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La cooperazione internazionale ed il governo Monti Il Governo Monti ha introdotto il Ministero per la Cooperazione internazionale. Una scelta certo originale, che inserisce un fattore forse decisivo nel dibattito sulle forme della politica estera italiana e che, al contempo, apre diversi interrogativi e possibilità, in un momento di particolare declino della nostra cooperazione, proprio in quanto «parte integrante della politica estera italiana», come recita l’Articolo 1 della vigente legge 49 del 1987 sulla «Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo». Che significato politico assume, allora, all’interno di un Governo che di “tecnico” ha solo il fatto che non vi siano politici di professione, nato per risolvere la crisi finanziaria che ha colpito il nostro Paese in particolare, e l’aria Euro in generale, la nascita di questo Dicastero? Mai, prima d'ora, infatti, nella storia dei Governi repubblicani, era esistita questa posizione; a maggior ragione, la domanda circa la sua ratio si pone a fronte di un quadro di razionalizzazione delle competenze ministeriali e dell’esplicito segnale di sobrietà dato anche attraverso gli accorpamenti di Ministeri e competenze. E allora, quali sono le ragioni per la creazione di questo Ministero, peraltro senza portafoglio? Per inquadrare le possibili risposte, e gli scenari conseguenti, bisogna partire dall’evidenza che la legge 49/87, l’unica ad oggi vigente in materia di cooperazione, mette questa parte della politica estera italiana all’interno della Farnesina, attraverso la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (DGCS-MAE). Il primo obiettivo, dunque, è certamente quello di riscrivere i rapporti tra il nuovo Ministero e gli Esteri, anche tenendo in considerazione che l’attuale responsabile della Farnesina viene dal corpo diplomatico, che esprime da sempre tutti i Direttori Generali del MAE, incluso quello attuale della DGCS, il Ministro Elisabetta Belloni. E allora, c’è da chiedersi: assisteremo solo alla formalizzazione, per via “tecnica”, di una sorta di tricefalismo tra politiche estere e di cooperazione di “serie A”, probabilmente ancora gestite dal MAE (accordi multilaterali in sede europea ed ONU, rapporti con il comitato Dac dell’OCSE, processo di Parigi sull’efficacia degli aiuti, negoziazione delle iniziative di budget support e via enumerando), e le azioni di cooperazione di “serie B” in capo al nuovo Ministero: i rapporti, non sempre facili, con le Ong ed i paesi poveri i, pochi, progetti a dono, qualche campagna promozionale presso il grande pubblico, e cose di questo genere? Senza dimenticare che la “terza testa” di questo mostro è ovviamente il MEF, vero dominus di tutto, ed oggi sotto il Presidente del Consiglio. Oppure c’è qualcosa di più e di molto più prospettico che si delinea? Dato che la coperta è molto corta, siamo notoriamente allo 0,1% del Pil a fronte di un promesso 0,7% e di un tendenziale 0,3% della media europea, viene naturale chiedersi: che cosa potrebbe gestire in concreto un Ministero senza un suo portafoglio, ma senza neanche l’accesso a fondi che non ci sono? Si crea veramente un nuovo Ministero solo per poche, specifiche, competenze? E allora, più probabilmente, la ragione politica la troviamo quando si affronta il nodo della riforma della 49, oramai vecchia di un quarto di secolo, e nata prima della caduta del muro di Berlino. In altre parole, la nascita del Ministero per la cooperazione riporta in auge le fondamentali domande: di che cooperazione stiamo parlando? Qual’è l’orizzonte politico delle azioni di cooperazione oggi? Quali i soggetti? Quali le fonti di finanziamento? Quale struttura gestionale? Veramente si può credere, se questa fosse l’intenzione, di scorporare la cooperazione dalla Farnesina mantenendo intatto il dispositivo di legge? O la scelta è quella di mettere in essere una riforma de facto, per via tecnocratica appunto, senza passare per il defatigante dibattito in Parlamento? Dato che sono circa vent’anni che i vari Governo, di centro sinistra con Prodi, e di centro destra con Berlusconi, provano, o fanno finta, di riformare la cooperazione senza riuscirci, per vari motivi, ed interessi troppo lunghi a dettagliare, forse è venuto il momento di tagliare la testa al toro ponendo il potere legislativo di fronte ad una opzione chiara? Giusto per fare una ipotesi: si potrebbe abbastanza facilmente trasformare un Ministero senza portafoglio in una Agenzia di cooperazione, proposta a lungo contemplata nei vari progetti di legge (circa venti) sino ad ora discussi senza esito alcuno. Sono questioni, come si vede, che di tecnico non hanno nulla; anzi. Tornando alle priorità di programma per il Ministero della Cooperazione, che pur dovrà attivare, troviamo certamente in pool position il ritorno del nostro Paese alla soglia di credibilità internazionale. Abbiamo già detto che l’Italia è letteralmente scomparsa dall’orizzonte degli impegni internazionali sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDGs) con il suo risibile 0,1 % del Pil. E, dunque, il primo compito del Ministro sarà certamente quello di riportare il Paese in Europa anche da questo punto di vista, dato che, inoltre, l’assenza italiana grava come un macigno sul bilancio comunitario e sul raggiungimento degli impegni europei. Il Ministro sa bene, data la sua grande esperienza, che, ancor prima dei nuovi impegni, vanno onorati i vecchi. La foga sterminatrice di Tremonti, infatti, aveva azzerato non solo il Fondo per la Cooperazione, ma anche tutti i contributi a Fondi internazionali, come quello di lotta all’Aids, Tubercolosi e malaria. Per colpa dei nostri ritardi, infatti, non solo siamo stati estromessi dal Board del Fondo, ma rappresentiamo un peso insostenibile per le sue attività. E dunque il neo dicastero per la Cooperazione avrà non solo molto lavoro da fare, ma anche sufficienti fondi da trovare o, almeno, dovrà spendersi per sollecitarne l’allocazione. Ed anche qui, la strada è obbligata.
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