza politica è il prossimo obiettivo. Lei è uno studioso dei “beni comuni”. Quanto questa categoria è centrale nella critica della società? Quanto riguarda una “parte” e quanto il “tutto”? Secondo alcuni critici, se tutto è un bene comune, allora nulla lo è… L’aspetto straordinario dell’elaborazione teorica sui “beni comuni” è che, nonostante il suo stadio embrionale, essa sia divenuta in poco tempo capillare sino ad ergersi a bandiera di numerose e diversificate lotte. L’idea che sottende all’argomentazione di diversi critici quella per cui i “beni comuni” necessitino di una sorta di delimitazione è che le categorie del politico e del giuridico abbiano bisogno di essere circoscritte, altrimenti rischiano di divenire tuttologie. Io ho sempre preso una posizione diversa, ovvero favorevole all’utilizzo del termine “bene comune” nella sua accezione più ampia. Per me non è una definizione che si postula o delimita a tavolino, ma che invece si crea e realizza nelle lotte, nei conflitti. Ogni volta che una comunità ritrova una ragione di coesione nell’opporsi ad un modello di sviluppo sbagliato, proponendone con la sua azione uno più giusto ed equo, lì nasce un bene comune. Dunque, pensi ai “beni comuni” come concetto “dinamico”, non legata né alla natura né al lavoro umano… Penso che i “beni comuni” siano un vero e proprio cambiamento di paradigma e mentalità, che prima di tutto rifiuta il positivismo scientifico e la concezione del mondo come oggetto separato dal soggetto. Essi sono un’interpretazione politica di determinate risorse, che produce utilità da quelle stesse risorse. E’ una visione di tipo relazionale: i “beni comuni” sono un’azione politica di conflitto che riconosce determinate utilità come appartenenti intimamente ad una determinata comunità. Penso, inoltre, che questo tipo di concezione sia estendibile, cioè che possa divenire un giorno una visione organica di società alternativa, che potremmo chiamare “bene-comunismo”. Questa operazione è possibile, ma siamo ancora ben lontani dal poterla realizzare. L’elaborazione sui “beni comuni” non è ancora matura, e nella stessa sinistra c’è tutt’ora un dibattito molto intenso sulla questione. Molti, a sinistra, sono convinti che i “beni comuni” siano eccessivamente equidistanti tra pubblico e privato (laddove, secondo molti, una politica di sinistra dovrebbe prediligere le istituzioni statali e il suo intervento in economia). In che senso parli di “equidistanza” tra “privato” e “pubblico” nei “beni comuni”? Penso che oggi la distinzione tra privato e pubblico non abbia più senso. Lo Stato è ormai un’istituzione autoritaria, completamente governata dagli interessi privati. Da una parte ci sono lo Stato e la proprietà privata, dall’altra i “beni comuni”. I primi sono in combutta tra loro, sono guidati dalle medesime tipologie di persone e ispirati ad una eguale ideologia di guadagno ed accumulazione. I secondi sono una visione alternativa dell’esistenza e della società. I “beni comuni” sono un pensiero alternativo al neoliberismo, e in quanto tale in lotta per diventare egemonico. Un pensiero che si deve far carico della trasformazione dei rapporti di potere tra lo stato e i soggetti privati. E per far ciò, non sono più utilizzabili le categorie keynesiane, che richiedono una capacità dello Stato di governare un’economia ormai ingovernabile. La possibilità “statalista” non c’è più, è questa la grande differenza rispetto al ’29. La stagione del “governo democratico” dell’economia è finita con gli anni ’70. I soggetti che governano davvero, ormai, sono soggetti in tutto e per tutto privati. Questa tua visione, che rimette completamente in discussione il rapporto tra capitalismo e democrazia, non rischia di mettere a repentaglio l’idea stessa di democrazia rappresentativa, per come l’abbiamo conosciuta? Assolutamente! Per me è morto Keynes, è morta la democrazia ed è morta la rappresentanza. Oggi non siamo più in un contesto democratico, ma in una società dove vige la legge del più forte una prepotenza legittimata da numerosi dispositivi mediatici e culturali. Dobbiamo adoperarci a togliere di mezzo tutta una serie di categorie concettuali, ed elaborarne di nuove. La democrazia rappresentativa deve essere sostituita da una democrazia partecipativa. Bisogna ripensare la forma stessa dello Stato democratico. Non possiamo sapere quali saranno i risultati che ci attendono, ma l’unica sicurezza che abbiamo oggi è l’incapacità del Parlamento odierno di rappresentare gli interessi del popolo: oggi il Parlamento italiano rappresenta il 4% degli italiani. Un livello di gradimento francamente ridicolo. Facciamo finta di essere in democrazia, quando questa di fatto non esiste neanche più. Dobbiamo adoperarci a ristrutturare la democrazia, utilizzando ciò che vi è sul terreno delle idee ad esempio le categorie legate ai “beni comuni” oppure semplicemente glissare, ma chi dorme in democrazia si sveglia in dittatura. Abbiamo dormito per tanti anni; ora siamo in dittatura. In che senso siamo in dittatura? In Italia e non solo non siamo più in una situazione democratica. E’ un contesto subdolo di dittatura fascista. Lo penso per davvero, non per gusto della boutade. Sono convinto che l’emergenza democratica in questo paese abbia raggiunto il punto di non ritorno. O ce ne rendiamo conto tutti assieme, immaginando degli strumenti di rappresentanza che nuovamente facciano agire le persone, oppure rischiamo di rimanere nella situazione odierna per sempre. Pensi che i movimenti italiani siano pronti a queste sfide? Qual è il tuo giudizio sulle loro recenti evoluzioni? Penso che l’antagonismo nostrano si stia trasformando, andando sempre più verso una direzione propositiva, inserendo tutta una serie di esperienze nel quadro più ampio dei “beni comuni”. Dal Cinema Palazzo al Teatro Valle, tante esperienze “antagoniste”, o meglio vertenziali, sono diventate dei veri e propri modelli per portare a termine con successo battaglie sui beni comuni. Credo che il nostro mondo antagonista, con la sua storia, riconvertito al bene-comunismo possa diventare un’avanguardia, anche rispetto ai movimenti internazionali. Ciò che manca, oggi, è il rispetto per le diversità delle tattiche, una mancanza che ha prodotto troppe rotture e ferite. A tal proposito, il 15 Ottobre è stata una delle giornate dalle quali è passata la rottura. Tu cosa pensi di quella giornata? Penso che sia stata eccessivamente drammatizzata. Non credo che quella giornata abbia rappresentato un mero fallimento. E’ stato un evento che ha avuto dei tratti drammatici, sicuramente poteva essere governata e gestita meglio, ma tutto sommato non l’ho interpretata come una catastrofe che dovesse segnare un punto di non ritorno nella marginalizzazione dei movimenti. Avremmo dovuto prenderla in modo più soffice. D’altra parte, sono convinto che i veri “antagonisti” siano la gestione poliziesca delle piazze, che tende a creare numerosi problemi ai movimenti. Dopodiché, abbiamo tanti nemici dall’altra parte, e individuarli al nostro interno è una cosa che mi fa enormemente soffrire. La violenza reale è altra, è il carosello delle camionette a Piazza del Popolo, rispetto al quale i bancomat in frantumi o i cassonetti in fiamme stanno ad un livello diverso. In questi giorni si parla nuovamente di legge elettorale. Oltre ad essere giurista, nel ’91 sei stato nella commissione che redigette i referendum Segni e Giannini. Che idea ti sei fatto sull’attuale discussione? Non ho seguito da vicino la questione, che mi interessa poco. Per un po’ ho pensato che le leggi elettorali potessero correggere gli stati di salute delle democrazie… ero maggioritarista, volevo il sistema all’inglese. All’epoca pensavo che il problema fosse la partitocrazia, e che la soluzione fosse istituire un rapporto diretto tra il cittadino ed il collegio elettorale. Poi si è visto cosa è successo. Strada facendo ho capito che il proporzionale rappresentava in maniera più adeguata punti di vista che altrimenti sarebbero stati esclusi dalla comunicazione politica il fatto che la sinistra sia fuori dal parlamento è figlio di questa considerazione. Tuttavia, non penso che nell’attuale crisi della rappresentanza questo abbia grande importanza: non credo che una legge elettorale possa effettivamente cambiare alcunché, in questa fase. Il punto non è ripensare la legge elettorale, ma ripensare le forme dell’organizzazione politica, ovvero ripensare la forma partito. A mio modo di vedere, è un errore pensare che una legge elettorale migliore possa ridare rappresentanza a mondi non più rappresentati. Ciò che è in gioco è al di fuori della partita meramente elettorale e riguarda l’intima organizzazione della democrazia. Cosa ci dici della situazione di crisi de Il Manifesto? Quali saranno le prossime mosse del collettivo di redazione? Ormai siamo in liquidazione coatta amministrativa. Il consiglio di amministrazione collettivo del Manifesto, di cui ero membro, è disciolto. Ci sono tre amministratori, che hanno detto molto chiaramente che ci rimangono sei mesi di vita. Se in questo periodo riusciremo a raggiungere il pareggio di bilancio, ci concederanno altri sei mesi. In seguito probabilmente metteranno la testata in vendita. Per me è motivo di angoscia quotidiana, anche se sono convinto che ce la faremo. Ultimamente stiamo riflettendo coi compagni se e come mettere in piedi un editore collettivo, che coinvolga i lettori e l’attuale collettivo redazionale, per eventualmente comperare la testata una volta che questa sarà messa in vendita. Sarebbe molto spiacevole che Il Manifesto facesse la fine dell’Avanti!. Rossana Rossanda, in suo articolo d’analisi sulla situazione de Il Manifesto, sosteneva “l’impossibilità di dirsi comunisti”. Io penso che abbia ragione. Nono sono mai stato iscritto al PCI, né particolarmente aderente alla tradizione del comunismo in senso “tecnico”. Sicuramente, da un lato la scritta “quotidiano comunista” è poco “sexy”… mi piacerebbe che ci fosse scritto “quotidiano bene-comunista”, o che non ci fosse scritto nulla. Da un altro punto di vista, togliendolo adesso mi sembrerebbe di perdere un’identità importante. Il “comunismo à la Manifesto” è una concezione in cui mi identifico: pluralismo, visione critica, radicale egualitarismo. Ma non penso che la questione sia così importante né attuale.
|