di CT zen Uranio impoverito, marò malato: “Lasciati soli. Io e i miei compagni moriremo tutti” Salvo Cannizzo, 36 anni, ha un tumore al cervello e nessun dubbio: "Mi sono ammalato a Djakoviza". Secondo i medici gli restano pochi mesi di vita, che ha deciso di dedicare per denunciare "la condizione di duemila militari in Italia, abbandonati dallo Stato, ammalati senza che gli venga riconosciuto lo stato di servizio" “Gli americani hanno disseminato il Kosovo di bombe all’uranio non esplose: le buttavano anche senza inneschi, pur di rinnovare gli armamenti”. Salvo Cannizzo, 36 anni, ha un tumore al cervello e nessun dubbio: “Mi sono ammalato a Djakoviza, quando ero un marò del battaglione San Marco”. Secondo i medici gli restano pochi mesi di vita, che ha deciso di dedicare per denunciare “la condizione di duemila militari in Italia, abbandonati dallo Stato, ammalati senza che gli venga riconosciuto lo stato di servizio”. Da aprile, data del suo ultimo intervento, e fino a pochi giorni fa ha rifiutato controlli medici e cure: uno sciopero della chemio, per vedere “se il ministero della Difesa ha il coraggio di lasciar morire me e gli altri duemila soldati italiani nelle mie condizioni”. Ci ha ripensato, forse è troppo tardi ma si curerà “convinto dalle persone che mi vogliono bene”. Ma di cose da dire sulle sue missioni in Kosovo ne ha tante dopo mesi in silenzio causati dall’asportazione di parte dell’emisfero sinistro del cervello: “Gli americani sapevano dei rischi dell’uranio, lasciando noi italiani nelle zone ad alto rischio: ho visto a Djakovica squadre trattare del semplice munizionamento con tute da “astronauti” e autorespiratori”. Diciassette anni di servizio nell’esercito, in congedo definitivo da settembre del 2011, gli ultimi cinque passati da impiegato civile a causa del tumore, da cui pensava di essere guarito. Dal 1999 al 2001 in Kosovo è stato quattro volte, ricevendo in premio una medaglia, una croce di ferro, il grado di sergente e tanti soldi. “Ho amato il mio lavoro e i miei compagni di squadra sono per me come fratelli. Ma sono entrato nell’esercito perché avevo bisogno di soldi, 72 dollari al giorno per le missioni oltre alla paga di duemila euro al mese. Non me ne pento, dovevo comprare casa”. Oggi vive con la seconda moglie a Catania con una piccola pensione da 800 euro al mese, con cui paga affitto, gli alimenti alla prima moglie e le spese mediche. Una situazione diventata insostenibile per Salvo, che ha finito i risparmi di una vita passata nelle missioni all’estero. “Eravamo in nove nella mia squadra e cinque di noi si sono ammalati di tumore in varie parti del corpo. Proprio per questo il ministero della Difesa dice che non c’è rapporto di causa-effetto, ma è ridicolo: normalmente la casistica prevede un malato ogni migliaia di persone”, racconta Salvo. Secondo cui, a causa della malattia contratta per cause di servizio, lo Stato dovrebbe riconoscere a ognuno di loro un indennizzo di almeno due milioni di euro. “Uno dei miei fratelli del battaglione, un compagno di squadra, è già morto continua Cannizzo e tra tre mesi toccherà a me, poi a un altro, fin quando non moriremo tutti e lo stato avrà risparmiato miliardi: per loro i duemila soldati ammalatisi in Kosovo sono una piccola finanziaria“. Salvo viene da Librino, grande rione della periferia sud di Catania, dove ha avuto anche un piccolo ruolo politico come consigliere di quartiere. “Finita la scuola, ho iniziato a lavorare come restauratore. Cinquantamila lire a settimana. Ho resistito un anno e poi sono partito volontario nell’esercito”. Era il 1995, aveva diciannove anni. “La mia scelta è stata motivata solo da motivi economici ed è una cosa che non ho mai nascosto, nemmeno nei colloqui nell’esercito. Ma il basco, la divisa militare e il rapporto strettissimo con i miei compagni, mi hanno cambiato: sentivo lo spirito di corpo“. Una premessa necessaria per Salvo, che quello spirito nonostante sia lontano dalle missioni dal 2006, quando il suo tumore si è presentato la prima volta, lo sente ancora oggi. Parla di Djakoviza e di come la mattina con i suoi compagni andasse “a fare jogging, a respirare a pieni polmoni l’uranio, in mezzo alle macerie di una città distrutta. A quei tempi non sapevamo perché auto e carri fossero praticamente dissolti. Erano solo le radiazioni“. Delle sue missioni ricorda bene l’ambiguità. “Erano chiamate di peace keeping: un giorno dovevamo mostrarci amici, il giorno dopo magari dovevamo disarmare una squadra dell’Uck” racconta. Sulla guerra in Kosovo ha un’opinione netta: “Dovevamo cacciare chi era da sempre in quei territori per far spazio ai nuovi arrivati. Una guerra ingiusta, nata solo perché una guerra gli americani dovevano farla”. Ingiusta, ma non solo per la popolazione: “Noi italiani eravamo lasciati soli a Djakoviza. Gli americani, che stavano in una città vicina, la bombardavano sistematicamente. Ma spesso le bombe non esplodevano”. Ordigni senza innesco, denuncia Cannizzo, eliminati “per acquistarne altri, anche le bombe hanno una data di scadenza, dopo dieci anni devono essere smaltite e farlo costa tantissimo”. Bombe “pagate con i soldi della Nato per proseguire il loro businness, acquistarne altre”. Salvo adesso aspetta che le sue denunce arrivino a quanta più gente possibile, per “far sapere quale era la situazione, perché sono convinto che i vertici militari italiani sapessero”. Non crede nelle class action contro l’uranio impoverito: “So già che non ci pagheranno mai, moriremo tutti”. E, dopo lo sciopero della chemio che lo ha indebolito, se non dovesse farcela, almeno avrà scelto “quando morire, visto che non posso più scegliere quando vivere”.
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