http://www.eilmensile.it Esperimenti di nuova democrazia Intervista a David Grarber, anti-leader del movimento Occupy Wall Street e ideatore dello slogan del 99 per cento. Antropologo americano, docente alla Goldsmiths University of London (dopo essere stato cacciato da Yale per la sua militanza anarchica) e autore di numerosi libri. In Italia sono stati recentemente pubblicati Critica della democrazia occidentale (Eleuthera) e Debito (Il Saggatore). David Graeber, iniziamo con una domanda leggera: hai inventato il famoso slogan “Noi siamo il 99 per cento”, o almeno te ne viene attribuita la paternità… Sì, la vera storia è che io ho solo suggerito di chiamare il movimento come “il movimento del 99 per cento”. Due indignados spagnoli, Luis e Begonia, l’hanno trasformato in “Noi, il 99 per cento” e poi è stato un attivista coreano del movimento Food Not Bombs, di nome Chris, ad aggiungere il “siamo”. Quindi è stata una creazione collettiva. Il 99 per cento opposto all’un per cento: un nuovo modo per riaffermare una coscienza di classe in termini moderni? Direi di sì. E’ da 30-40 anni che negli Stati Uniti non si parla più di classi, nemmeno all’interno dei movimenti sociali. Questo concetto è stato completamente tolto di mezzo e sostituito da una discussione politica incentrata su altri concetti identitari. L’un per cento non sono solo i ricchi che hanno tratto profitto dall’espansione economica, ma anche quelli che sono stati capaci di trasformare questa ricchezza in potere politico, che a sua volta ha portato loro ulteriore ricchezza. Quindi non parliamo solo di classi, ma della nuova dimensione che il potere di classe ha assunto nell’era del capitalismo globale finanziarizzato. I vecchi criteri di analisi non sono più validi: lo slogan del 99 per cento è stato in grado di inaugurare un modo di discutere delle nuove dinamiche di classe e delle nuove forme di potere di classe, aprendo la strada a più complesse analisi di lungo termine. Parlavi del potere politico del denaro. Una delle principali rivendicazioni del movimento Occupy Wall Street è proprio quello di ”far uscire il denaro dalla politica”, per esempio attraverso l’abolizione della personalità aziendale. Cosa ne pensi? Questo è un tema unificante perché spiega bene quello che facciamo, perché ci accampiamo davanti a Wall Street. C’è stata un’enorme pressione sul movimento, anche in forma di violenza fisica, perché presentassimo domande specifiche entrando nel processo legislativo, con il fine ultimo di forzarci a diventare parte del sistema. Non abbiamo ceduto a queste pressioni perché non ci interessa giocare su questo piano in quanto il nostro è un sistema politico non democratico basato essenzialmente sulla corruzione istituzionalizzata. Sarebbe assurdo per noi entrare nel processo legislativo al fine di trasformare questo sistema, perché per farlo corromperemmo anche noi. Il concetto unificante è che il sistema politico americano connesso a Wall Street non è una democrazia: questo per noi è il tema-chiave attorno cui ruota tutto il resto. E’ la natura stessa del capitalismo ad essere cambiata. Negli anni ’50 si diceva che quel che è bene per la General Motors è bene per l’America perché esistevano industrie estremamente produttive e fortemente tassate, e queste tasse venivano riutilizzate dallo Stato per costruire strade e autostrade che favorivano l’espansione dell’industria petrolifera e via così in un circolo virtuoso. Oggi invece l’industria automobilistica, ad esempio, non guadagna più producendo automobili ma grazie alle sue attività finanziarie. I profitti di Wall Street provengono oggi in gran parte dalla finanza: queste compagnie, che praticamente non pagano tasse, prendono soldi direttamente dalla gente e li usano per corrompere i politici al fine di ottenere da loro il diritto di prenderne ancora di più. Questo è essenzialmente il sistema che abbiamo. Le questioni economiche tirano necessariamente in ballo questioni politiche, e viceversa: tutto è tenuto insieme dal ruolo del denaro in politica. Molti dicono che lo slogan ‘Noi siamo il 99 per cento’ ha in qualche modo sostituito quello della campagna elettorale di Obama, ‘Sì noi possiamo’ come una nuova speranze per un reale cambiamento dopo la disillusione dell’amministrazione Obama. Che impatto pensi avrà il movimento Occupy sulle elezioni presidenziali di novembre? Abbiamo un candidato totalmente schierato con Wall Street e un altro candidato che è lui stesso Wall Street! Dov’è la scelta?! Queste elezioni non fanno che mostrare quanto abbiamo ragione a dire che il processo politico è ormai completamente controllato dall’uno per cento perché entrambi i candidati sono invisi alla base dei loro partiti: quella dei Repubblicani si deve tenere Romney perché è lui che ha i soldi; quella dei Democratici che si era mobilitata per Obama oggi è completamente disillusa da lui ma lo deve votare comunque perché non ha scelta. Questa è la definitiva dimostrazione di come la scelta dei nostri governanti in America non sia affatto democratica e che abbiamo ragione a non voler lavorare all’interno del sistema politico rigettandolo in toto. Hai scritto un libro sulla crisi della democrazia rappresentativa occidentale, nel quale sostanzialmente dici che una società democratica alternativa si sta già sviluppando “nel guscio di quella vecchia” sotto forma della democrazia diretta praticata dai movimenti Occupy e Indignados. Ma come può questo modello diventare una vera alternativa e non rimanere un esperimento marginale e ininfluente? Bisogna iniziare dal basso quando si fa una rivoluzione che è allo stesso tempo politica e culturale. Il problema che noi abbiamo in America, per esempio, è che tutti pensano di vivere in una società democratica ma quasi nessuno ha esperienza di cosa significhi praticare la democrazia, prendere decisioni in modo democratico. Noi stiamo cercando di creare la cultura, l’abitudine, la sensibilità di una società democratica, il che è un gran lavoro. Quale tipo di strutture istituzionali più ampie potranno emergere una volta che queste abitudini diventeranno connaturate, non lo si può prevedere. Ci sono tante idee… su come le istituzioni democratiche si possono confederare, se ci debbano essere sistemi di selezione attraverso estrazione (invece che per elezione, ndr), se ci debbano essere delegati richiamabili, su come combinare una radicale decentralizzazione con qualche tipo di istituzioni specializzate… non lo possiamo ancora sapere. Stiamo parlando di reimmaginare tutto quanto, non di piccoli cambiamenti. Come giudichi il grande successo ottenuto nelle recenti elezioni qui in Europa da nuove formazioni politiche (come i vari Partiti dei Pirati o il movimento del comico Beppe Grillo qui in Italia) che si presentano come alternativa all’illusoria scelta ‘Coca-Pepsi’ offerta dai partiti tradizionali e come sostenitori di una democrazia più partecipativa? E’ difficile per me giudicare, provenendo dall’America dove il sistema politico è costituzionalmente bloccato da due partiti. In un sistema parlamentare c’è più spazio di manovra e non stupisce che in un momento di ribellione di massa contro il vecchio ordine politico vengano fuori nuovi partiti, che il sistema proverà a cooptare. In America non c’è nemmeno questa opzione perché siamo imprigionati in una struttura bipartitica molto più corrotta e asservita al potere economico di com’è qui. Non potendo sperimentare partiti diversi, a noi americani non rimane che rifondare tutto dal basso. A ben vedere questa opzione ha un grande valore, perché quando si rimane legati alle dinamiche di potere gerarchiche che caratterizzano lo Stato, quando si diventa legislatori di politiche che poi lo Stato applica per mezzo del suo apparato di violenza, ci sono sempre forme di compromesso che entrano in gioco. Compromessi che invece non esistono quando si mantiene un’autonomia dalle strutture esistenti. In conclusione, pur giudicando interessanti e validi gli esperimenti di questi nuovi partiti, ritengo che alla fine avere spazi dove sia possibile sperimentare una rielaborazione completa delle istituzioni sia più importante nel lungo periodo. Un’importante questione qui in Europa è che, con il pretesto di avere politiche più coordinate per affrontare la crisi economica, l’Unione europea si sta muovendo verso la creazione di un super-Stato europeo centralizzato all’interno del quale i singoli Paesi europei perderanno ogni residua sovranità nazionale. Cosa ne pensi? Non avrei da obiettare se questo processo fosse accompagnato da una decentralizzazione del potere a livello locale, ma non è proprio quello che sta accadendo. Creare un ulteriore livello di burocrazia non responsabile (verso i cittadini, ndr) difficilmente migliorerà le cose. L’altro problema è in nome di chi e come viene portato avanti questo processo: la creazione dell’Europa è stata costruita attorno a principi neoliberali secondo i quali il confronto ideologico è essenzialmente finito, ma che in realtà sono serviti a mascherare una costante redistribuzione della ricchezza a favore di una percentuale minima della popolazione. Una pratica che verrà portata avanti con maggior forza da ogni nuovo sistema sovraordinato, in assenza di una genuina democratizzazione di base a livello locale. L’altro libro che hai scritto tratta il concetto del debito. Il debito pubblico è oggi il principale problema delle economie occidentali, l’altare sul quale vengono sacrificati il welfare e i diritti dei lavoratori. Quale potrebbe essere, secondo te, una soluzione realistica a questo fondamentale problema della nostra società moderna? E’ ironico che la gente parli del debito come se si trattasse di un’obbligo sacro. Dominique Lagarde ha recentemente detto che nessuno può mettere in dubbio il fatto che tutti debbano pagare i propri debiti. Ma nessuno ha detto lo stesso riguardo ai debiti dei gruppi assicurativi americani, o riguardo alle istituzioni finanziarie ‘troppo grandi per fallire’ come Goldman Sachs o Bank of America che se la son cavata nonostante miliardi di dollari di debito. Com’è possibile considerare eticamente doveroso salvare dalla bancarotta Goldman Sachs, ma non la Grecia, nonostante le sofferenze umane che questa scelta implica? Nessuno avrebbe sofferto in caso di fallimento di Goldman Sachs, mentre in Grecia è un disastro! Una delle cose che ho cercato di approfondire nel mio libro è proprio come siamo arrivati a questa assurda moralità del debito, ancora oggi difesa nonostante tra il 2008 e il 2011 sia stata smascherata. Perché non siamo stati in grado di dire: “Ok, il denaro è una convenzione sociale che creiamo e distruggiamo a nostro piacimento, quindi basta parlare di debito e interessi da pagare come dogmi indiscutibili: sono semplici promesse! Noi diamo per scontato che quando un politico promette qualcosa agli elettori non mantenga la sua parola, ma riteniamo inconcepibile non rispettare la promessa data a un hedge fund. Due pesi e due misure. In quanto anarchico e iniziatore di Occupy Wall Street, consideri questo movimento con la sua democrazia orizzontale e partecipativa, le sue assemblee generali, il suo impegno politico a livello di comunità locali come un movimento anarchico? Magari inconsapevolmente anarchico? Molte delle persone coinvolte fin dall’inizio nel mettere in piedi le strutture decisionali delle assemblee generali in base al principio del consenso, nel seguire una strategia di disobbedienza civile senza chiedere autorizzazioni o trattare con la polizia… Tutte queste decisioni-chiave iniziali sono state prese da anarchici o comunque sulla base di principi anarchici. La maggior parte degli anarchici coinvolti nella nascita del movimento non erano anarchici settari, ma gente che vuole agire in base a princìpi anarchici ma che non considera l’anarchia come identità politica bensì come un orizzonte politico di uscita dal capitalismo e di creazione di istituzioni compatibili con una società autentica e libera Da quando è nato il movimento, milioni di persone in America hanno potuto sperimentare forme di organizzazione anarchica, molti senza averne alcuna consapevolezza.
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