http://www.linkiesta.it Il nemico numero uno del regime cinese? Un avvocato povero e cieco È così celebre che quando si è sposato la televisione ha mandato in onda le immagini. L’avvocato cieco Chen Guangcheng è ora un caso politico: fuggito dalla sua casa prigione è finito in una complessa trama di questioni politiche e diplomatiche che passano sul filo dell’asse Pechino-Washington. Nato povero, studi da autodidatta, Chen è uno strano dissidente: lotta per l’applicazione delle leggi cinesi, non per sovvertirle. PECHINO Un cieco che vede lontano come nella migliore tradizione della mitologia greca, ma sopratutto un cittadino comune con una coscienza etica commovente. Quando il 22 aprile Chen Guangcheng scavalca il muro di cinta della sua casa-prigione nello Shandong, regione nordorientale della Cina, e si avventura in una fuga di oltre 600 chilometri che deve aver avuto del rocambolesco e che deve essere stata aiutata da molti, non lo sa nessuno. Solo alcuni giorni dopo il 26 quando funzionari non in divisa fanno irruzione nella casa del fratello maggiore e del nipote e li portano in un’altra località, il mondo viene a conoscenza della “fuga del dissidente cieco”. Il giorno seguente alcuni attivisti fanno sapere che Chen è a Pechino, in un luogo sicuro. E mentre si sparge la voce che l’avvocato autodidatta si sia rifugiato proprio all’ambasciata americana, Bouxun il sito di informazione gestito da cinesi residenti all’estero fa circolare in rete un video in cui Chen Guangcheng si rivolge direttamente al premier Wen Jiabao. «Caro primo ministro Wen, tra grandi difficoltà sono finalmente riuscito a scappare», comincia a dire, per proseguire con tre richieste: indagare e punire i funzionari locali che perseguitano la sua famiglia; evitare rappresaglie contro i suoi famigliari ancora agli arresti e che la legge venga davvero applicata nei casi di corruzione dei funzionari pubblici. Il mondo è incredulo, ma Pechino e Washington tacciono. Parlano solo legali, attivisti e giornalisti. Si cerca di capire che succede, cosa hanno in mente le due potenze. Si sa solo che il segretario di stato americano Hillary Clinton e il segretario del tesoro Timothy Geithner stanno per arrivare per dare il via al “Dialogo strategico ed economico” con le rispettive controparti cinesi. Chen Guancheng in Cina è un simbolo: un uomo che lotta per l’applicazione delle leggi cinesi, non per sovvertirle. E la ruanjin letteralmente detenzione morbida, gli arresti domiciliari a cui è costretto da settembre 2010 assieme a tutta la sua famiglia - sono un abuso dei funzionari di Partito della sua regione. Questo approccio alla legge in cinese si chiama weiwen, implica il considerare la violenza un modo tra i tanti per controllare completamente la società. Quello contro cui i tanti attivisti si scagliano. Inoltre, la storia personale di Chen Guangcheng è commovente. Nato nello Shangdong nel 1971, all’età di un anno una malattia lo rende completamente cieco. Rimane analfabeta fino a quando, nel 1994, non viene accettato dalla scuola superiore per ciechi di Qingdao. E non senza difficoltà. I ciechi, secondo una legge della Repubblica popolare cinese del 1991 «per la protezione delle persone fisicamente handicappate», sono esentati dal pagare le tasse, anche quelle scolastiche. Così quando alla scuola superiore di Qingdao gli chiedono di pagare l’iscrizione, Chen denuncia una violazione del diritto dei disabili. Nel 2003 fa causa alla società statale della metropolitana di Pechino, perché non gli consentiva di viaggiare gratis esentasse - come la legge stabiliva. Queste esperienze ebbero tutte risultati positivi: il diritto allo studio riconquistato, biglietti della metro effettivamente gratis per i disabili, una discreta copertura mediatica e tutta l’opinione pubblica dalla sua parte. Quando Chen torna al suo villaggio, lo fa per fare quello che gli riesce meglio: riaffermare i diritti negati. Lo fa così bene che in paese tutti lo chiamano l’avvocato, anche se il titolo non l’ha mai avuto. I suoi quattro fratelli passano il loro tempo a leggergli a turno la legislazione vigente. Riesce perfino a impedire a una cartiera di rovesciare rifiuti tossici nel fiume del villaggio. È diventato così famoso che quando si sposa, una televisione locale manda in onda alcune riprese della cerimonia. Ma a un certo punto fa il passo più lungo della gamba, forse senza neanche accorgersene. In Cina succede. Molte delle donne della municipalità di Linyi che avevano già avuto due figli, vengono costrette all’aborto del terzo embrione o, addirittura, alla sterilizzazione forzata. Queste pratiche erano state abbastanza comuni una ventina d’anni prima, quando la legge sulla pianificazione familiare era entrata in vigore. Ma poi erano state vietate: si può infliggere una multa salatissima per ogni figlio in eccesso, ma non si può agire direttamente sul corpo delle donne. Il problema sono i funzionari locali: il mancato raggiungimento degli obiettivi del controllo delle nascite influisce negativamente sulla loro carriera. I compaesani hanno ragione a lamentarsi e Chen Guangcheng organizza una sorta di class action e denuncia circa 130mila casi di operazioni illegali. All’epoca, era il 2005, fu addirittura intervistato dal Time e alla fine la Commissione nazionale per la pianificazione famigliare gli diede ragione. Non si preoccupò però di tutelarlo. Né lui, né i suoi cari. Le autorità dello Shandong lo imprigionarono più volte e con differenti scuse fino a quando, nel giugno del 2006, lo condannarono a quattro anni e tre mesi per aver danneggiato immobili e per aver organizzato una manifestazione che aveva bloccato il traffico. Dopo un lungo periodo di detenzione, il signor Chen esce di prigione a settembre 2010. Dopo 51 mesi di reclusione, si trova ora rinchiuso come dichiarerà «in una cella più grande» con tutta la sua famiglia: arresti domiciliari, senza alcuna motivazione. Questo abuso di potere da parte delle autorità che non avevano alcun diritto di confinarlo nella sua casa (tanto meno di confinarci i suoi famigliari) aveva fatto crescere l’indignazione pubblica. Così diventa il simbolo delle libertà negate. Da ottobre un sito raccoglie foto di persone che manifestano la loro solidarietà indossando un paio di occhiali da sole. E sono molti gli attivisti e i giornalisti che durante questo periodo hanno provato a raggiungere la sua abitazione senza successo. Tutti sono stati fermati, qualcuno è stato picchiato. Non ultimo l’attore americano Christian Bale, in Cina per girare l’ultimo lavoro di Zhang Yimou, Flowers of War, e la troupe della Cnn che lo accompagnava. Mentre nessun organo ufficiale confermava la sua presenza all’ambasciata americana, si cominciava ad esaminare il peso diplomatico della faccenda: un dilemma sia per la leadership cinese sia per quelle americana, entrambe impegnate a preparasi ai grossi cambiamenti che le aspettano il prossimo autunno (da una parte la transizione alla quinta generazione di leader e dall’altra le elezioni presidenziali). E in molti paragonavano il caso all’episodio che coinvolse Fang Lizhi, un astrofisico cinese che si rifugiò all’ambasciata americana dopo la repressione di Piazza Tian’anmen nel 1989. Nessuno avrebbe mai pensato che ci sarebbe rimasto un anno prima che le due potenze si mettessero d’accordo su una soluzione condivisa. Ma all’improvviso, il colpo di scena. Nel pomeriggio del 2 maggio Xinhua, l’agenzia di stampa governativa cinese che ancora non aveva scritto un rigo sulla questione, lancia la notizia bomba. Poche, laconiche, parole: «Si informa qui che Chen Guangcheng, originario della contea di Yinan nella provincia orientale dello Shangdong, è entrato nell’ambasciata americana e dopo sei giorni se ne è andato di sua volontà». Subito dopo si apprende che Chen Guangcheng è in un’ospedale della capitale, finalmente ricongiunto con moglie e figli di cui nel frattempo si erano perse le tracce e alla presenza dell’ambasciatore americano Gary Locke. Un comunicato entusiasta della Clinton, fa pensare che la situazione si sia risolta nel migliore dei modi possibili. «Sono contenta di aver facilitato la permanenza e la dipartita di Chen Guangcheng dall’ambasciata americana in un modo che riflette le sue scelte e i nostri valori». Chen dunque non avrebbe mai chiesto asilo politico, ma solo di poter frequentare la facoltà di legge in un’università cinese e l’assicurazione della tutela della sicurezza fisica sua e della sua famiglia. Ma la rete di avvocati e attivisti che ruotano intorno all’avvocato autodidatta non è convinta. Zeng Jinyan, moglie dell’attivista Hu Jia e considerata “il portavoce su Twitter di Chen Guangcheng”, urla attraverso un tweet: «Guangcheng mi ha parlato. Ciò che riportano i media è falso». Poi, il giorno seguente in un’intervista esclusiva alla Cnn, è Chen Guangcheng stesso che dichiara di aver accettato di uscire dall’ambasciata americana solo perché i funzionari americani gli avrebbero dato false informazioni sui pericoli che correva la sua famiglia. Intanto proseguono i colloqui tra le due potenze e l’avvocato ritratta le accuse all’amministrazione americana. La televisione di stato Cctv afferma che Chen Guangcheng può andare a studiare all’estero come qualsiasi altro cinese (e quindi con tutte le difficoltà che incontrano gli studenti cinesi che si iscrivono a un’università straniera, dal passaporto in poi, viene da pensare a molti). Ma siamo ancora lontani da una soluzione. Hillary Clinton, in un' attesa conferenza stampa dichiara semplicemente: «sono stati fatti progressi sui negoziati relativi alla situazione del signor Chen Guangcheng». Definisce poi «promettente» la dichiarazione diffusa oggi dal ministero degli Esteri di Pechino, secondo la quale Chen «può andare a studiare all’estero come ogni altro cittadino cinese». Insomma haohao xuexi, tiantian xiangshang, come diceva il presidente Mao. Studiare duramente, per migliorare ogni giorno. E intanto Chen Guangcheng è ancora nell’ospedale di Pechino. Cosa farà ora Pechino? Se Chen Guangcheng verrà perseguitato, sarebbe un gesto che potrebbe portare alle stelle la tensione con Washington, creando un forte imbarazzo per l'amministrazione Usa.
|