www.reteccp.org Un giorno al Social Forum In una mattina buia e bagnata mi avvio verso la stazione per raggiungere Firenze dove ieri si è aperto lo European Social Forum. Svoltato l’angolo mi si para davanti il massiccio pentagono del rinascimento fiorentino, la Fortezza da Basso, costruita per fornire un rifugio sicuro ai governanti in caso di rivolta, ma anche e soprattutto per impressionare e intimorire i fiorentini con la sua massa. Ricordo il precedente Social forum, affollato, rumoroso e pulsante di giovani europei decisi a cambiare la società e la loro vita. Questa mattina, sono quasi le nove, la piazza d’armi all’interno della fortezza è quasi deserta, capannelli qua e là indicano che l’evento sta per affrontare un nuovo giorno. Dopo qualche ricerca scopro la sala che ospiterà la sessione sulla Siria organizzata da Ipri rete CCP, tavolo ICP, Un ponte per… eccetera. Alessandro è già in sala impegnato nell’organizzazione insieme a Martina e ad altri. Piano piano arriva anche la gente che, con il passare del tempo finirà per riempire la sala ottagonale dedicata all’incontro. L’acustica è ostacolata dall’eco delle mura con l’altissimo soffitto, le voci sono impastate e si capisce poco, ma per fortuna ci sono le traduzioni simultanee che rimettono i discorsi in cuffia. I primi a parlare sono tre siriani, tutti accusano il regime di essere la causa della rivolta che, da una fase nonviolenta si è trasformata in lotta armata per l’autodeterminazione della società civile siriaana e contro i mafiosi criminali del clan Assad. Questa cosa non piace per niente alla massa critica della rete No War, accorsa a perorare la causa del regime. Non sembra vero, eppure è così. La prima dei no war si alza ed accusa gli organizzatori di avere strumentalizzato e organizzato male l’evento, perché ha parlato solo una parte dei siriani in conflitto. Con la scusa che bisogna dialogare con tutte le parti, che i ribelli islamisti compiono anch’essi crimini orrendi, e soprattutto che bisogna smascherare le strategie Usa che vogliono impossessarsi del paese, la massa critica dei quattro o cinque oratori No War spingono in un angolo i siriani, accusandoli di vivere all’estero e di lasciarsi imbrogliare dal grande Moloch della guerra americana. Assurdo, e anche triste, di fronte ho il primo siriano che ha parlato che è impallidito, non che fosse abbronzatissimo di suo, ma guarda in basso e probabilmente si chiede dove è capitato. Il secondo che ha parlato un uomo tarchiato coi baffi, si agita dietro, mentre il terzo, uno scrittore francese guarda il soffitto perplesso. Poi è la volta di una siriana francese che spiega che i siriani non si accettano l’un l’altro e che lei e alcuni suoi amici sono per il regime, ma dichiararlo apertamente è pericoloso a Damasco, dove è stata un paio di volte negli ultimi tempi. I no war applaudono. L’incomunicabilità, spiega è totale e i vecchi amici non si salutano più quando s’incontrano per la strada. Sembra la Bosnia di Sarajevo. Adesso è la volta di una signora di Sarajevo e anche di un giovane iracheno, entrambi dichiarano la loro solidarietà al popolo siriano che comprendono benissimo. Poi un giovane tedesco del partito comunista tedesco che è stato in Siria di recente, nella zona di Idlib, racconta che non ci sono terroristi islamisti ma solo autentici ribelli che vogliono rovesciare il regime degli Assad. Anche Alberto fa il suo intervento parlando del Kossovo e dell’allora lotta nonviolenta portata avanti da Ibrhain Rugova e da altri che l’Ambasciata di Pace frequentava assiduamente, prima che venisse stroncata dagli interessi degli americani, applauso dei no war. Si alza un giornalista di Guerre e Pace, Piero Maestri, il quale puntualizza con lucidità che la rete contro la guerra ha diverse anime e che lui non è affatto d’accordo con la massa critica dei no war, che comincia subito a rumoreggiare e ad interromperlo. Maestri continua dicendo che lui, come in fondo anche tutti i presenti, è contrario all’intervento esterno ma che, per procedere alla riconciliazione bisogna prima terminare il conflitto e che non ci può essere alcun dialogo con la dittatura, portando l’esempio del Cile di Pinochet. Insomma la solita commedia già sentita ai tempi di Sarajevo e della Bosnia, solo che allora non c’era il computer e le opinioni echeggiavano da lontano, non erano così quotidianamente pressanti e vicine come oggi. E’ cambiata anche l’intensità dell’impegno e dell’affluenza, prendo ad esempio per spiegarmi un commento al recente incontro di Madrid Agorà99: Il meeting in continuità con gli incontri passati non ha ceduto a ripiegamenti vetusti dell'epoca giurassica dei contro-vertici e delle esperienze dei social-forum, non si è fatto ammansire da vaghissime carte dei diritti da consegnare a chi poi? A quelle rappresentanze che i movimenti rifiutano e di cui approfondiscono la crisi da anni? Al contrario ha saputo costituirsi come spazio aperto di connessione dei processi organizzativi e delle lotte contro la crisi e l'austerità in Europa e nella zona mediterranea. Forse, a leggere fra le righe le cose stanno cambiando molto in fretta. E se io non mi sento offeso per esser stato definito dai no war un romantico, perché credo nella lotta della società civile siriana per conquistare la democrazia e l’uguaglianza, di sicuro i no war vanno ancora in giro con la palla al piede del mondo bipolare e di quel vecchio conflitto ideologico ormai trito e ritrito. Spiega bene questa cosa il Prof Giorgio Gallo: il quale racconta che la narrazione del conflitto israelo palestinese, e qui siamo d’un balzo alla sessione sulla Palestina, è molto cambiato e spesso i politici presentano soluzioni che si adattavano al conflitto in corso dieci o venti anni fa. Oggi, dopo la sconfitta della lotta armata, il conflitto si è trasformato in lotta per i diritti umani e in questo senso è frequentato anche da giovani israeliani che sentono sempre di più il bisogno di schierarsi con i palestinesi e fronteggiare il loro stesso esercito. In fondo Israele va perdendo ogni giorno quell’idea di paese democratico che aveva un tempo. Oggi i nuovi coloni ultra ortodossi, invece di essere esonerati dal servizio nell’esercito israeliano, formano la loro brigata e all’interno di essa anche un corpo d’elite come forza d’assalto. Costoro non sono ebrei autoctoni, dice il prof., vengono da Brooklin e da altre zone degli Usa. Luisa Morgantini aggiunge che la fascistizzazione dello stato di Israele è ormai un dato di fatto, per questo la resistenza è sempre più trasversale, perché anche molti israeliani si sentono oppressi da questa destra oltranzista e ossessionata da Dio. Insomma gli ultra ortodossi ebrei, non sono poi così diversi dagli islamisti, che fuggono dalla povertà delle zone rurali del Medio Oriente per potersi unire alla guerra santa, conoscere il mondo, migliorarsi e combattere per la gloria di Dio. Così come a suo tempo i cetnici calavano dai monti, privi di freni inibitori per praticare la pulizia etnica. L’ossessione di Dio riduce i freni inibitori, di fronte al classico Dio lo vuole, tutto è concesso, giustificato e approvato. lo vediamo anche in Africa dove, in certi paesi, andare a Messa la domenica è un gesto coraggioso a causa degli attentati con l'esplosivo gettato all'interno delle chiese durante le funzioni. o in Egitto dove hanno attentato alla vita del patriarca. o in Mali dove sono state distrutte le tombe monumentali dei sufi dell'Islam. per non parlare della Cina dove il sistema è in guerra perenne contro tutte le religioni che non si adeguino alle investizioni pilotate. o in Banladesh e in Birmania dove le comunità islamiche e buddhiste si combattono con le armi e con il fuoco. L’ossessione di Dio eccita la morte che ebbra di disperazione miete l’innocenza. Conflitti causati dalla totale censura dei rapporti tra gruppi religiosi, nonchè dall’erosione continua dei diritti delle minoranze religiose e/o etniche, ma anche dei diritti acquisiti delle classi lavoratrice dei paesi occidentali. Conflitti che spogliano l’uomo della fede e lo immergono in un materialismo sanguinoso e malsano, un pantano di dubbi e diffidenze che monta come una marea. Costante e irrefrenabile. Nel pomeriggio, un nuovo incontro sulla Siria, questa volta promosso dai siriani del Coordinamento Nazionale Siriano per il Cambiamento Democratico, parla Michelle Kilo esponente del partito democratico e del coordinamento: tra l’altro ricorda che già a febbraio del 2011, dopo reiterate richieste di riforme presentate dalla stessa formazione democratica e a volte anche da Michelle Kilo in persona, Assad non trovò di meglio che minacciare l’inizio della guerra. Per questo insiste, oggi non si può più pensare ad instaurare un vero dialogo. Ai tempi le manifestazioni nonviolente che caratterizzarono la primavera del 2011 erano partecipate da tutte le aree della società civile siriana, baahtisti e alawiti, cristiani e sunniti, curdi, turcomanni e sciiti. Nessuno di loro era armato e nelle moschee non si nascondevano armi. Molti di loro nonostante militassero nelle file del partito socialista Baath, furono incarcerati e/o deportati nei loro villaggi di origine per allontanarli dalle città. Inoltre, aggiunge Kilo, già nei primi sei mesi della rivolta ci furono 20.000 morti e 350.000 persone passarono per le prigioni del regime, compresi i bambini. Solo l’accanimento del regime nel negare ogni riforma democratica può essere considerato responsabile dell’attuale guerra per l’autodeterminazione del popolo siriano. C’erano anche i no war, ma un flebile tentativo di interrompere è stato stroncato da un fermo s'il vous plait. Proprio ora mi sono andato a rileggere il comunicato che la Carla redasse in occasione della manifestazione del 17 febbraio, quando sempre i no war fecero lobby per delegittimare la manifestazione del Cns a Roma, organizzata da sindacati e Tavolo della Pace. Proprio in forza dell’intervento del Coordinamento Democratico, che oggi non è certo allineato all’oltranzismo no war. Su quella dichiarazione, fra l’altro si legge: Non crediamo che il parteggiare in un conflitto sia nonviolenza e vogliamo unicamente sostenere le posizioni dei civili disarmati che chiedono il rispetto dei diritti umani e la possibilità di non schierarsi per poter rimanere in vita. Mi ci riconosco ancora oggi, quello che non capisco è la pretesa di conoscere la situazione meglio di coloro che la stanno subendo, immersi nel sangue dei loro cari, un giorno dopo l’altro. Negare l’attendibilità delle testimoninanze dei siriani è una cosa al di là del bene e del male. Con tutta la buona volontà non riesco a riconoscere legittimità alcuna ad una posizione così assurda. Me ne torno sui miei passi, fino alla stazione termini di Firenze. Sul treno leggo un’intervista a Luis Sepulveda; ex guardia del corpo di Salvator Allende, imprigionato e torturato dal regime di Pinochet e poi liberato e sbarcato in Europa. Scrittore di talento, parla del suo ultimo libro per bambini, ancora sull’amicizia fra animali nemici, gatti e gabbianelle, gatti e topini eccetera. L’articolo si conclude così: - Di tutto quel tempo, rimane il grande amore e l’ammirazione per chi ha sofferto con me il carcere e la tortura. Non posso dimenticare nessuno di loro: tornavano dagli interrogatori feriti, sanguinanti, senza denti, senza unghie, i corpi maciullati dalle botte. Avevano però occhi pieni di luce, molti appena riuscivano a farfugliare qualcosa, mi prendevano una mano e mi dicevano non ho parlato compagno, non gli ho detto niente … - Questi uomini e queste donne sono i miei fratelli, i miei amici. Sono la dignità e la forza. Sono la mia forza. Riguadagno le mie orme verso casa in una sera buia e bagnata come la mattina, calpesto i miei passi salendo le scale che mi riportano nella mia vita accogliente, fatta di tagliatelle al ragù e medicine salvavita gratuite, per fortuna ancora garantite dalla costituzione del mio paese, fino a quando non è dato sapere.
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