Articolo apparso su “Il Reportage”, numero 9, gennaio-marzo 2012 ora nelle librerie. http://www.nazioneindiana.com La rivoluzione “silenziosa” che ha salvato l’Islanda Luogo dell’anima, sogno di molte infanzie, una sorta di terra sacra. Esploratori, monaci, viaggiatori solitari, artisti e poeti, in tantissimi hanno sognato prima o poi di mettere piede su questa landa piena di fiordi e steppe, elfi e pietre runiche, dove risuonano antiche saghe e una millenaria geometria naturale ogni cosa stratifica. Guardando l’Islanda dall’alto, un’isola sola nell’Atlantico, sfigurata da fessure da cui sono eruttate immense colate laviche, viene da chiedersi com’è possibile che la crisi economica mondiale sia partita da qui, da questa frazione di territorio grande un terzo dell’Italia, abitata da sole 320mila anime, un luogo che sembrerebbe lontano da ogni presenza umana, innocente, incontaminato, quasi inaccessibile a parole come spread, crack, rating. Eppure, il rischio-default che in questi mesi spaventa l’Europa intera ha avuto inizio proprio qui, con l’indebitamento delle banche islandesi verso i paesi esteri, Inghilterra e Olanda, soprattutto. Tre anni fa la situazione era estremamente delicata ed è stata necessaria una “rivoluzione silenziosa” per evitare un disastro sociale. Opponendosi all’ipotesi di un salvataggio da parte della Bce e dell’Fmi, o a cessioni della propria sovranità a nazioni straniere, gli islandesi sono riusciti a convincere le istituzioni che il debito non è un’entità sovrana in nome della quale è legittimo sacrificare un’intera nazione e che i cittadini non dovevano pagare per gli errori di un manipolo di finanzieri. Questo ha portato alle dimissioni del governo e alla nazionalizzazione della maggioranza degli istituti bancari, oltre all’arresto dei banchieri che avevano spinto il paese alla bancarotta. Atterrati al piccolo aeroporto Keflavik, a pochi chilometri dalla capitale Reykjavik, noleggiamo un fuoristrada per muoverci sulle strade sterrate dell’isola. Il paesaggio è lunare: pietre laviche ovunque e fumi di gas che salgono da terra; non c’è un solo albero, solo linee essenziali con geometrie senza angoli che salgono e scendono dolcemente. Il metro di misura è l’infinito. Siamo sulla Ring Road, la strada principale dell’Islanda, l’unica interamente asfaltata, che percorre ad anello l’intera isola e sembra attraversare un paesaggio preistorico. Lungo la strada, tuttavia, in mezzo ad ammassi di rocce scure, appaiono grandi tubi metallici che viaggiano paralleli a noi sputando vapore acqueo. Sono le condutture di una delle tante centrali geotermiche islandesi, precisamente quella di Svartsengi, una delle più importanti, vicino al complesso termale Blue Lagoon: una piscina naturale all’aperto, contornata da nere rocce laviche, frequentata ogni anno da migliaia di visitatori convinti di uscire ringiovaniti da quelle acque minerali dense di silice scivoloso. Incontreremo spesso queste centrali, con quei tubi lucidissimi che sembrano eliminatori di scorie radioattive, ma che in realtà producono solo energia naturale. Colpisce il contrasto tra la dimensione primordiale della natura e l’avanzatissima tecnologia di cui dispone l’Islanda, che da decenni è riuscita a sfruttare al meglio le risorse della propria terra, senza per questo compromettere l’equilibrio ambientale. L’energia geotermica è una risorsa fondamentale, grazie alla quale quest’isola minuscola, che confina con il circolo polare artico, è diventata uno dei Paesi più ricchi al mondo: dopo lo spaventoso default finanziario, l’indipendenza energetica ha contribuito ad avviare quella rapida ripresa economica che sta diventando un modello per tutto l’Occidente. Un altro aspetto che colpisce è il legame sottile e profondo che unisce la natura di questo luogo con lo spirito di chi lo abita. Thomas Mann scriveva che la patria ideale del sentimento era “nordica”, ritrosa interiorità sensibile capace di raccogliersi nel minimo e nel vicino, nell’intimità della casa sperduta in un paesaggio solitario. E l’Islanda è proprio questo: una terra che insegna a svuotare la vita di ogni superfluo, a toglierle ogni oncia di grasso sentimentale. Un luogo, in particolare, sembra riassumere questo spirito, uno dei più misteriosi dell’Islanda: il lago glaciale dello Jökulsárlón, dove gli iceberg si staccano ripetutamente dal fronte del Vatnajökull, il più grande ghiacciaio d’Europa. Ci arriviamo percorrendo la Ring Road, a sud dell’isola, poco distante dalla cittadina di Höfn. Massi di ghiaccio si schiantano in acqua spostandosi inesorabilmente verso il mare. La vista lascia senza fiato: una specie di laguna fredda, scura, senza vegetazione. È come se un pezzo di Polo Nord si fosse staccato e avesse deciso di stabilirsi qui. Architetture poliformi abitano questo luogo, il ghiaccio si colora di azzurro quando la luce lo attraversa con una certa angolazione e si annerisce quando la lava entra negli interstizi. Gli iceberg, sospinti dal vento fortissimo, si muovono in continuazione. Si ammassano insieme, collidendo e assestandosi, oppure si sparpagliano all’interno dello Jökulsárlón. È uno spettacolo che rivela tutta la forza misteriosa della natura: un’immensità che sembra volerci risucchiare dentro le sue fauci. Non a caso Leopardi, nel suo famoso “Dialogo”, fa incontrare la Natura al suo islandese, raffigurandola come una figura femminile di enormi proporzioni “di volto mezzo tra bello e terribile”, indifferente all’inerme viaggiatore. Ai piedi del Vatnajökull la temperatura è polare. Saliamo su una specie di anfibio, ovvero un grosso camion che, a contatto con l’acqua, non usa più le ruote ma pinne retrattili. L’aria è tersa, i colori incredibili. L’acqua vira al turchese, dà un’impressione di assoluta trasparenza. Il camion diventato barca sfiora gli iceberg, alcuni raccolti l’uno accanto all’altro come per proteggersi. Questi massi di ghiaccio, visti da vicino, assumono i colori e le forme più diversi: un bianco folgorante, con profili che ricordano le montagne himalaiane, frastagliati, tozzi, appuntiti e grandiosi. Dall’acqua ogni tanto fanno capolino testoline scure di foche che riposano sulla costa vicina. Benché possa sembrare un prodotto dell’ultima glaciazione, la laguna si è formata soltanto 75 anni fa e cresce a ritmi consistenti a causa del repentino ritirarsi del ghiacciaio. La laguna è piena di turisti, segno che la ripresa economica è in atto, dopo la grande crisi. È come se gli abitanti avessero deciso di uscire dalle difficoltà economiche con il bene più prezioso di cui dispongono, la natura. Non a caso, qualche mese fa la popolazione è insorta contro un magnate immobiliare cinese che aveva offerto l’equivalente di circa 70 milioni di euro per acquistare 300 chilometri quadrati di deserto islandese: il suo obiettivo era la costruzione di un gigantesco resort fatto di ville, alberghi e campo da golf. Il progetto non è andato in porto. Ma l’Islanda sa che deve tenere sempre la guardia alta: la sua è una posizione strategica, soprattutto a causa dello scioglimento dei ghiacciai, che aprono nuove vie marittime e rendono le risorse minerarie della regione più accessibili. Molti Paesi, in particolare la Cina, vedono nell’Islanda un potenziale hub per il commercio globale delle merci, soprattutto asiatiche. Questo è un altro dei possibili rischi del disastro economico che ha investito l’Islanda: la svendita del patrimonio naturale “per fare cassa”. Ma questo è un Paese abituato alle bufere e ai terremoti e i discendenti degli esploratori vichinghi hanno temprato il loro coraggio e la loro saldezza aggrappandosi a questa terra rude, superando con tenacia colonizzazioni, carestie ed eruzioni. Di recente qualcuno ha definito l’Islanda la “nuova Atene” (paragonandola alla capitale della grande civiltà antica, non certo alla Grecia di oggi), per la straordinaria rivoluzione democratica e pacifica che ha intrapreso, un Paese in cui la nuova carta costituzionale è stata scritta con il coinvolgimento di tutti gli abitanti, usando come mezzo anche i social network: su Facebook, il lavoro della Commissione Costituzionale è stato vagliato, discusso e modificato grazie alla partecipazione attiva dei cittadini che potevano esprimere la loro opinione liberamente. “Ho capito per la prima volta cosa davvero significa la parola democrazia. Avere contribuito a scrivere la Carta, oltre a riempirmi di orgoglio, mi fa sentire molto responsabile verso il mio Paese e verso la libertà della mia gente”, dice una ragazza, dal nome impronunciabile, incontrata in uno dei tanti locali della capitale Reykjavik. Gli investitori internazionali sono tornati ad avere fiducia in questo Paese, a dimostrazione che le linee economiche dettate da Fmi e le analisi delle società di rating non sono dogmi. In fondo quest’isola, squassata da terremoti e scolpita dalle eruzioni è la terra più giovane del mondo e non ha cessato di ingrandirsi in balia della tettonica e dell’espansione dei fondi oceanici. E i suoi abitanti sono consapevoli di appartenere a un mondo imperfetto, tanto che sono loro stessi i primi a dire di essere solo al quinto giorno della creazione, geologica quanto civile, di quest’isola incompiuta.
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