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29 marzo 2012

Cina, il metodo Wukan e la democrazia dal basso
di Gabriele Battaglia

Si è insediato il comitato di villaggio di Wukan, eletto a suffragio universale e accolto come una pietra miliare per l’evoluzione democratica – e una democrazia dal basso – della Cina.

Il villaggio di pescatori del Guangdong era stato protagonista di una lotta collettiva contro le requisizioni di terre lungo tutto il 2011. A dicembre l’epilogo: dopo la morte dell’attivista Xue Jinbo – sospetta perché avvenuta mentre era in custodia nella caserma della polizia del villaggio – la cittadinanza scaccia i funzionari locali e comincia un’esperienza di autogestione. La polizia  circonda Wukan ma, dopo una decina di giorni, il segretario provinciale del Partito Wang Yang fa togliere l’assedio, annulla il progetto di speculazione immobiliare da cui discendevano le requisizioni e promette elezioni libere per il 1° marzo.
È l’inaugurazione del “metodo Wukan” e un’ulteriore spinta all’ascesa del “liberal” Wang, visto oggi come probabile futuro membro del comitato permanente del Pcc – la stanza dei bottoni che governa l’intera Cina – e contrapposto all’altro astro nascente, a lui diametralmente opposto: Bo Xilai, il leader di Chongqing.
A inizio marzo, Bo Xilai viene silurato mentre lo stesso premier (ancora) in carica, Wen Jiabao, fa appello a ulteriori aperture politiche per la Cina che verrà.

Sia inteso. In Cina, a livello locale, esistono già forme di partecipazione politica democratica. La vicenda di Wukan è però significativa perché l’ampliamento dei diritti scaturisce da una lotta: da un conflitto che, evidentemente, si è ben sposato con l’ambizione politica di un leader in ascesa.
Che il metodo si stia diffondendo lo dimostrano altri fatti di cronaca. Domenica scorsa, circa  400 abitanti del villaggio di Wanfeng, nella zona di Shenzhen, hanno bloccato una strada per protestare contro gli espropri di terre, effettuati da funzionari recentemente arrestati perché scoperti collusi con la locale sezione di una triade (cioè mafia) di Hong Kong, la Sun Yee On. Molti poliziotti sono arrivati sul luogo della protesta, ma nessuno dei manifestanti è stato arrestato. I funzionari hanno promesso di indagare la contabilità finanziaria del villaggio e le proprietà immobiliari.

In un passato non troppo lontano, queste storie finivano di solito diversamente: nel nome dell’”armonia”, venivano arrestati i capipopolo più esposti, da un lato, e i funzionari più indifendibili, dall’altro. Il messaggio era chiaro: ci pensiamo noi, Stato, a punire duramente la corruzione, parola passe-partout che comprendeva, nelle intenzioni del potere, qualsiasi problema politico, sociale, economico la gente sperimentasse sulla propria pelle; voi non osate ribellarvi, perché in tal caso si tratta di attentato all’armonia sociale.
Peccato che la corruzione continuasse indisturbata, gettando sempre più discredito sul Partito e sullo Stato.

Wukan ha segnato una svolta e Wang Yang è ormai visto come il “riformista” dell’establishment cinese, con tanto di endorsement – per interposto siluramento di Bo – che arriva da Pechino. La trasparenza garantita dall’alto (“fidatevi!”) viene per la prima volta sostituita da quella che nasce dal basso.
Tutto meraviglioso?
Non esattamente: il comitato di Wukan, appena insediato, ha scoperto che tutti i documenti sulla situazione finanziaria, sulla popolazione e sulle proprietà immobiliari del Paese sono spariti. I funzionari deposti avrebbero detto che le carte furono distrutte il 20 settembre scorso, quando una folla inferocita prese d’assalto la sede del comitato. I nuovi leader del villaggio non ci credono.
È segno che esistono ancora molte zone oscure. Anche a Wukan.

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