http://www.reteccp.org/ La convivenza multietnica stroncata dalla Banca Mondiale Siamo entrati in Bosnia di notte, inseguendo una mezza luna che si nascondeva tra nubi scure. L’orrizzonte che abbiamo attraversato al mattino era lo stesso paesaggio bosniaco di sempre, casette a due piani che punteggiano la pianura o i fianchi di un monte. Infine un’affollarsi di casette sempre più numerose ci segnala l’arrivo in città, traffico, gente per strada, grattacieli in stile qatariota e centro commerciali a go go, nessun segno del passato. Bene. Un milione di sconosciuti abitano Sarajevo e la rendono felice, noi cento trenta italiani, sconosciuti almeno quanto loro andiamo a celebrare qualcosa di cui nessuno vuole più veramente ricordare alcun chè. La marcia dei cinquecento e la seguente stagione della posta e della resistenza nella Sarajevo assediata, è qualcosa di importante per noi, anche per il Vescovo Pero Sudar, e per il Generale Divijak, ormai in pensione, uniche autorità che vengono a salutarci. Come se non fossero state stancanti le quindici ore di pullman, venticinque per gli studenti di scienze politiche di Lecce, ci gettiamo a capofitto nel traffico del centro per andare a piedi al ponte di Verbania, dove furono uccise Suada Diliberovic e Olga Sucic le prime vittime dell’assedio e dove poco più di un anno dopo è stato ucciso anche Gabriele Moreno Locatelli, bresciano, volontario dei Beati che insieme ad altri quattro era sul ponte di Verbania a manifestare per la Pace, nella giornata dei ponti e dei pani, azione analoga era stata messa in atto da altri Beati a Mostar. E così tra vento gelido e ricordi tragici salutiamo Gabriele Moreno, Suada e Olga, martiri del ponte di Verbanja. Il giorno seguente neve fuori e scambi di testimonianze dentro l’aula magna della scuola cattolica dove il Vescovo Pero Sudar ci ha ospitato. - Ma anche in carcere c’è stato qualcuno che ci ha recato vista … Non ci servivano solo viveri, avevamo necessità anche di altri messaggi; ed è stata proprio la solidarietà che ci ha permesso di sopravvivere -, ha testimoniato il Vescovo. A me pare che la cosa fondante da ricordare di quell’azione nel giorno dei diritti umani del 1992, sia il fatto che le autorità entrano a Sarajevo fino alle 4 del pomeriggio mentre l’ingerenza umanitaria della società civile riesce a entrare anche oltre le sette di sera. Questa frase del Vescovo Mons. Tonino Bello, può sembrare un luogo comune, ma riflette benissimo il successo di quell’azione, la crepa che è stata aperta nell’assedio avrebbe permesso a molti altri di entrare, non solo italiani ma da tutta Europa. Il concetto di ingerenza umanitaria realizzato sul campo è sicuramente stato discusso negli uffici dell’Onu come in quelli dei Ministeri degli esteri, tant’è vero che D’Alema chiamò guerra umanitaria l’intervento in Kossovo di alcuni anni dopo. Un messaggio che ha superto l'ipocrisia strumentale della politica e ha permesso di abbattere il tabù dell’inviolabilità dei territori dove sono in corso conflitti anche feroci, e permette a chi lotta contro la guerra di portare la propria solidarietà nel cuore dei conflitti. Guardiamo in questi anni alla forza suadente delle flotille che continuamente si scagliano contro il blocco navale di Gaza incrinando, ogni volta, l'immagine di Israele. In serata un bosniaco ci ha spiegato che la guerra non e mai finita e solo stata interrotta, e la costituzione uscita dagli accordi di Dayton obbliga ad un nazionalismo sempre piu esasperato, perché il presidente della Bosnia può essere solo una persona parte dell’entità mussulmana, di quella cattolica o di quella serbo-ortodossa. La Sarajevo testimone eroica e martire della convivenza multietnica, della condivisione e dell’aiuto reciproco tra le famiglie è stata definitivamente sconfitta da quell’accordo, che pure ha fatto tacere le armi. Oggi la Bosnia ha due sistemi di giustizia, e due sistemi educativi, ci è stato spiegato che al mattino, finite le lezioni, tutto il corpo studenti, insegnanti, impiegati e bidelli se ne vanno a casa e lasciano il posto al secondo turno con i loro annessi e connessi. Ancora, che la Bosnia vive di denaro prestato dalla Banca Mondiale e che sperano di entrare in Europa, come se non avessimo già problemi con il denaro prestato, in Europa, o forse proprio per quello, per poter sopravvivere insieme. Ancora il 62% del pil viene speso per l’amministrazione dello stato, qui ci hanno elencato una serie infinita di burocrati e di impiegati statali, naturalmente ognuno facente parte della sua entità etnico-religiosa. Con il risultato che tutto ciò per cui sono morti i difensori di Sarajevo, la multi-etnicità, la multi-culturalità eccetera sono morte insieme a loro. Valori che oggi è difficile recuperare, anche se ci sono una minoranza di cittadini che non si dichiarano parte di una delle entità e quindi non hanno accesso alla politica o agli impieghi statali, ma che ancora lottano per una Bosnia libera e democratica, patria di tutti i cittadini e non solo degli affiliati di Dayton. Insomma una reinpatriata auto celebrativa, utile agli studenti di Lecce, e rinfrancante per chi come me l’aveva vissuta. Ho avuto modo di riabbracciare alcuni degli amici di un tempo, ma davvero pochi. Siamo andati anche al cimitero a fumare una sigaretta insieme a Helena scomparsa da pochi mesi. Poi abbiamo ricevuto un saluto per telefono da Don Renzo Scapolo prigioniero di una casa di riposo nel comasco. Abbiamo anche cercato inutilmente altri amici e vecchi baretti ormai scomparsi da tempo. Tutto sommato una Sarajevo indaffarata e indifferente che non ha avuto ne tempo ne voglia di incontrarci ma che ci ha comunque fatto sentire il suo affetto. Nel giorno dell’anniversario, il 10 dicembre siamo andati con le bandiere della pace al monumento ai 1800 bambini uccisi dalla guerra e lì abbiamo chiuso la nostra escursione. La gente di Sarajevo ci guardava stranita dai finestrini appannati dei tram, senza forse capire cosa e perché, o forse alcuni si sono ricordati dei Blazeni Graditeli Mira, i Beati i Costruttori di Pace. Noi comunque abbiamo riporopsto la nostra narrazione del conflitto quella a cui storicamente siamo legati per convinzione e non certo per convenienza.
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